Era sera ed ero in coda da qualche parte. Poi, a un tratto, ho letto:
È il 15 dicembre 2022, ed è morta bell hooks.
Non immaginavo che la scomparsa di un’autrice, incontrata soltanto un anno prima, potesse lasciarmi addosso una sensazione analoga a quella che avevo già provato nel perdere dei punti di riferimento.
Mi sono allora chiesta perché e in che modo, senza accorgermene, avesse assunto un simile ruolo; per cui ho deciso di provare in parte a mettere nero su bianco ciò che bell hooks mi ha trasmesso.
Il femminismo è per tutti – scriveva nel 2015 all’interno dell’omonimo libretto che ho scelto di attraversare, tradotto in italiano da Maria Nadotti e pubblicato da Tamu Edizioni nel 2021 – evitando di nascondere il proprio io dietro a terze persone tanto impersonali quanto inesistenti, dietro a giri di parole tanto impeccabili quanto incomprensibili. Non è infatti – il femminismo – un mero stile di vita: non è possibile approcciarsi ad esso senza esporsi personalmente, dal momento che riguarda innanzitutto la capacità di fare i conti con il sessismo che ognuno trascina dentro di sé.
Del resto, «per capire il femminismo è necessario capire il sessismo» (p. 31), nelle cui insidie cadono tanto gli uomini quanto le donne: questo è il presupposto da cui parte bell hooks nel dire che, appunto, il femminismo dev’essere per tutti: deve assumersi la missione di includere. Il sessismo diventa allora l’elemento che le consente – nel primo capitolo – di stendere innanzitutto un itinerario degli sviluppi storici del movimento femminista e, poi, di distinguere tra femminismo riformista e rivoluzionario. Il primo (quello con maggiore risonanza mediatica), ponendosi come obiettivo principale il raggiungimento della parità di genere e della mobilità sociale, considera l’impegno verso la lotta al sessismo un elemento quasi accessorio; mentre il secondo, ponendosi come scopo la trasformazione radicale del sistema patriarcale (e quindi non la sua semplice modifica), vede nella lotta al sessismo una delle sue principali missioni.
Mettere fine all’oppressione sessista è infatti ciò a cui ci richiama con ostinazione la rivoluzionaria bell hooks. È possibile indirizzarsi verso questa meta attraverso numerose vie e quella teorica è sicuramente un buon punto di partenza. Del resto, come bell hooks, in tanti siamo approdati alla lotta femminista all’università, entrando in contatto soprattutto con la teoria femminista più che con la sua pratica; tuttavia, a differenza sua, molti di noi si sono fermati e continuano a fermarsi semplicemente alla teoria. Purtroppo, però, solo con questa non si può riuscire nell’impresa di mettere fine all’oppressione sessista: a un certo punto, occorre chiudersi alle spalle la porta del proprio studiolo comodo e confortante per calarsi nel mondo – correndo il rischio di sporcarsi –, incontrando la voce, i gesti, la carne e gli abissi degli altri.
A questo proposto, nelle sue opere, la femminista afroamericana evoca spesso la potenza liberatoria che hanno avuto, durante il secolo scorso, i gruppi di autocoscienza. Ce li descrive come veri e propri siti di conversione, in cui donne tra loro molto diverse per età ed estrazione sociale riuscivano a trovare a turno una “camera tutta per sé”, in cui rivelare e mostrare «apertamente la profondità delle loro ferite intime» (p. 41). In quelle camere, nessuna aveva più diritto delle altre di essere ascoltata, nessuna aveva il dovere di rimanere in silenzio, bensì tutte condividevano la possibilità di dire ciò che pensavano realmente, di discutere e far valere le proprie ragioni: in quelle camere, nessuna voce era strozzata, perché ognuna veniva così preparata a «sfidare le forze patriarcali sul posto di lavoro e in casa» (ibidem).
Con il tempo, purtroppo o per fortuna, le cose sono cambiate: i Women’s Studies hanno cominciato a configurarsi come una disciplina accademica riconosciuta e l’aula universitaria – che «era e rimane un luogo di privilegio di classe» (p. 44) – ha progressivamente spazzato via quelle camere, che invece consentivano una trasmissione ampia e orizzontale del pensiero femminista e delle strategie rivolte al cambiamento sociale, prescindendo da distinzioni di classa e di razza. Tale cambiamento oltre a depoliticizzare il movimento femminista e a renderlo, per certi versi, più elitario, ha soprattutto contribuito al graduale allentamento della solidarietà politica tra le donne – forza che precedentemente aveva saputo mettere in atto un cambiamento positivo. Tutto ciò ha prodotto delle stratificazioni all’interno del movimento femminista, che, talvolta, ha finito per perdere di vista il fatto che «finché le donne usano il loro potere di classe o di razza per dominare altre donne, la sorellanza femminista non può realizzarsi appieno» (p. 53).
A partire da tali rilievi, Il femminismo è per tutti. Una politica appassionata si fa promotore della necessità di ripercorre la storia del movimento femminista, di esplorarne criticamente tanto i punti deboli, quanto quelli forti. Attraverso uno stile schietto, semplice, asciutto, bell hooks reclama la creazione di «un movimento di massa che offra un’educazione femminista a tutti» (p. 65), in grado di spiegare, in forme iper-accessibili, alle donne e agli uomini come opera il pensiero sessista, in che modo è possibile metterlo in discussione e cambiarlo e come, nel corso del tempo, il femminismo abbia inciso sulle vite di tutti noi. Si tratta di una sorta di testamento intellettuale, in cui vengono affrontati acutamente, seppur in poche pagine, tanti temi essenziali. Uno di questi – quello su cui mi capita di arrovellarmi più spesso – è il corpo: perno introno al quale ruotano, in particolare, il quinto capitolo, il sesto e l’undicesimo.
Essere il proprio corpo per una donna è un gesto rivoluzionario, che comincia con la scoperta della propria sessualità, con la ricerca del proprio piacere (e in questo tutti gli strumenti di controllo delle nascite hanno aiutato un bel po’), che passa attraverso la possibilità di rimanere incinta. Misurarsi con tale eventualità ha prodotto innumerevoli discorsi nel corso del tempo, alcuni dei quali elogiano la maternità, restituendola come un ineluttabile destino; altri sottolineano invece come quest’esperienza possa finire per costituire un intralcio alla realizzazione personale di una donna. L’intrecciarsi e lo scontrarsi di questi innumerevoli discorsi hanno contribuito a generare quel rumore che da anni avvolge il dibattito intorno all’aborto.
La posizione di bell hooks al riguardo – che mi sento di sottoscrivere in pieno – è molto semplice e parte dal presupposto che «se noi donne non abbiamo il diritto di decidere che cosa succede al nostro corpo, rischiamo di rinunciare ai nostri diritti in ogni altra sfera della nostra vita» (p. 72): essere pro aborto significa essere pro scelta, cioè sostenere «il diritto delle donne che hanno bisogno di abortire, di scegliere se farlo o no» (p. 73); ecco perché occorre lottare affinché non si torni «a un mondo in cui gli aborti sono accessibili solo alle donne che hanno un sacco di soldi» (p. 70), essendo questo un primo passo verso il ritorno a una politica che mira a rendere illegale l’aborto. Essere pro scelta, dunque, vuol dire battersi tanto affinché donne sole e senza mezzi possano permettersi di scegliere di essere madri, tanto affinché donne che vogliano abortire possano farlo in sicurezza.
Il femminismo ha il merito di aver contribuito a puntare i riflettori sull’incapacità di molte donne di scoprire «che la nostra carne è degna d’amore e di adorazione al naturale» (p. 75), dal momento che «tutte le donne, indipendentemente dalla loro età, vengono consciamente o inconsciamente educate a essere assillate dal pensiero del proprio corpo, a considerare problematica la carne» (pp. 80-81). Tale assillo si fa sempre più incombente durante la pubertà, quando una giovane donna percepisce più che mai il suo corpo come sfuggente, arrivando talvolta a sentirlo a lei estraneo. Allo stesso tempo, gli occhi maschili, che seguono sempre più frequentemente il ritmo dei suoi fianchi per strada, comunicano giudizi sulla sua anatomia, inducendola a viversi come un oggetto per gli altri.
