La domanda intorno al significato e al ruolo della psiche non è una questione come tutte le altre: essa ci riguarda infatti talmente da vicino da mettere in questione la responsabilità e il ruolo dell'uomo. Nel suo ultimo breve saggio, edito da Bollati Boringhieri, il noto analista junghiano Luigi Zoja prova a fornire alcune risposte in merito, o meglio, a mettere il lettore nella condizione di farsi nuove domande. La caratteristica della psiche su cui si focalizza il testo, scelta come chiave per accedere ai segreti di quest’ultima, è la capacità proiettiva. Seguendo Freud, Jung e Hillman, la proprietà fondamentale dell'inconscio è individuata nell'atto di riversarsi all'esterno e attribuire a porzioni del mondo aspetti e pulsioni che in realtà hanno origine nell'inconscio. La psicoanalisi è nata su base illuminista e i suoi fondatori (a partire da Freud) hanno coltivato l'utopia di una riappropriazione, da parte della coscienza, di tutte le sue proiezioni, una riappropriazione che potesse dar luogo a una corrispondente piena assunzione di responsabilità da parte dell'uomo. Secondo Zoja – ma già Jung era progressivamente andato verso questa consapevolezza – la funzione proiettiva è invece costitutiva della psiche e perciò insopprimibile. Siamo “esseri proiettanti”: la nostra psiche non è in grado di assorbire tutti i contenuti e le emozioni (in particolare quelle negative) che essa produce, e pertanto scarica parte di essi sull'esterno. Questa funzione di per sé non è patologica, e anzi consente all'uomo di abitare la Terra imprimendovi la propria impronta, di volta in volta diversa secondo i contesti storici e sociali. Ne consegue però che un pieno possesso di se stessi, che comporti la presa di coscienza assoluta e trasparente della sfera pulsionale e dei suoi meccanismi, non è raggiungibile, anzi forse non è auspicabile, perché va contro il modo in cui la psiche funziona. Pretendere di costruire una società o di intraprendere un percorso individuale guidati dallo scopo di estinguere l'inconscio e le sue proiezioni può rivelarsi controproducente, e suscitare contraccolpi patologici difficili da gestire.
Secondo Zoja (che qui fa riferimento all'importante opera di Erich Neumann del 1949, Storia delle origini della coscienza) è possibile tracciare una storia, allo stesso tempo filogenetica e ontogenetica, delle modalità proiettive della psiche. Va detto che un simile tentativo, per quanto affascinante, non è esente dal rischio di riproporre schemi di sapore hegeliano o comunque etnocentrico, ma ha il merito di mettere in luce le contraddizioni della società attuale inquadrandole in una prospettiva psicostorica di ampio respiro. In una fase aurorale, propria sia delle civiltà cosiddette primitive sia della primissima infanzia, la psiche proietta se stessa nel mondo senza soluzione di continuità: non solo gli altri esseri umani, ma gli animali, le piante, gli oggetti e gli elementi del cosmo sono animati, e vissuti come se avessero consistenza psichica ed emotiva. Questa modalità di fare esperienza non conosce distinzioni nette fra interno ed esterno, tra coscienza e mondo, e corrisponde a quella “partecipazione mistica” che secondo Levy-Bruhl contraddistingue il modo di pensare delle civiltà tradizionali. Rispetto a questo stadio iniziale, il passaggio al monoteismo costituisce una fase più avanzata. L'investimento psichico diretto verso un dio trascendente è essenzializzato e razionalizzato; allo stesso tempo il cosmo subisce un disincanto, cessa di essere animato da dei, e diviene qualcosa a cui è possibile rapportarsi con maggior distacco. In una fase ancora successiva anche il dio unico e trascendente si dissolve, “muore”, e lascia l'uomo privo di un riferimento sicuro verso cui dirigere le proprie proiezioni e aspettative. Tuttavia il meccanismo proiettivo, intimamente radicato nella nostra psiche, non può cessare di colpo: il vuoto deve essere riempito. L'assenza di dio è mancanza di qualcosa che ancora sentiamo in qualche modo nostro, di cui avvertiamo il bisogno e la nostalgia. Tra i tentativi di rioccupazione del posto vacante lasciato da dio, l'esito più tragico è il fenomeno dei totalitarismi. La nostalgia della partecipazione mistica ormai perduta è riattivata dai regimi totalitari del Novecento attraverso la divinizzazione della massa – intesa come razza, classe o più semplicemente popolo di una nazione – sempre sfruttata e manipolata in modo da risultare funzionale al potere di un leader carismatico, sacerdote officiante i riti della politica fattasi religione. Ogni qualvolta la massa è divinizzata e celebrata poiché eletta, superiore, destinata a dominare, avviene la corrispettiva individuazione di un capro espiatorio a essa esterno, un nemico su cui concentrare la violenza e l'odio, e verso cui canalizzare quello che in termini freudiani è definito “impulso di morte”.