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Nel 1996 Lev Manovich, in polemica con le derive commerciali della computer art, pubblica un articolo su Rhizome in cui contrappone la terra di Duchamp e la terra di Turing: se per il teorico dei nuovi media l’arte dopo Duchamp è sostanzialmente autoreferenziale, autoironica, complicata e orientata al contenuto, quella che utilizza le nuove tecnologie dell’informazione è invece semplice, incentrata sulla forma e rispettosa del proprio medium (qui inteso come dispositivo). Questa divaricazione fra le due terre, però, che in Duchamp Meets Turing Gabriela Galati si pone l’obbiettivo di ricongiungere, si basa su un presupposto dualismo fra contenuto e forma che, opponendo realtà e rappresentazione, rimane incapace di cogliere le modalità performative dell’arte inaugurate da Duchamp ma proprie anche degli ambienti mediali digitali, e considerare così la linea di confine fra le due “terre” come un medium connettivo (e anzi generativo) invece che come un taglio insanabile.
Facendo implodere la costellazione di dicotomie che ha sostanziato la nozione di rappresentazione tradizionale, fondativa del canone moderno e solo apparentemente superata in quello postmoderno, diventa invece possibile cogliere la dimensione incarnata dell’informazione e, per converso, quella informata della materia, ovvero i feedback loop che modulano i collegamenti fra attori umani e non umani in ambienti immersivi e dinamici insieme fisici e virtuali, dove corporeità e cognizione si performano continuamente in relazioni mediate e processi contingenti e distribuiti (pp. 15-16), come ben esemplifica uno dei casi di studio più interessanti scelti da Galati, la performance Excellences and Perfections realizzata su Instagram da Amalia Ulman fra l’Aprile e il Settembre del 2014 (pp. 72-77).Sospesi nella cesura tra originale e copia, segno e cosa, mente e corpo, il Soggetto (un soggetto che sappiamo adesso riconoscere come marcato e posizionato, appartenente alla tradizione umanista e liberale dell’Occidente) l’oggetto e il medium sono rimasti, invece, sostanzialmente divisi. In Duchamp Meets Turing, Galati propone una radicale revisione di una serie di nozioni chiave (ripetizione, simulacro, archivio, incoporazione e medium) che hanno contribuito a produrre questa interminabile catena di duplicazioni adoperate per giustificare “rappresentazionalmente” la rappresentazione – e confluite nella divaricazione fra analogico e digitale, servendosi di alcuni fondamentali antidoti teorici quali la ripetizione o la piega di Deleuze, la différance di Derrida, il postumano di Hayles, o il modello semiotico triadico di Pierce. L’obiettivo dell’autrice non è tanto quello di rintracciare una continuità delle espressioni artistiche negli ambienti digitali, né quello di garantire nuova legittimità al discorso estetico sul digitale, quanto piuttosto quello di scovare il “punto cieco” (p. 18) a partire dal quale l’umano e il macchinico avrebbero potuto ritrovarsi nel mezzo, e invece si sono ritrovati uno di fronte all’altro, pur se – ma solo in apparenza – sembrerebbe sia stato il contrario. Ma immaginare l’umano come una macchina, controllando il passaggio delle informazioni nel corpo per la gestione del suo equilibrio e del suo potenziamento (si veda la prima formulazione della teoria del cyborg di Clynes e Kline (1960), oppure la macchina come un umano, testando fino a che punto può spingersi l’intelligenza di un computer, secondo le interpretazioni prevalenti del test di Turing (la cui iniziale componente performativa e di genere è stata quasi subito assorbita in quella cognitivista-rappresentazionale), sono operazioni che presuppongono entrambe una scissione sostanziale fra l’umano e la macchina, e che possono soltanto contemplare una loro analogia o una loro reciproca sostituzione (con tutte le derive tecnoutopistiche o tecnodistopiche che ciò ha comportato), ma mai la loro coimplicazione (vedi p. 86).
Per Galati, questo punto cieco – che è anche il paradossale punto di vista di nessun soggetto in particolare, ma a partire dal quale ogni soggettività può essere costituita – è proprio il ready-made di Duchamp, che riprendendo la nozione di Lévi-Strauss, l’autrice definisce “significante fluttuante dei media” (p. 148), ovvero un medium vuoto potenzialmente riempibile in modi sempre diversi, piuttosto che qualcosa di fatto e finito stando a una traduzione letterale del termine. Un medium che si presta a spiegare il funzionamento anche dei processi digitali partendo dall’idea di un soggetto e un oggetto emergenti nel mezzo, relazionali e assemblati come quelli che popolano le riflessioni sul postumano e sul cyborg di autori come Haraway, Hayles o Caronia. Nel ready-made, l’opera d’arte si libera finalmente dalla tirannia del referente esterno di cui sarebbe segno e copia, e acquisisice una medialità immanente e radicale, senza punti di partenza né approdi (si veda la recente riflessione di Grusin in proposito).