A tutto questo si può reagire in vari modi: mettendo più o meno radicalmente in mostra la propria carne, traendo piacere dal forte desiderio che suscita negli altri; oppure – provando per essa paura o disgusto – ricercando l’invisibilità. Oggi, in un numero sempre crescente di giovani, il disgusto per la propria carne degenera in maniera patologica. Disturbi del comportamento alimentare come l’anoressia nervosa sono infatti una vera e propria piaga per il mondo occidentalizzato: si tratta di una patologia estremamente fatale, che, nello specifico, colpisce prevalentemente le giovani donne e che ogni anno miete un numero sempre maggiore di morti. Uno dei tanti aspetti che la caratterizzano è dato dal fatto che – come ben nota bell hooks – «non c’è monito, per quanto terribile, che riesca a dissuadere le donne convinte che il loro valore, la loro bellezza, il loro merito intrinseco sono determinati dal fatto di essere magre o no» (p. 79). Un disturbo come l’anoressia nervosa porrebbe allora il mondo femminista di fronte a un’urgenza: «anche se oggi le donne sono più coscienti delle insidie e dei pericoli insiti nell’accettazione di una visione sessista della bellezza femminile, non stiamo facendo abbastanza per eliminare, per creare un’alternativa […]. Finché le femministe non torneranno a misurarsi con l’industria della bellezza e con la moda, provocando una rivoluzione costante e di lunga durata, non saremo libere. Non sapremo come fare ad amare il nostro corpo e noi stesse» (pp. 81-82).
Il corpo di una donna è sempre attraversato dalla possibilità di esser ferito, cioè di subire in esso la volontà di un altro; tuttavia, questo non deve trarci in inganno su quella che dovrebbe essere una delle missioni principali del femminismo. Secondo bell hooks, quest’ultimo deve puntare, non tanto a contrastare esclusivamente la violenza degli uomini verso le donne, bensì a far cessare ogni forma di violenza. Alla base di ogni forma di violenza, compresa quella patriarcale, c’è sempre l’idea secondo cui è accettabile che un individuo dotato di maggiore potere controlli gli altri tramite varie forme di forza coercitiva. Ecco perché, mirando in fondo a minare la libertà che ciascuno ha di disporre del proprio corpo, la violenza patriarcale, oltre a poter essere perpetuata tanto dagli uomini quanto dalle donne, si rivela come un fatto che riguarda l’umanità intera.
Per quanto breve, il libro di bell hooks è talmente pieno di spunti che sarebbe davvero difficile diffondersi qui su ognuno di essi. Ho scelto di ricordarla parlando proprio di questo volume, non solo perché, di recente, è comparsa la sua traduzione italiana, ma anche perché trovo che esso racchiuda perfettamente alcuni dei punti essenziali del pensiero che bell hooks ha sviluppato per una vita intera: nel leggere, mi è piaciuto pensare di star conservando il suo testamento tra le mani…
Nella convinzione che non sia sostenibile una scrittura impersonale e non situata, chi scrive in questa sede lo fa da una posizione di soggettività queer e di adesione a un certo quadro epistemologico, quello di una psicoanalisi queer fin dai suoi quattro concetti fondamentali: l'inconscio, la ripetizione, il transfert e la pulsione.
Che si possa fare una psicoanalisi rigorosa, sia in sede teoretica che clinica, aderendo alla filologia lacaniana (se ce n’è una!) e al contempo attestandone il fondamento queer, lo mostra il saggio Queer Psychanalyse: clinique mineure et déconstructions du genre di Fabrice Bourlez (Éditions Hermann, Paris 2018), in traduzione italiana ad aprile per i tipi di Mimesis. Nella ricezione italiana dell’intersezione tra psicoanalisi e studi di genere, che si approssima al deserto concettuale, la scrittura di Bourlez colma una lacuna che non può persistere oltre. Una lacuna che ha prodotto effetti reali, attestati sia dal silenzio delle Scuole di Psicoanalisi impegnate in querelles lontane dalla causa analitica intesa come causa del desiderio, sia dai disagi soggettivi degli analizzanti che nei cabinets dei propri analisti non trovano risposta alle urgenze della contemporaneità e dei propri corpi.
Aspettando di leggere l’edizione italiana, diamo un occhio allo stato del terreno su cui andrà a installarsi. Da una parte, troviamo la proposta teologica del nostro pastore lacaniano Massimo Recalcati, fondata sul binomio Bibbia-Psicoanalisi, su una solida retorica del sacrificio? e su una speranza di guarigione dal sintomo che si approssima alla grazia divina; il tutto affiancato da una lettura delle tavole della sessuazione (Seminario XX) marcatamente binaria ed etero-patriarcale, poiché la sua intera opera risulta pervasa di dicotomie manichee e attestazione di differenze uomo-donna strutturanti, presuntamente fondate nella logica dell’inconscio: il queer non è chiaramente passato di qui. La carica di potere e autorità di cui gode il controtransfert dell’analista è – non esageriamo – quella di un dio, possibilmente maschio e paternalista, incarnato, e qualsiasi tentativo di rivendicare una psicoanalisi costitutivamente laica nei suoi fondamenti viene “punito” con scomuniche.
Differentemente, lo psicoanalista presentato da Bourlez è una figura etica, nel senso di un essere di desiderio, la cui consistenza non è l’autorità ma l’erratica, fallimentare e sempre eccentrica movenza del desiderio. Un analista che porta dei tacchi, coi quali gioca, cade, gode, performando la propria instabilità. Il tallone d’Achille, ossia la debolezza, il difetto, della psicoanalisi, diventa les talons hautes: i tacchi alti su cui essa svetta, solo a condizione di traballare e di poter cadere da un momento all’altro (pp. 142-44). La clinica di Bourlez ci permette di opporre al pugno duro del soggetto che è supposto sapere perché sa, o perché ha la presunzione di sapere, il tatto di chi abdica alla propria funzione e la decostruisce, limitandosi – eticamente – a occupare una posizione, che è quella del desiderio. Ecco dunque un primo punto per cui Queer Psychanalyse può portare buone notizie al neo-lacanismo italiano, arroccato in una condizione di neo-lacanismo classico, rigidamente milleriano e consacrato all’Uno: l’Uno dell’Unico Lettore (Miller fu così nominato da Lacan), l’Uno de La (Signora) Psicoanalisi, l’Uno del godimento masturbatorio di una pratica che, volendosi una, si vuole sola. Il caposaldo del neo-lacanismo L’Uno-tutto-solo di Jacques-Alain Miller conteneva a sua insaputa una profezia: la solitudine. Ma più che versare lacrime su un neo-lacanismo classico solo e moribondo, dobbiamo condannarne la violenza sistemica, che ha adoperato nella precisa scelta di escludere le psicoanalisi. Le psicoanalisi critiche, cliniche, decostruttive, che lo hanno minacciato con la loro alterità, costitutiva peraltro della sua materia-principe: l’inconscio che è discorso dell’Altro.