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale e ancor più con la fine della Guerra Fredda, conclusasi in gran parte la stagione dei totalitarismi, il modello oggi sopravvissuto è quello individualistico e liberale (il cosiddetto terrorismo di matrice islamica potrebbe essere interpretato come un estremo rigurgito di nostalgia totalitaria e collettivistica da parte di una cultura che ha subito l'egemonia della società liberale di matrice occidentale senza essere passata attraverso l'illuminismo). La condizione psichica attuale conosce una tensione maggioritaria a ritirare ulteriormente le proiezioni all'interno degli individui, rimasti l'unica fonte di senso. La società è svuotata di riferimenti trascendenti e perciò si atomizza, i rapporti tra le persone e tra le persone e le cose si raffreddano, riducendosi a scambi di natura utilitaristica e materiale. Se questa condizione favorisce la tutela delle libertà individuali, comporta allo stesso tempo un sacrificio psichico probabilmente troppo alto e brusco, che non può non provocare contraccolpi patologici. Assistiamo così a processi come la divinizzazione del denaro, nuovo generatore simbolico di valori, la trasformazione degli oggetti di consumo in feticci, la massimizzazione dei risultati come orizzonte di vita cui uniformarsi, e la conseguente regolazione dei rapporti su base puramente utilitaria unita alla creazione di potenti dinamiche di esclusione.
Non si tratta di demonizzare la società in cui viviamo, o per lo meno le sue caratteristiche più diffuse, ma di riconoscerne l'unilateralità e la ristrettezza. L'inconscio, se eccessivamente schiacciato su una sola polarità tra le molte possibili, tende infatti a reagire. Testimonianza di ciò è la tendenza crescente fra i giovani – dagli hikikomori, gli adolescenti giapponesi ritirati in casa, ai NEET europei – a chiudersi dentro le mura ristrette della realtà familiare per evitare di fare i conti con una realtà esterna minacciosa e competitiva. Le relazioni con l'esterno, divenute virtuali, e il rifiuto degli obblighi imposti dalla società danno vita a simili figure di nuovi sedentari – quasi degli eremiti urbani – che però evitano il passaggio del divenire coscienti della loro differenza. Di fatto, non elaborando a livello interiore le loro scelte, essi non riescono a ricondurle alle effettive distorsioni della società che li circonda, rivelandosi così portatori di un “tesoro sociale non investito”. C'è invece chi, pur avvertendo le storture e i limiti del modello sociale diffuso, prova a costruire modelli alternativi, spesso su piccola scala, dedicandosi a plasmare e rivivificare su basi maggiormente inclusive il consumare, l'abitare, il modo di relazionarsi. Qui, l'“anima del mondo” rimossa si riaffaccia ancora una volta, in modo pulviscolare, dando luogo a una sorta di “nuovo animismo”. Ciò che emerge in questi tentativi di ri-generare la società partendo da piccole pratiche mirate è la riscoperta di proiezioni che sembravano scartate dalla storia e che ricompaiono in piccole comunità di condivisione in relazione alla natura e agli altri esseri viventi. Zoja chiama questi costruttori di spazi differenti “nuova generazione critica”. Essa si presenta più introspettiva, modesta e concreta rispetto alla vecchia generazione: meno ideologica e appariscente, ma forse alla lunga più promettente. Come tutti i tentativi umani, anche questo può essere destinato a fallire o a perdersi di fronte a imperativi sistemici più forti. Probabilmente le chances future della “nuova generazione critica” si giocheranno sulla capacità di rendere il “nuovo animismo” davvero “nuovo”, in altre parole in grado di dialogare positivamente con le dinamiche più radicate che attraversano la società, senza coltivare il sogno velleitario e segregante di non contaminarsi, ma evitando al contempo di affogarvi del tutto.
di Luca Pagano