L’intera operazione duchampiana, che ha nel ready-made il suo fulcro, è una rivolta contro lo statuto retinico dell’arte, che travolge a un tempo l’idea di estetica come contemplazione, di pittura come produzione di oggetti (unici) per un mercato e di spettatore come soggetto esclusivamente guardante, nonché il privilegio della visione (disincarnata) sugli altri sensi. Con Duchamp, l’opera cessa di essere rappresentazione e diventa medium perché il medium scavalca il privilegio del significante e anche del significato come dati nel testo e, passando al contesto, “esplode” (Krauss cit. in Galati, p. 188) facendosi processo – in quanto evento, e non stato, sempre diversamente ripetibile (pp. 62-66). Nell’“indifferenza visiva” del ready-made come opera che non viene fatta il medium non coincide con gli strumenti tecnici della pittura (supporto e pigmenti), come al contrario ribadirà Greenberg sostenendo il primato del significante nell’“esperienza puramente ottica” della pittura, né d’altra parte il ready-made come opera senza autore può essere il contenitore di un messaggio. In tal senso, la difesa duchampiana dell’arte concettuale contro l’arte “animale” come arte che piace più facilmente non va letta come un suo rifiuto della materialità, ma pittosto della piena comunicabilità dei valori che l’arte sarebbe in grado di veicolare una volta per tutte, e del gusto che questi fonderebbero a partire dalla “callistica” dominante.
Duchamp, anzi, definisce coefficiente d’arte il rinvio, lo scarto tra ciò che nell’arte si progetta e ciò che accade, tra intenzione e risultato, ovvero tra controllo e casualità, una nozione che ben si presta a essere letta all’interno di un approccio performativo come quello proposto da Galati, in cui ogni opera è attualizzazione sempre diversa di un “nodo di tendenze” (Lévy cit. in Galati, p. 120) che ne costituisce la virtualità senza fondo. Potremmo dire, allora, che il ready-made esplora il medium come interfaccia, incontro, appuntamento casuale, resi possibili da una trasparenza che, come quella de Le Grand Verre (La Mariée mise à nu par ses célibataires, même, 1915-1923) – tecnicamente non un ready-made ma operante secondo la medesima logica –, non allude a una leggibilità, quanto piuttosto alla necessità dell’attraversamento e del rimando, una trasparenza che partendo dal contesto e attraversando il testo riporta ancora, ma sempre diversamente, al contesto. Trasparenza impura, soggetta al caso che può incrinarla, come effettivamente accadde a Le Grand Verre – opera aperta per eccellenza, mai più riparata né finita – durante un trasporto, o persino opacizzarla, come testimonia Elévage de Poussière di Man Ray, fotografia del 1920 (a sua volta ready-made elevato a potenza) che ci mostra un Vetro appena riconoscibile, in posizione orizzontale e ricoperto da uno spesso strato di polvere. Qui, come anche in un’altra opera “indicale” duchampiana, Tu m’ (1918), la trasparenza si trasforma addirittura in traccia, differimento della presenza, impossibilità dell’origine, direbbe Derrida.
“L’arte è una condizione, una condizione eraclitea di continuo mutamento, no?”, dice Duchamp a Dore Ashton in un’intervista del 1966. Una condizione ready-made, dunque, fluttuante e in divenire, che istituisce lo sguardo (e il suo soggetto) altrove ogni volta, perché sempre già in ritardo o ancora in anticipo rispetto a ciò che è.
di Federica Timeto
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Nell’introduzione dei due curatori del numero, Simone Guidi e Alberto Romele, l’infosfera viene presentata come un fatto totale, non soltanto sociale (secondo la nota locuzione di Marcel Mauss, poi ripresa in ambito strutturalista), ma anche etico, antropologico e filosofico. Il modo in cui viene usato il termine “infosfera” e altre parole chiave (come onlife e third order technologies) richiamano il punto di vista di Luciano Floridi sulla quarta rivoluzione in corso nelle società ad informazione matura (Floridi, 2014), ma la prospettiva proposta nella rivista e riassunta dal titolo è diversa: assumendo che gli esseri umani abbiano iniziato ad estendere il proprio dominio sulla natura da quando sono diventati capaci di registrare e leggere tracce, la discontinuità contemporanea viene ricondotta all’invenzione di macchine diverse da quelle classiche e all’emergenza di ambienti automatici in grado di scrivere e leggere tracce autonomamente (pp. 10-11). Questo è il fatto totale che spinge a riconsiderare complessivamente le possibilità dell’essere umano, circondato di dispositivi di cui può disporre e che, al tempo stesso, sembrano poter disporre di lui in modi sempre più pervasivi e per vie complesse da “tracciare”.