Queer Psychanalyse propone dunque non solo una clinica minore, ma minorizzata (minorisée), perché costretta dalla violenza padronale di un’esclusione a esprimersi dal margine. Ricorrendo a una metafora derridiana, possiamo dunque parlare della psicoanalisi diffusa – quasi con atteggiamento coloniale – da Miller come di un neo-lacanismo bianco, laddove “bianco” non (solo) indica il parlante in questione come maschio bianco cisgender eterosessuale ma soprattutto il tentativo di occultare dietro una supposta neutralità del discorso psicoanalitico (che non è mai neutrale, ma immediatamentepolitico) la messa a tacere, colpevole, violenta e intrinsecamente escludente, delle minoranze queer e trans. Bourlez ripristina un uso politico della psicoanalisi sottraendo l’uno-per-uno, l’esercito degli uni-tutti-soli, alla masturbazione paranoica del lettino, e riconsegnandoli alla specificità delle rivendicazioni del loro desiderio, che è passata attraverso il sangue di Stonewall e il “martirio” dei sieropositivi (cfr. pp. 37-38). Altra frontiera che Bourlez apre è il confronto con le teorie femministe, in particolare un urgente Butler con Lacan “Qu’y a-t il entre nous”? La linea che la nostra recensione persegue, riguardo l’imminente ricezione italiana di una psicoanalisi queer, non può che sostare su un fenomeno perlomeno bizzarro che ha colpito il neo-lacanismo: esso consiste nel dare centralità al godimento de la donna millantando un femminismo che non ha rapporto con alcuna delle quattro ondate femministe e che è avulso da rivendicazioni storiche e militanti. Insomma, un “puro” femminismo psicoanalitico, condotto – di nuovo – in solitudine sul lettino, una-per-una, combattendo coi propri fantasmi e accedendo a un godimento tanto singolare quanto innominabile, al di là del fallo: una vera deriva mistica.
La razionalità, il rigore, la logica radicale dell’inconscio – ben illustrata da Matte Blanco nel suo Saggio sulla bi-logica – sembrano rigettare questi accostamenti teologici e mistici, che non solo ridicolizzano l’impresa freudo-lacaniana ma occultano nuovamente la posizione del “chi parla” (né dio, né un al di là di…, ad esempio del fallo). Fortunatamente per noi, Bourlez corregge il tiro ricordandoci che tale godimento singolare (jouissance) può essere pronunciato perché l’esistenza di una comunità militante lgbtqia+ l’ha consentito, e decenni di lotte gay hanno fatto sì che l’innominabile assuma nomi, posizioni e colori di un arcobaleno, attraverso atti di nominazione del suddetto godimento, come il coming out: “sono psicoanalista e gay. L’ho detto, lo ripeto e ci ritornerò. Sarà meglio che vi abituiate” (cfr. p.19, trad. mia). In questo senso, anche l’ascolto (l’Ouïr) dell’analista deve essere un queer-ouïr. Bourlez gioca sulla medesimezza dei due fonemi, a cui aggiungerei jouir, per cui queer ouïr c’est jouir, l’ascolto queer è una forma di godimento: un ascolto in modo sempre già deviante, non coincidente con sé stesso, che diventa-altro e apre da dentro il fuori che rende i quadri clinici non chiudibili, infinitamente eccentrici, per far evolvere in maniera autenticamente critica i concetti fondamentali dell’inconscio. È quel che si intende con psicoanalisi open to revision, aperta alla revisione costante della sua prassi, e in questo senso inclusiva delle minoranze e spazio safe. In Francia i nomi per definirla proliferano: psychanalystes homosexuel.le.s, psylesbiennes, psy gay.e.s, homoanalystes, psy safeinclusif, analystes mineur.e.s, psy queer.
In questi spazi non aleggia il fantasma eteronormativo dell’analista uomo la cui analizzante è donna, con la presunzione maschile da parte del primo che vi sia tra i due un potenziale o un rischio di seduzione.
L’urgenza di far circolare in Italia Queer Psychanalyse di Bourlez deriva anche dall’errato confronto che è stato instaurato tra psicoanalisi lacaniana, femminismi e queerstudies allo stato attuale del dibattito: pensiamo a testi come L’essere e il genere. Essere uomo/donna dopo Lacan della filosofa e psicoanalista lacaniana Clotilde Leguil, che ha messo per iscritto qualcosa che non esito a definire come una catastrofe del queer. Il modello di “essere donna” che Leguil propone consiste nel “godere della propria esclusione”, atto che dalla prospettiva di Bourlez sarebbe insostenibile. Per Leguil essere donna, oltre che essere esclusa e, paradossalmente, goderne, significa “confrontarsi con la follia”, e “godere di un’inesistenza per arginare la propria mancanza a essere”. Questi brevi estratti si affiancano a una ricostruzione storica semplicistica e a un’opera permeata, fin dal titolo, di una logica identitaria e binaria. Il binarismo è affermato fin dalla contrapposizione delle due opposte letture del concetto di “gender”, da parte degli studi di genere e della psicoanalisi: per i primi il gender sarebbe un’“artiglieria pesante”, una “gabbia che paralizza l’essere”, da abolire; per la seconda sarebbe il “soffio vitale dell’essere”, la possibilità più propria del soggetto, il quale “rincorre il genere per cogliere e raggiungere qualcosa del suo essere”. Correggere il tiro rispetto a questi quadri teorici fallaci sull’intersezione tra psicoanalisi e gender studies sembra essere per Bourlez un preciso dovere morale: nel suo saggio mostra che attestare l’esistenza di un punto di impossibilità tra La Psicoanalisi e il Queer è un gesto deliberato di occultamento, quello di un pensiero straight, per dirlo à la Wittig, di una precisa matrice eterosessuale che si dà come discorso maggioritario e maggiore: un discorso che silenzia i punti di espressione delle letterature minori, quelle che spingono la lingua al limite facendo tremare la grammatica maggioritaria. Maggiore e minore sono due modi possibili di leggere il testo lacaniano. Bourlez lo mostra anche con le dibattute tavole della sessuazione del Seminario XX, Ancora: uno schema bipartito che distingue il modo di godere fallico da quello femminile, col rischio di creare due universali che governano due logiche differenti, e dunque di riprodurre la differenza dei sessi. Il due è l’unico a priori della sessuazione o possiamo porre, già trascendentalmente, n-sessi, n eccezioni singolari a una legge piena di buchi, che fa acqua da tutte le parti? Attenersi alla binarietà dello schema non ci rende complici di una costruzione culturale ancora intrinsecamente dualista? Leggere le tavole in modo minore significa, invece, sessuare in modo queer, non prima di esser passati da Butler e Fausto-Sterling, intersecando la psicoanalisi con la storia del femminismo e della biologia. Significa intendere i sessi come un continuum e come i colori di un prisma (p. 281), a partire da nient’altro che i corpi (chiaramente significanti e sessuati), dalla loro innata biologia della complessità e della diversità, fino a includerne quel punto tanto imprendibile quanto matematico che è il Reale di ciascuno.
Il saggio di Bourlez ha un andamento decostruttivo: in cinque capitoli, vengono ripensati, in-fondati e reintegrati i fondamenti della pratica analitica. Nel primo, Bourlez sostiene di dover dé-faire l’analyse: e così ri-farla. Per disfare un’analisi, serve scrivere, resistere, fare in un certo senso e a proprio modo coming out (pp. 9-15). Nel secondo, manda in rovina l’Edipo: lo mantiene come osso fondamentale dell’analisi e come contenuto dell’inconscio, ma aprendolo a delle possibilità; ossia che ci siano n-sessi coinvolti nel teatrino edipico e che ci sia un necessario al di là dell’Edipo (pp. 94-98). La sorpresa è che la decostruzione dei generi non viene da un’integrazione, ma da una lettura radicale del testo freudiano stesso.
Bourlez prosegue tematizzando un atto nuovo, quello di performare l’omo-analista: nel terzo capitolo si chiede se i cabinets di Freud e Lacan fossero degli spazi che col lessico di oggi definiremmo safe, o ancora gay-friendly. Perché Dora fugge dopo sole tre settimane di analisi? (pp. 148-153) Perché le diagnosi di isteria spesso celano l’omosessualità femminile dietro la seduzione dell’analizzante per l’analista uomo, investito libidicamente come padre? (p. 147). La migliore sovversione che le isteriche abbiano potuto attuare nel discorso analitico è consistita nell’averlo fatto cessare. Dopo averlo inconsciamente istituito coi propri sintomi, se ne sono sbarazzate. Come? Andandosene. Rispettivamente nel Frammento di un’analisi di isteria (caso Dora) e in Psicogenesi di un caso di omosessualità femminile (caso della giovane omosessuale) “le due donne hanno buttato via il trattamento e le interpretazioni freudiane che lo accompagnano. Le sue manie d'interpretazione del sesso da parte del Padre le hanno fatte inorridire. Sono scappate. Lo hanno lasciato da solo con le sue pipe, le sue statuette e il suo divano” (p. 149).
