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Comprensibilmente la critica si è perlopiù finora tenuta lontana dall’arduo compito di delineare un confronto puntuale tra l’opera di Günther Anders e quella di Hannah Arendt: il volume Scrivimi qualcosa di te, ora tradotto in italiano, si può a buon diritto considerare un imprescindibile punto di riferimento per qualunque studioso che, d’ora in poi, voglia misurarsi con le biografie intellettuali di due tra le più eminenti personalità del Novecento. Prima della pubblicazione, il carteggio era custodito in parte nel lascito andersiano presso l’archivio della Österreichische Nationalbibliothek di Vienna, e in parte in quello arendtiano conservato presso la Library of Congress di Washington: di quest’ultimo lascito, inoltre, sono custodite delle copie in microfilm presso l’Hannah Arendt Zentrum della Carl von Ossietzky Universität di Oldenburg. Il notevole lavoro editoriale che sta alla base del volume in questione rappresenta certamente un mirabile tentativo di raccordo tra le due biografie dei due autori in questione – così simili, eppure così divergenti; ma più ancora, si configura come una base solida oltre che irrinunciabile per ogni studio futuro che si soffermi su somiglianze e divergenze anche sul piano teoretico, non solo biografico, nella consapevolezza che, nel caso di queste due personalità intellettuali, la dimensione del pensiero sia inscindibile da quell’“odissea” esistenziale di cui nulla meglio di un epistolario può tenere traccia. Il volume è composto da una prefazione all’edizione italiana, una prefazione all’edizione originale, e tre sezioni: nella prima sono contenuti il carteggio Arendt-Anders, composto da 54 lettere in tutto, e tre lettere di Anders al romanziere Lion Feuchtwanger; nella seconda sezione sono inclusi i saggi “speculari” su Rilke e Mannheim; la terza sezione comprende gli scritti in nome del comune amico Walter Benjamin. Al centro, vi è una piccola sezione di fotografie, e il volume si chiude con una postfazione della curatrice.