I successivi capitoli sono dedicati a due precise operazioni politiche: l’inversione dell’etero-sessimo e l’apertura di un al di là della differenza dei sessi (ben diverso dall’al di là del fallo), per smontare le mosse che governano, in ogni nostra terapia individuale, quella che Bourlez definisce la micropolitica dell’atto analitico.
Perché leggere Queer Psychanalyse in Italia e farne, al contempo, il point de départ e il point de capiton del dibattito psicoanalitico contemporaneo? Per farla finita col verbo lacaniano come “sacra scrittura” da riconsegnare alla corretta filologia definitoria, e dunque con le derive teologiche e paranoiche che esso incarna, reiterando il discorso del padrone. Per de-feticizzare la Grande Psicoanalisi intesa come sola e unica soluzione al sintomo, sostituendola con la proliferazione di psicoanalisi queer, transfemministe e decostruttive. Il senso delle psicoanalisi, inteso qui come il loro desiderio, alla luce del saggio di Bourlez, non è l’indagine su un presunto “solo” godimento, ma il re-inquadramento dei modi di godere in un’analisi politica affiancata a un’epistemologia critica della sessuazione. Solo così potremo interrogare preliminarmente la scena eterosessuale, smascherarla nei suoi statuti oppressori e violenti, individuare i modi di vivere maggioritari e incarnare le nostre resistenze soggettive nelle grammatiche che non scegliamo di abitare, aprendo nuove possibilità di sessuazioni queer.
di Sara Fontanelli
Bibliografia
F. Bourlez, Queer Psychanalyse. Clinique mineure et déconstructions du genre, Éditions Hermann, Paris 2018.
J. Derrida, La mitologia bianca (pp. 275-349), in Id., Margini della filosofia (1972), Einaudi, Torino 1997.
J. Lacan, Il Seminario. Libro XX. Ancora (1972-1973), Einaudi, Torino 1983.
C. Leguil, L’essere e il genere. Essere uomo/donna dopo Lacan, Rosenberg & Sellier, Torino 2019.
J.-A. Miller, A. Di Ciaccia, L’Uno-tutto-solo. L’orientamento lacaniano, Astrolabio, Roma 2018.
“La violenza è uno di quei temi che incontrano reazioni scettiche trasversali nell’intero spettro politico” (Butler 2020, p. 11): così si apre La forza della nonviolenza. Un vincolo etico-politico, l’ultimo libro di Judith Butler, in cui le questioni politiche della violenza, del governo e della resistenza vengono rilette alla luce delle recenti teorie di genere e femministe. In seguito agli eventi organizzati dal movimento Black Lives Matter negli Stati Uniti e all’ondata di solidarietà antirazzista che ha attraversato il globo, Butler si confronta con l’individuazione degli attivisti afroamericani come terroristi e agitatori violenti da parte della propaganda conservatrice statunitense e non solo. Ma cosa può dirci una teorica gender riguardo la richiesta di una giustizia radicale che viene avanzata dalle strade e che sfida l’immagine del filosofo imperturbabile e atarassico? Come agire in nome dell’eguaglianza se il contesto istituzionale è necessariamente intrecciato con l’utilizzo della violenza? E in che senso la nonviolenza è la chiave di volta per la comprensione dei fenomeni politici sovversivi?
Per rispondere a tali interrogativi, Butler abbandona una concezionestrumentale della violenza, sia essa un mezzo specifico per l’autodifesa o funzionale a un gesto rivoluzionario. Se in quest’ultimo caso la filosofa elabora una critica abbastanza prevedibile riferita all’intenzione e alla durata dell’uso della violenza e al rischio che perseguita ogni techné di divenire autonoma dalla volontà umana (“[…] cosa succede se la violenza sfugge di mano, o se inizia a essere usata per propositi diversi, che eccedono o aggirano le sue intenzioni iniziali?”) (p. 28); la questione dell’autodifesa sembra invece essere l’oggetto di una discussione più stimolante: la messa in uso di un’analisi psico-politica vuole illustrare i posizionamenti individuali nel discorso della violenza come esito di una strutturazione del sé, seguendo un metodo già adottato in La vita psichica del potere (J. Butler 2013, ed. or. 1997). Qual è infatti il sé “difeso in nome dell’autodifesa?” (J. Butler 2020, p. 21),come si determinano la sua struttura e il suo ruolo sociale?
A queste domande si accompagna la convinzione che il concetto di violenza non sia dato una volta per tutte, al contrario, esso è sempre sottoposto interpretazioni che ne manipolano il significato in senso politico. Il modello dello scontro fisico con cui viene fatta coincidere l’azione violenta non ne esaurisce infatti le possibilità di manifestazione, soprattutto nel suo aspetto sistemico. Il termine “violenza sistemica”, che recentemente sembra essere utilizzato con tanta nonchalance quanta vaghezza, viene qui chiarito una volta per tutte: “la violenza è sempre un concetto interpretato. Ciò non significa che la violenza non è nient’altro che interpretazione […]. Al contrario, significa che la violenza si dà sempre all’interno di contesti molto ampi, talvolta in conflitto tra loro, e dunque appare in modo diverso – o non appare proprio – a seconda di come le cornici implicate operano sulla questione” (p. 29).Si tratta cioè di un concetto contestualizzato, che dipende da una struttura politica in oscillazione costante, equivoca e performativa. Questo il fenomeno di fronte a cui ci si trova; o meglio, i fenomeni, dal momento che le strutture di violenza sono molteplici e interpellano i cittadini in maniera diversa.
La proposta critica di Butler si sviluppa su una prima, importante disequazione: che l’aggressività non coincida completamente con la violenza, per cui esisterebbero forme di violenza non aggressiva, ma, soprattutto, forme di nonviolenza aggressiva. Aspetto imprescindibile ai rapporti umani, l’aggressività, come la rabbia e il lutto, sono fenomeni che Butler non è in grado di espungere dalla riflessione filosofico-politica soprattutto in seguito alle recenti proteste contro l’oppressione razziale. L’aggressività, chiarisce Butler, è sempre orientata verso un oggetto e, per questo motivo, costituisce una modalità di articolazione dei rapporti sociali. Ancora di più, poiché essa non si esplica necessariamente nella realizzazione di un’azione violenta, prende consistenza la possibilità di una nonviolenza aggressiva, che consente al contempo una critica alla concezione individualistica del soggetto.
Condividendo i presupposti di una prospettiva piscoanalitica, Butler conduce una critica alla nonviolenza come pratica di difesa dell’individuo a partire proprio da cosa sia un individuo. La tradizione contrattualistica, sia per come fu elaborata da Hobbes, sia nella forma criticata da Rousseau, stabilisce un’omologia fra l’individuo pre-statale e quello assoluto: alla stregua di Robinson Crusoe, l’individuo astratto dal politico vorrebbe essere del tutto capace di provvedere a se stesso, libero e autosufficiente. Tuttavia, il sogno moderno di un individuo autonomo viene infranto con l’emersione di un’alterità che Butler media dalla lettura di Cavarero (A. Cavarero, 2013)e che viene identificata nella figura del genitore che aiuta il figlio a sopravvivere per poi venire spazzato via dalla sua volontà di indipendenza. Facendo il verso alla famosa tesi di Beauvoir, Butler potrebbe affermare che individui non si nasce, ma lo si diventa e, con Lacan, che la dipendenza, dal genitore o dal trotte-bébé che reggono l’infante di fronte alla propria immagine speculare (J. Lacan 1974, ed. or. 1949), è costitutiva dell’uomo. La fine del soggetto liberale, già annunciata da una certa french theory, viene dunque ripresa in questo volume come atto inaugurale della discussione sulla nonviolenza, sia attraverso l’introduzione dell’aggressività come rapporto che costituisce l’individuo legandolo agli altri, sia mediante la decostruzione della fantasia pre-statale nutrita da autori come Hobbes e Rousseau. Il problema dell’uso della violenza come strumento di autodifesa è quindi aggirato, proprio perché il “sé” che si vorrebbe difendere in realtà esiste solo in una molteplice relazione con gli altri.
Tuttavia, l’argomentazione di Butler fa un passo in avanti, includendo anche le dinamiche di autodifesa dei gruppi. In questo caso, l’uso della violenza viene giustificato se a rischio sono comunità riconosciute nella loro somiglianza al proprio sé, per esempio se a essere minacciati sono la famiglia, gli amici o il clan a cui il singolo appartiene. Ci troviamo di fronte a un ragionamento paradossale che viene illustrato come una doppia interdizione: all’interno del clan, tra i membri del gruppo, vige il divieto all’uso della violenza, ma la forza di tale interdizione ritorna una seconda volta come imperativo di uccidere nel caso in cui una minaccia esterna si rivolga a uno dei membri del gruppo; in altri termini, la violenza è consentita solo verso l’esterno, nell’eventualità che a rischio sia un gruppo in cui il sé si riconosce ed è giustificata, in ultima analisi, dallo stesso argomento per l’autodifesa individuale. La prospettiva sarebbe allora quella di una guerra tra gruppi, entro cui la violenza viene proibita, ma fra cui l’uccisione viene permessa: una dinamica psichica che limita la nonviolenza a un ristretto gruppo di individui riconosciuti come simili.
Proprio sul concetto di riconoscimento, quindi, si deve riarticolare una nuova pratica globale (e non gruppale) della nonviolenza: l’argomentazione di Butler diventa tanto più stringente quanto più si considera la realtà delle minoranze razziali o di genere. Esse vengono infatti identificate come “altri” nel discorso pubblico, secondo una demografia che non li riconosce nel sé collettivo, impedendo l’accesso alla protezione offerta da una politica dell’autodifesa. Tale disconoscimento fa tutt’uno con la svalutazione della dignità di lutto: i gruppi che indichiamo come minoranze sono tali perché la loro scomparsa o eliminazione vengono ritenute un prezzo adatto al mantenimento dell’ordine sociale, dal momento che le loro vite sono spendibili e indegne di essere piante. La possibilità di una pratica della nonviolenza aldilà della retorica dell’autodifesa, tanto individuale quanto collettiva, si basa al contrario sul riconoscimento che la perdita di ogni vita conta, non già per un suo intrinseco valore, bensì per la globalità delle relazioni che essa chiama in causa. Riconoscere che la presenza o l’assenza di un individuo fa la differenza diventa il marchio di una nuova obbligazione globale alla nonviolenza.
In quest’accezione, precisando quanto detto sul ruolo dell’aggressività nella nonviolenza, Butler afferma che la dinamica aggressiva è ciò che lega i soggetti in un rapporto tanto ambiguo quanto vincolante. Tale ambiguità è però anche la fonte del riconoscimento della vulnerabilità dell’altro, che mi sta davanti come oggetto potenziale della mia aggressività; poiché, infine, l’aggressività è anche un rapporto che mi struttura come soggetto (analogamente all’inclinazione di cui parla Cavarero o al rapporto speculare di Lacan), allora il legame aggressivo-dipendente è il punto originario da cui si riconosce la grievability di ciascuna vita. Al contrario, il sé che si autodifende violentemente definisce anzitutto ciò che conta come “sé” e con ciò realizza la propria esclusione rispetto a determinati gruppi. Questi ultimi non saranno riconosciuti come adatti a un intervento di difesa e, perciò, non verranno riconosciuti nella loro dignità di lutto, secondo un’ineguaglianza di principio. Da ciò la seconda equazione sulla cui base si regge il libro di Butler: la nonviolenza è difesa dell’eguaglianza il cui indice è la dignità di lutto.
La grievability viene infatti ritradotta nella riflessione di Butler come il dato che denota l’uguaglianza fra individui e gruppi. La sua definizione allude a un orizzonte biopolitico, in cui le vite vengono gestite sulla base della loro sostituibilità: la questione della dignità di lutto si sposta dal piano del lutto individuale a quello collettivo e politico, che riguarda quali gruppi meritano di essere difesi (con il rischio riconosciuto ma non veramente affrontato del paternalismo dei cosiddetti “gruppi vulnerabili”). Legare la grievability a forme di gestione della socialità garantisce a Butler un approccio costruttivista: gli individui e i loro posizionamenti sociali sono l’esito della distribuzione della possibilità che le loro vite vengano piante, per cui una determinata vita si posizionerà all’interno del contesto sociale sulla base delle modalità con cui la sua perdita sarebbe elaborata e, più radicalmente, se tale perdita verrà riconosciuta come tale. D’altra parte, il costruttivismo adottato da Butler non si compone di dispositivi omogenei nella gestione effettiva della popolazione; infatti, la dignità di una vita è distribuita eterogeneamente e viene perciò riconosciuta in maniera diversa dai diversi attori sociali, come testimoniano le proteste luttuose delle Donne in Nero o delle Nonne di Plaza de Mayo. Ma soprattutto, la differenza di grievability si dimostra nel suo carattere retroattivo. La tesi della Butler adotta qui un criterio argomentativo ipotetico, per cui una vita è degna di lutto se, nel caso in cui venisse persa, essa sarebbe pianta, ovvero, se la si preserva in quanto insostituibile.
Il rimando alla sostituibilità è un importante punto di svolta: anzitutto, Butler associa l’argomentazione morale (tanto prescrittivista quanto consequenzialista) all’assioma per cui un atto è buono se, anche nel caso in cui sostituissimo soggetto e oggetto dell’azione, esso verrebbe ugualmente compiuto; in questa prospettiva, Butler argomenta a favore di una fondamentale implicazione della fantasia di sostituibilità nel ragionamento morale, per cui solo grazie all’immaginazione si riesce a determinare quanto un’azione possa essere buona o cattiva. Tuttavia, è anche la “sostituibilità reciproca a contribuire alla costruzione di un mondo che conduce verso una violenza maggiore” (J. Butler 2020, p. 115), per esempio, se si considera la vita di un gruppo sociale sostituibile.
Per evidenziare la centralità della fantasia nella discussione etico-politica, Butler analizza il discorso sulla sostituibilità attraverso la psicoanalisi, questa volta di Klein. Con il modello di relazione madre-figlio messo a punto dalla psicoanalista austriaca, Butler individua nella sostituibilità un processo di fantasmagorizzazione per cui il seno materno viene in un solo momento individuato come oggetto di affezione e oggetto di aggressività, determinando al contempo la volontà da parte del bambino di preservarlo (in virtù del riconoscimento che la sua distruzione annienterebbe entrambi in un solo gesto) e di eliminarlo (poiché solo in questo modo sarebbe possibile realizzare un’autonomia totale e fantastica) (M. Klein e J. Riviere 1969, ed. or. 1953). Si tratta di un’“insopportabile dipendenza […] al punto da dar luogo a una furia omicida che, se fosse messa in atto, data la loro reciproca dipendenza, li abbatterebbe entrambi contemporaneamente” (J. Butler 2020, p. 132). Ma proprio da questo fastidio ontologico che l’individuo prova nei confronti di ciò da cui non può che dipendere e che vorrebbe comunque distruggere si genera uno strano legame basato sul senso di colpa. Lungi dal definire la colpevolezza come una dimensione che isola l’individuo nella propria intimità, secondo Butler il senso di colpa è l’occasione per una riarticolazione del legame sociale. Posto che il significato della sostituzione interdipendente come inteso da Butler sia equivalente all’identificazione del seno nella riflessione di Klein, allora la differenziazione fra “io” e “altro” diventa estremamente sfumata, se non impraticabile: “nell’incontrarti, incontro anche me, ma anche te, a duplicare la mia rovina; e io non sono solo me, ma anche lo spettro che ricevo da te, mentre sei alla ricerca di una storia diversa rispetto a quella che hai avuto fin qui” (p. 137).