Il carteggio e i documenti pubblicati nel volume sono una preziosa testimonianza di vita privata e di riflessione filosofica – il legame tra le due dimensioni risulta, come si diceva, di particolare importanza – condivise da due pensatori che hanno intrattenuto rapporti intensi, seppur discontinui, dalla metà degli anni Venti fino al 1975. I due si conoscono ad un seminario di Heidegger nel 1925 a Marburgo, quando Günther Anders portava ancora il suo cognome di nascita, Stern, e Hannah Arendt intratteneva una relazione clandestina con il suo maestro. Si può dire che, per Anders, quella di Heidegger sia stata una presenza ingombrante anche dopo gli anni di Marburgo, almeno per due motivi: innanzitutto, per via di un confronto polemico con quello che, d’altronde, era stato anche il suo maestro, e in secondo luogo, a causa di una rivalità personale con l’uomo con cui la Arendt aveva intrattenuto una relazione amorosa non soltanto ancora viva nei suoi ricordi, ma anche riflessa dal ricco carteggio che ella continuava a intrattenere con il suo maestro. È interessante, infatti, notare come il nome di Heidegger compaia nel carteggio solo una volta, menzionato da Hannah, in un riferimento polemico che cade nel vuoto, come testimonia la lettera del 31 maggio 1958. Anders e Arendt non si rivedranno fino al 1929 a Berlino, ad un ballo in maschera: qui si sposeranno frettolosamente, e resteranno insieme fino al 1937. Il loro rapporto è stato estremamente complesso, e le numerose differenze riscontrabili nelle rispettive personalità intellettuali, si può ipotizzare, non sono certo state estranee alla rottura; sicuramente, gli eventi politici che attanagliarono l’Europa in quegli anni contribuirono alla fine annunciata del loro matrimonio, consegnando entrambi ad una fase travagliata di instabilità e indigenza, dovuta all’emigrazione, per salvarsi dalle persecuzioni naziste. Una ripresa dei loro rapporti per via epistolare avviene appunto nel 1939, quando la Arendt, insieme al secondo marito Heinrich Blücher, berlinese conosciuto a Parigi, ha bisogno dei documenti necessari per l’espatrio e chiede all’ex marito, già emigrato, di procurarglieli. Nella presentazione dell’edizione italiana che apre il volume, Donatella Di Cesare evidenzia l’asimmetria (p. XII) nel rapporto tra i due, che emerge nell’affetto profondo e duraturo da parte di Anders nei confronti di Arendt, e ricambiato, si può dire, a stento e non tanto a lungo da lei. Si può supporre che una delle ragioni di tale asimmetria sia da rintracciarsi anche nei percorsi di vita incompatibili intrapresi da entrambi nel dopoguerra. Se Hannah Arendt, dopo i primi anni negli Stati Uniti dedicati all’attività umanitaria in soccorso dei profughi ebrei, riuscì infine a integrarsi con successo nel mondo accademico americano, Anders, al contrario, a causa dei suoi primi insuccessi nello stesso ambito, si rivolse verso il mondo della carta stampata, e durante i primi anni da rifugiato in America si dedicò ai lavori più disparati, dal traduttore all’operaio. E al contrario di Arendt, di conseguenza, ormai ben installata nell’ambiente accademico statunitense, Anders nel 1950 avrebbe colto la possibilità di tornare in Europa. La decisione di Anders si fondò su una disillusione verso gli ideali di pace e libertà incarnati dagli Stati Uniti d’America, che egli giudicava traditi da quell’evento traumatico che fu l’«Olocausto atomico» del 1945. La seconda parte dell’epistolario registra appunto questa distanza incolmabile, non solo geografica, ma anche di ambizioni e di scopi: si susseguono gli incontri mancati fino al 1961, anno in cui i due si rivedono a Monaco, evento che non manca di ispirare ad Anders parole che risuonano dell’antico affetto, mai sopito, riportate nella lettera del 13 dicembre 1961. Il carteggio prosegue fino alla morte di lei, avvenuta nel 1975 nel suo appartamento di New York, per un attacco cardiaco.

Una matrice comune del pensiero di Anders e Arendt può sicuramente essere rintracciata a partire dalle origini ebraiche, che portarono entrambi a guardare alle vicende politiche europee da un punto di vista diverso: quello del pariah, dell’emarginato, dell’escluso, il quale, in virtù della propria emarginazione, ma anche indipendenza intellettuale, acquisisce un punto di vista eccentrico in relazione alle vicende del mondo. Inoltre, la forte comunione intellettuale tra i due, che coincise con gli anni del matrimonio, ha portato entrambi a risultati teorici che riecheggiano, indirettamente, nelle opere successive di entrambi. Eppure, nonostante tale comunione di idee, invano si cercherebbero citazioni o riferimenti incrociati – almeno in termini espliciti – tra le rispettive opere. Anzi, sembra quasi che i due si siano reciprocamente trattati secondo una “congiura del silenzio”, ognuno evitando di confrontarsi apertamente con il pensiero dell’altro. Certamente, nella loro opera, Arendt e Anders si confrontano e analizzano quel mondo industrializzato da cui sembra drammaticamente scomparire la possibilità di un’azione libera e responsabile. Ma mentre Arendt avrà la possibilità di esporre le sue tesi con chiara fermezza, riflesso dell’autorevolezza della comunità accademica, ad Anders, per via delle tormentate vicende della sua vita, non verrà mai concessa l’occasione di fare altrettanto, o almeno non negli stessi termini: la frustrazione, l’amarezza, il sarcasmo si riflettono tragicamente, come ha notato Pier Paolo Portinaro, in quel «rigorismo morale» tipico della sua opera. La critica, tuttavia, per via del comune terreno di confronto e degli orizzonti culturali in cui entrambi si sono mossi, non ha esitato a considerarli persino “sinfilosofi”, in virtù della forte comunione di pensiero tra i due, che emerge dagli altri testi inclusi nel volume relativi a quegli anni: corrispondono infatti al 1930 il commento, scritto a quattro mani, delle Elegie duinesi di Rilke, e le due analisi speculari di Ideologia e utopia di Karl Mannheim. I risultati di tale sinergia riecheggiano, indirettamente, nelle opere successive di entrambi, da cui emerge una chiara convergenza filosofica, anche dettata dalle conclusioni tragiche a cui è costretta a giungere la “filosofia dopo Auschwitz”.