Socialmente vincolato dal senso di colpa per un’aggressività che, forse un po’ cinicamente, le consente di descrivere l’incontro con l’altro come doppia rovina, la soggettività nonviolenta descritta da Butler risulta non solo attraversata dai fantasmi della psicoanalisi, ma anche dai dispositivi della biopolitica. L’ormai consuetudinario appello a Foucault, consente l’abbozzo di una spiegazione della razzializzazione dei corpi, ricorrendo al contempo a Pelle nera, maschere bianche (F. Fanon 2015, ed. or. 1952): per quanto il richiamo a Fanon nell’ambito della nonviolenza possa perplimere il lettore, la lettura che Butler ne offre sembra soddisfare il bisogno di comprendere la violenza contro i gruppi razzializzati. La definizione di biopolitica come strumento di distribuzione differenziale della dignità di lutto e la descrizione del razzismo come fantasia che condensa e inverte la violenza sull’estraneo minaccioso, tornano utili a Butler per la spiegazione tanto del razzismo statunitense contro la comunità afroamericana quanto di quello europeo contro i migranti transnazionali, dal momento che entrambi fenomeni descrivono il proprio oggetto di violenza come nemico che, fantasticamente, potrebbe distruggere l’identità della comunità o dello Stato.
L’utilizzo del testo di Fanon, in cui la violenza è cruciale per la liberazione dal governo coloniale, sembra cozzare con la tematizzazione di una pratica nonviolenta globale. Tuttavia, la descrizione della violenza razzista, fornita da Fanon e ripresa da Butler, spiega che la significazione di determinati atti di rivolta come violenti può essere l’esito di una serie di fantasie persecutorie e proiezioni paranoiche: la stessa guerriglia anticoloniale sembrerebbe essere sottoposta alla logica per cui qualsiasi iniziativa volta a destituire la violenza del potere viene censurata in quanto violenta. Al contempo esplicativo ed esemplare, il testo di Fanon, indicherebbe che il monopolio statale della violenza si compone di un’intera episteme e, contemporaneamente, ne illustrerebbe gli effetti, diventando un “testo ostile”: “[…] la critica della guerra viene presentata come un sotterfugio, un’aggressione, una forma dissimulata di ostilità. La critica, il dissenso e la disobbedienza civile vengono costruiti come attacchi alla nazione, allo stato, persino all’umanità. […] Tutte le posizioni, in altre parole, per quanto dichiaratamente nonviolente, vengono considerate come permutazioni della violenza […] nell’ambito di un’episteme governata da una logica rovesciata e paranoica” (J. Butler 2020, p. 199).
Ed è proprio nella potenzialità di una guerra costante, che viene falsamente ritrovata anche nelle azioni espressamente nonviolente, che l’autrice trova il vincolo etico a un’azione nonviolenta. Proprio perché ogni individuo è sempre capace di realizzare quella distruttività pulsionale che eliminerebbe l’altro da cui al contempo dipende, diventa allora necessario comprendere perché non dobbiamo dare adito a tale impulso di morte. L’ultimo Freud conclude la riflessione di Butler sulla nonviolenza attraverso il concetto di Todestrieb alla luce in particolare dello scambio epistolare con Einstein (A. Einstein, S. Freud 1979, ed. or. 1915) e di Lutto e melanconia (S. Freud 1977, ed. or. 1917), di cui l’autrice si è già servita nel famoso Questione di genere (J. Butler 2013, ed. or. 1990) e nel già ricordato La vita psichica del potere. Dall’analisi del corpus dell’ultimo Freud, la cui disomogeneità crea non pochi problemi ai teorici queer, Butler deriva una visione forse troppo manichea, per cui il principio di morte si oppone al principio erotico, poco importa che ne sia una dimensione interna o esterna: “[…] ‘amore’ (parola con cui Freud si riferisce sempre a ‘Eros’) nomina soltanto uno dei poli dell’ambivalenza emotiva. C’è l’amore e c’è l’odio. L’amore, dunque, o nomina la costellazione ambivalente di amore e odio, oppure è un polo della struttura binaria amore/odio” (J. Butler 2020, p. 218).
In questo senso, Butler presta effettivamente il fianco a una critica della più recente svolta antisociale nella teoria queer, in cui è il sessuale a entrare come protagonista nella struttura erotica presentandone anche gli aspetti più sado-masochisti e ripugnanti. Tuttavia, tale distinzione binaria consente all’autrice di fornire un’efficace interpretazione del processo di elaborazione del lutto come occasione politica. Se nel testo di Freud il percorso ordinario e quello patologico del lutto non sono distinguibili in maniera netta, ciò non impedisce alla filosofa di affermare con sicurezza che due sono le tendenze della malinconia, cioè della risposta alla perdita d’oggetto erotico: da una parte troviamo l’autorimprovero che il Super-Io conduce verso l’Io, dall’altra invece la mania, che porta a una disidentificazione dell’Io da se stesso. Nel primo caso, infatti, il Super-Io interiorizza l’oggetto perduto punendo l’Io per la sua perdita e, per questo motivo, la dinamica freudiana si arricchirebbe di un elemento superegoico che, accecato dal principio distruttivo, tende ad annichilire l’Io stesso (qualificandosi come una “coltura pura della pulsione di morte”) (p. 223). Ma è il secondo aspetto, quello maniacale, che Butler sottolinea con particolare originalità: nella mania, l’Io tenta di disidentificarsi, di staccarsi da sé e di fissarsi su un oggetto altro in maniera da sopravvivere in una dimensione dove la realtà perde i suoi chiari connotati. Questa spinta verso l’alterità e il differimento da sé viene interpretata da Butler come una forma di resistenza psichica alle tendenze suicide del Super-Io e, in questo senso, come il punto di partenza di qualsiasi analisi di una resistenza per defezione alla violenza: portando a compimento quel lavoro di decostruzione del sé che viene protetto nell’auto-difesa, Butler afferma che
Se il Super-Io assurge a unico controllore della distruttività, questa non può che tornare indietro al soggetto, mettendo in pericolo la sua esistenza. Nella melanconia, infatti, l’ostilità non viene esternalizzata e l’Io diventa il bersaglio di un’ostilità potenzialmente omicida, il cui potere è tale da distruggere la vita dell’Io e l’organismo stesso. La mania,al contrario, introduce in questo quadro un desiderio irrealistico di esistere e persistere, che non è fondato su una realtà percepibile e non ha alcuna possibilità di esserlo nell’ambito particolare regime politico […]. La mania può introdurre un vigoroso “irrealismo” in quelle forme di solidarietà che mirano a rovesciare i regimi violenti, insistendo, contro ogni probabilità, su un’altra idea di realtà (pp. 230-231).
Mania, irrealtà e nonviolenza sono, in conclusione i termini che denotano la prospettiva della vita politica egualitaria immaginata da Butler in seguito agli eventi odierni legati al Black Lives Matter Movement e alle proteste dei collettivi femministi Ni Una Menos. L’attivismo non istituzionalizzato e, in un certo senso, agitato di questi due gruppi è proposto come un nuovo approccio etico-politico, che lega gli individui sulla base della loro vulnerabilità: la caratteristica universale di essere condizionali e condizionati nel rapporto agli altri. Non si tratta, tuttavia, di una posizione semplicisticamente pacifista, ma, nelle parole di Einstein, di un pacifismo almeno militante, in cui l’aggressività non viene espunta immediatamente in quanto violenta, ma viene re-indirizzata a una difesa strenua di qualsiasi minaccia all’uguaglianza. In questo fedele alle origini ribelli e arrabbiate dei movimenti di liberazione omosessuale, Butler elabora un concetto di resistenzanonviolenta che fa propri sentimenti e moti dell’animo apparentemente poco pacifici: la collera, il lutto e il rifiuto, perché proprio a partire da un “no” inaugurale può cominciare quel processo di cambiamento che, con la nonviolenza, sovverte i regimi esistenti di oppressione.
di Denis De Almeida Barros
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Bibliografia
J. Butler, La vita psichica del potere. Teorie del soggetto (1997), Mimesis, Milano 2013
J. Butler, Questione di genere. Femminismo e sovversione dell’identità (1990), Laterza, Roma-Bari 2013
A. Cavarero, Inclinazioni. Critica della rettitudine, Cortina, Milano 2013
A. Einstein, S. Freud, Perché la guerra?, in S. Freud, Opere. Vol. XI, Bollati Boringhieri, Torino 1979
F. Fanon, Pelle nera, maschere bianche (1952), ETS, Pisa 2015
S. Freud, Lutto e melanconia (1917), in Id., Opere, Vol. VIII, Bollati Boringhieri, Torino 1977
M. Klein, J. Riviere, Amore, odio e riparazione (1953), Astrolabio, Roma 1969
J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io (1949), in Id., Scritti, Einaudi, Torino 1974
Utilizzando come attivatore di ogni capitolo una “specie harawaiana”, Federica Timeto nel suo Bestiario Haraway (Mimesis 2020) analizza e mette a sistema il pensiero di Donna Haraway a partire da una serie di figure zoo-tecnomorfe che hanno accompagnato e inquadrato il lavoro dell’autrice americana in maniera organica nella sua costante mutazione.
Il volume offre una prima sezione introduttiva in cui si presentano le illustrazioni a ogni capitolo di Silvia Giambrone (p. 17); il capitolo 1, “Animali che significano: Note introduttive a un bestiario naturalculturale” (p. 21), è una introduzione generale all’approccio teorico di Haraway, alla sua concezione “dell’animale”. Il libro prosegue poi con “Nella danza del pensare-sentire. Una conversazione con Donna Haraway” (p. 29), una intervista inedita alla teorica americana. Di seguito, ogni capitolo è dedicato a una delle specie significative nella teoria di Haraway, ivi compresi il cyborg (p. 105) e i microorganismi (p.189). Questi capitoli del Bestiario sono strutturati in una breve prima parte in cui Timeto ricostruisce da un punto di vista storico, simbolico, culturale, e della storia della scienza come ognuno di questi animali è stato percepito, classificato, concettualizzato storicamente e filosoficamente per poi entrare in maniera più dettagliata nelle idee ed elaborazioni al riguardo della stessa Haraway.
Nel primo capitolo, Timeto parte dal pensiero “per ecologie” tripartite: tra viventi umani, non umani e tecnologie. È da qui che scaturisce il pensiero antispecista (e non tanto “animalista”) di Haraway che implica un vivere-con l’alterità. Questo pensiero si appoggia su una profonda critica al rappresentazionalismo per quanto questo implica una scissione in soggetto-oggetto che oscura qualsiasi possibilità di ibridazione trans-specie (p. 22). In questo contesto, l’animale diventa sempre «una macchina speculare dell’umano» (p. 22) che lo “riflette” come uno specchio. Ma poiché, come indica Derrida, “l’Animale in generale” non esiste, in realtà il vivente non umano finisce per funzionare come un ventriloquo attraverso il quale «a parlare resta sempre l’umano» (p. 22).
Per contro, nell’approccio harawaiano, gli animali non funzionano come specchi dell’umano, questo sì capace di rappresentazione, ma sono opachi, e bisogna «lasciar rispondere gli animali, dunque, piuttosto che dar loro (la nostra) voce» (p. 24).
Timeto fa poi un percorso “archeologico” in senso foucaultiano e analizza le diverse accezioni del termine bestiario lungo la storia, in rapporto alle quali emerge il concetto di specie compagne definite da Haraway come «un bestiario di agentività, modalità di relazione» (p. 27).
Successivamente, nel secondo capitolo, l’intervista funziona non solo come un mezzo per chiarire i concetti principali delle teorie dell’autrice come introdotti nei suoi libri, ma anche come un aggiornamento di questi agli eventi attuali. Timeto e Haraway discutono quindi della categoria di specie, di estinzione e della difesa dei diritti degli animali (p. 31), un punto questo ultimo abbastanza problematico della visione di Haraway per la maggior parte degli animalisti. Haraway afferma: «Non sono pro-life, non condivido la feticizzazione della nozione di vita proprio perché credo che escluda la considerazione delle specifiche relazioni. Ho un profondo rispetto per gli attivisti animalisti radicali che dicono “Stop, basta uccidere vite animali”. Li rispetto perché sono assolutamente convinta che viviamo in un regime in cui si abusa delle uccisioni di animali non umani per scopi (umani) ingiustificati. […] Viviamo in circostanze complesse, posso uccidere o supportare l’uccisione di un embrione umano, uccidere o supportare l’uccisione degli animali da laboratorio in situazioni che, non definirei inevitabili, ma...il punto è che non possiamo agire innocentemente» (p.35).
E ancora «Non esiste decisione che non implichi una qualche forma di violenza. Ed è una violenza di cui siamo responsabili: potremmo sempre esserci sbagliati, dunque dobbiamo essere pronti a riconsiderare ogni volta le nostre azioni. Comprendere che non era la cosa giusta da fare» (p.35). Questo passaggio permette di identificare una posizione molto simile a quelle di Jacques Derrida: non ci si deve mai adagiare “dalla parte della verità”, ma ci si deve interrogare ogni volta su ogni decisione, su ogni posizione presa (Derrida 2006, p. 182). Questo approccio, che potrebbe essere chiamato un “metodo”, serve a impedire di cadere in un dogmatismo irriflessivo, e assicura, per così dire, una posizione critica; tuttavia occlude, come indica Cary Wolfe (2020) nella sua analisi del pensiero di Derrida, la possibilità di una etica, più o meno universale. Ed è quindi difficile non assecondare Haraway nella sua concezione di adottare posizioni “non innocenti”: perché nessuno è mai innocente, ogni decisione presa implicherà un danno per qualcuno, e come indica ancora Derrida, non c’è bisogno di mangiare la carne per essere carnefici.
Haraway di conseguenza è dichiaratamente contraria agli allevamenti intesivi a prescindere, ma non è contraria alle pratiche, per esempio, dei popoli indigeni di cacciare e mangiare la carne, e delle cerimonie di alimentazione dei nativi che le accompagnano (p. 36).
Timeto sceglie di presentare questa posizione come problematica, così come quella di Derrida citata sopra, in rapporto all’oncotopo e le sperimentazioni e modificazioni genetiche di animali: «Appare certamente problematico confrontare la logica, pur conseguenziale, di questo ragionamento con le odierne pratiche in cui la vita animale è annientata prima ancora di poter essere considerata o lasciata libera di diventare significativa e significante, ovvero di godere delle condizioni per entrare in relazioni effettivamente simmetriche con gli altri umani» (p. 102).
Così come è anche fondamentale, sia per capire il pensiero di Haraway, sia come contributo alle discussioni in corso negli animal studies, la domanda di Timeto riguardo alla concezione di ecologia tripartita menzionata sopra (umani, non umani, macchine) sul fatto che di solito l’accento viene messo sul rapporto umani-macchine o umani-non umani e quasi mai sulle possibilità di ibridazione dei non umani con le macchine in modi che non implichino un abuso o sfruttamento, bensì una qualche possibilità di collaborazione, o in termini harawaiani un divenire-con (p. 37). Questo tema viene ulteriormente approfondito nel capitolo sul cyborg. Segnalando che quando si parla di cyborg si pensa sempre all’intreccio tra umano in macchinino, in una dettagliata analisi Timeto traccia la l’asimmetria nei rapporti tra animali non umani e macchine, e sottolinea come «L’accento posto da Haraway sull’artefattualismo dei collettivi sociali e sulla loro composizione cyborg ha certamente lo scopo di liberare gli animali dallo status di oggetti (materiale passivo, strumenti, origine) cui sono stati relegati dal pensiero e dalle pratiche della tradizione occidentale, mostrando come essi non abitino ‘né la natura (come oggetto) né la cultura (come surrogato umano) ma “un posto chiamato altrove’» (p. 107).