Vale la pena menzionare l’affascinante commistione di lingue a cui i due fanno ricorso nel loro scambio epistolare, testimonianza della loro odissea esistenziale, comune a tanti intellettuali ebrei costretti a fuggire dall’Europa, per i quali il libro più bello che si conosca «è il passaporto», come scrive Hannah nella lettera del 29 dicembre 1959. Ciononostante, il loro legame con la lingua e la cultura tedesca ha sempre costituito il fil rouge che raccorda le varie tappe di questo viaggio. Nel corso della loro esistenza travagliata e i loro spostamenti tra l’Europa e gli Stati Uniti, infatti, non hanno mai rinunciato, e il carteggio lo dimostra, al legame con le proprie origini, il quale si manifestava nell’uso della lingua madre soprattutto nelle lettere private, unico contatto con gli amici di lingua tedesca sparsi per il mondo per sfuggire alle persecuzioni. Sia in Anders che in Arendt si rinviene un’ammissione di debito nei confronti della lingua tedesca, e un sentimento di appartenenza, dunque, non tanto a un luogo, quanto a una cultura e ad un universo di pensiero. Tutto ciò spiegherebbe il loro atteggiamento conflittuale nei confronti della lingua inglese. Entrambi, nell’epistolario, fanno ampio uso delle espressioni inglesi, intersecandole con il tedesco, come a volte fanno le persone bilingui che scoprono le risorse linguistiche di un altro idioma, quando la propria lingua madre non sa esprimere altrettanto bene lo stesso concetto; eppure, si tratta di brevi frasi, a volte ironiche, coronate dal commento divertito di Hannah, nella già menzionata lettera del 29 dicembre: «Non penserai davvero che sono diventata un’“americana”». Forse anche per via di questo stretto legame affettivo con la lingua madre, Hannah non riuscì mai a parlare un inglese fluente e senza accento o, per dirla con le sue parole, «in modo idiomatico». Quanto a Günther, il rigetto della lingua e della cultura inglesi sicuramente giocarono un ruolo decisivo nella sua scelta di abbandonare gli Stati Uniti e tornare a vivere in Europa. Non si può fare a meno di notare, dunque, un certo orgoglio da parte di entrambi in questo loro rifiuto di imparare a parlare fluentemente in inglese, come se ciò comportasse una rinuncia a quel legame esclusivo con la lingua madre e con la natia Germania, con l’insieme dei valori che essa portava con sé.

È interessante la scelta dell’edizione originale tedesca di selezionare una frase dalla lettera del 20 febbraio 1956 come titolo della raccolta: «Schreib doch mal 'hard facts' über Dich», scelta che non è stata del tutto mantenuta in italiano, da cui è stato espunto il riferimento agli “hard facts”, cioè l’aspetto della quotidianità, della concretezza dell’esistenza. Un meraviglioso esempio di tale concretezza si trova nella sezione fotografica, in cui è riprodotto il telegramma inviato da Hannah a Günther il 23 maggio del 1941 per annunciare il suo arrivo sul suolo americano: “Sind gerettet”, si legge, e in queste parole si legge l’epilogo di un’odissea, e un nuovo inizio. In definitiva, l’opera costituisce un riferimento fondamentale per gli studiosi del settore, ma non si fatica a vederne spunti di lettura stimolanti anche per il grande pubblico: in queste pagine si ritrova una sorta di diario intellettuale che, ben più che registrare «hard facts» delle rispettive vite è anche una preziosa testimonianza di un ininterrotto dialogo filosofico tra due dei più importanti intellettuali del Novecento.

di Alessandra Maglie

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