Nel capitolo VI, intitolato “CANE”, Timeto analizza il concetto di specie compagne che Haraway avanza nel suo The Companion Species Manifesto (2003), un concetto che più che segnalare la svolta animalista nel pensiero dell’autrice americana contiene la sua critica della categoria stessa di “specie”. Questa critica si concentra sul fatto che la idea stessa di “specie” tende a semplificare a una unicità la complessità della molteplicità che essa stessa dovrebbe implicare (p. 132). Sia le specie compagne sia il cyborg mettono in evidenza, e si potrebbe dire persino celebrano, le contaminazioni e ibridazioni tra le specie. Il making kin - tradotto con “creare rapporti di parentela” - implica un divenire-con, una respons-abilità condivisa che evita qualsiasi pretesa di innocenza, «nella quale i legami di parentela non dipendono da una medesima genealogia, genetica o ematica, ma emergono piuttosto da storie condivise e dai nodi che si concretizzano nel vissuto in comune» (p. 132).
Sono anche degni di nota nel libro le scelte di traduzione più precise da parte dell’autrice, come per esempio la scelta di tradurre companion species come “specie compagne”, e non seguendo la traduzione originale del 2003 di Roberto Marchesini “compagni di specie”, come anche le precise note a piè di pagina che arricchiscono sia il Bestiario sia la comprensione del pensiero di Haraway, non sempre lineare.
In sintesi, Timeto fa emergere in maniera sottile e quasi impercettibile non solo la sua lettura dei principali concetti dell’opera di Donna Haraway, ma anche la propria posizione rispetto a essi. In effetti, forse uno dei concetti più interessanti tra quelli spiegati nel Bestiario, è la simpoiesi - concetto mutuato dalla Haraway a partire dal lavoro di una sua studentessa, Beth Dempster, che lo ha coniato negli anni 90: la concezione che i sistemi viventi non siano autosufficienti, o autopoietici, ma che il vivente, l’inorganico, la natura e la cultura coevolvano in constante intra-azione (p. 189-90). Come indica Timeto, la simpoiesi implica una respons-abilità condivisa, un divenire-con, ed è quello che in questo caso sembra emergere nel dialogo tra due pensieri.
La vulgata dice che Freud era maschilista: di questo fu accusato più o meno velatamente, anche nell’ambito della psicoanalisi, e questa accusa ancora oggi ha i suoi echi. Ma che cosa ha apportato Freud intorno alla questione del femminile? Potremmo dire che il lascito maggiore su questo tema è stato aver aperto delle interrogazioni su punti per lui oscuri, e di averle lasciate aperte. Non poco come insegnamento in un mondo dove non c’è più posto per il fallimento, per il dubbio, per la ricerca, ma solo per il risultato e la riuscita performativa. Aveva lasciato queste domande aperte chiedendo esplicitamente alle donne psicoanaliste di provare a trovare delle risposte, perché forse, essendo donne, avrebbero avuto maggiore facilità. Non sono state invece le donne psicoanaliste a far avanzare la faccenda, ma è stato uno psicoanalista francese, Jacques Lacan, colui che ha apportato del nuovo in questo campo.
Tutti sappiamo, dalla nostra stessa esperienza e da quello che ci circonda nel mondo, che l’assunzione dell’identità sessuale non corrisponde all'appartenenza anatomica a un sesso o a un altro. Dunque, Freud si domanda innanzi tutto come si introduce la differenza sessuale. E rileva che questa prende avvio primariamente a partire dall’immagine, dato che è a partire dall’immagine del corpo che un nuovo nato, fin da subito, è inscritto simbolicamente come maschio o femmina. Due corpi differenti, quello maschile e quello femminile, la cui differenza appunto, data da un pezzo di carne presente o assente a livello dell’immagine, si traspone immediatamente su un piano simbolico: maschio o femmina, ce l’ha o non ce l’ha, + o -. E per sottolineare la separazione di ciò di cui si tratta dalla realtà fattuale, cioè dal livello puramente organico, Freud gli ha dato il nome degli antichi misteri: il fallo.
La bambina, dice Freud, manca di qualcosa: manca del fallo. Sarà Lacan, introducendo le categorie di Simbolico, Immaginario e Reale, a permetterci di situare questa mancanza al livello che le è proprio. Infatti, una simile mancanza è tale a livello immaginario e simbolico, ma dato che il nostro mondo è essenzialmente un mondo organizzato dal simbolico, ovvero dal linguaggio, questa mancanza ha la sua incidenza, e la bambina dovrà, volente o nolente, farci i conti. Freud immaginava che la bambina potesse recuperare quella stessa mancanza attraverso un sostituto del fallo (il termine stesso di sostituzione ci dice che siamo in un campo simbolico), ovvero con il bambino che, un giorno, avrebbe potuto avere al posto del fallo. Ne deduceva così che la migliore via d'uscita per la sessualità, dal lato femminile, fosse la maternità. Ma alla fine della sua vita, si è accorto che questa soluzione, la soluzione della sostituzione fallica, non era sufficiente per spiegare completamente la questione del femminile, che per lui resterà “il continente nero”.
Dunque Freud scopre che a livello della rappresentazione simbolica non c’è che un solo simbolo: il fallo. Lacan ci dirà, utilizzando i termini della linguistica, che mentre c’è un significante per rappresentare l’uomo, non ce n’è analogamente uno per la donna. Se c’è l’universale maschile non c’è quello femminile. E non si tratta solo di rappresentazione, ma anche di godimento. La donna può trovare la propria rappresentazione attraverso il fallo, ma non tutta. La donna può godere del fallo (cioè di ciò che ha: il bambino, diceva Freud, ma in quel posto di sostituto si può trovare qualsiasi altro oggetto), ma non tutta. Non tutto del femminile è preso dal versante fallico.
Freud aveva presentito questo, e si domandava infatti: che cosa vuole una donna? Sarà con Lacan che la questione potrà avanzare: se non c’è un universale femminile, le donne si contano solo una per una. Se la donna non gode solo del fallo, c’è un godimento femminile che eccede, che non è dicibile proprio in quanto non rappresentabile e non universalizzabile. Questioni accademiche? Non tanto, se pensiamo alle difficoltà della relazione fra i sessi, che toccano tutti gli esseri parlanti ma che oggi, forse più che un tempo, sfociano nella violenza: violenza che mira ad annientare quella differenza, a rigettarla, di cui non si vuole sapere nulla.
Bibliografia:
S. Freud (1978). Alcune conseguenze psichiche della differenza anatomica fra i sessi. In Id., Opere. Vol. 10. Torino: Bollati Boringhieri.
Abbandonando il parcheggio antistante la stazione e inoltrandoci lungo via Fossata, una strada secondaria che lambisce Parco Sempione, il nostro sguardo è subito attratto dalle recinzioni in lamiera che lo costeggiano. Sono alte e pitturate di verde come se si volesse mimetizzarle col prato allo scopo di tenere lontano gli sguardi indiscreti. L'effetto che in realtà suscitano in noi è quello contrario, cioè di accrescere la curiosità verso ciò che le recinzioni vorrebbero nascondere. Arrampicandoci su di esse possiamo scorgere un deserto popolato di polvere e ruspe, dove qualche sparuto operaio appare come una piccola formica all’orizzonte; nel mezzo di una pozzanghera si specchia qualche nube trasportata dal vento veloce. Una desolazione, questa, che scaturisce proprio dalla forza centrifuga emanata dalla stazione, suo epicentro.