Saltando dall’introduzione al contributo conclusivo – un’intervista di Alberto Romele a Luciano Floridi – notiamo peraltro che il secondo non condivide l’utilizzo del concetto di “traccia” e mette in guardia in primis dal suo portato metaforico: «Questa delle tracce e del “materiale esausto”, i residui di ciò che “esce dal tubo di scappamento” sono metafore che a me non piacciono molto. Dal punto di vista retorico sono accattivanti ma dal punto di vista filosofico le trovo preoccupanti» (p. 169); «Certo c’è anche una seconda maniera di pensare alle tracce come alle impronte lasciate sulla strada durante un viaggio. Questo utilizzo lo trovo vagamente preferibile ma anch’esso ha le sue trappole […]. Ci porta infatti a distinguere tra tracciante e tracciato, come se si stesse parlando delle tracce che un animale ha lasciato nel bosco» (pp. 169-170). Più in generale, Floridi sottolinea che lo spazio non euclideo di Internet non va interpretato come uno spazio geografico, ma come uno spazio logico in cui, tra l’altro, ciò che accade dove arriva l’infrastruttura tecnologica alla base della rete influenza pervasivamente anche ciò che accade dove l’infrastruttura non arriva: questo vale in particolare nelle società «in cui la rete Internet è un servizio come la rete idrica ed elettrica» (p. 173), ossia nelle mature information societies a cui si è fatto riferimento.
Riguardo al tema della traccia, i contributi della rivista che lo affrontano in modo esplicito e prioritario spaziano dal soffermarsi su questioni molto specifiche all’analisi teorica generale: del primo caso è esemplare il contributo di Enrico Terrone (Causal Routes to Nowhere. On Digital Photographs as Traces, pp. 61-72), che discutendo la distinzione tra simboli autografici e allografici di Nelson Goodman illustra come le fotografie digitali possano essere considerate tracce; del secondo tipo di analisi è esemplare il contributo di Bruno Bachimont (Traces, Calculation and Interpretation. From the Measure to Data, pp. 13-36), che affronta il problema contemporaneo della raccolta, del trattamento e della visualizzazione dei dati, dopo avere discusso la complessa relazione tra dati e tracce (che non sono la stessa cosa, p. 20), distinte in tipi (involontarie, volontarie, provocate): il nodo sta nel fatto che la gestione tradizionale dei segni – esemplificata dalla sintesi sinottica della scrittura – si accompagnava a forme di comprensione e interpretazione che oggi sembrano venir meno nella sintesi calcolante tecnologicamente assistita, che omogenizza grandi quantità di dati eterogenei e li elabora con procedure astratte. Da tali elaborazioni dovrebbero emergere informazioni significative per gli esseri umani (nonché per qualsiasi dispositivo connesso alla rete), ma a partire dalla distinzione tra modalità di sintesi (sinottica tradizionale e calcolante) emerge la questione dell’intelligibilità non scontata delle informazioni che nel secondo caso diventano visualizzabili.
Un’altra discontinuità è quella indagata da Marcello Vitali-Rosati (Digital Architectures: the Web, Editorialization, and Metaontology, pp. 95-112), che parte da un racconto di Paul Valéry sulle differenze tra scrittura e architettura (Eupalinos ou l’architecte) per sostenere che la scrittura alla base degli spazi digitali e il connesso processo di editorializzazione (éditorialisation) sono concepibili come azioni e progettazioni performative e architettoniche, in quanto il loro compito fondamentale non si traduce nella pretesa di rappresentare la realtà (ripercorrendo per così dire la trama di un’ontologia esterna alla scrittura), ma si realizza piuttosto come produzione di realtà su più livelli. I livelli di realtà prodotti, più specificamente, sono i molteplici piani dello spazio vivente digitale in cui si inseriscono le nostre possibilità di movimento e interazione: uno spazio e al tempo stesso una cultura digitale, in cui si entra trasformandosi come aderendo ad una religione (cfr. Doueihi, 2011, sulle digital cultures).
Il numero monografico della rivista dà conto di punti di vista differenti sui fenomeni osservabili nell’infosfera e sulle loro implicazioni per il futuro, dal breve al lungo termine. Quanto possano differenziarsi tali punti di vista lo si coglie confrontando con i contributi fin qui richiamati la conversazione tra Francesco Monico e Derrick De Kerckhove (Cybersorveglianza, guerra e religione, il mondo a una dimensione, pp. 159-168) e il contributo di Pierre Lévy (The Data-Centric Society, pp. 129-140). Nel confronto tra Monico e De Kerckhove ci si chiede a che punto siamo arrivati con la cybersorveglianza, tra Marcuse e Minority Report: mentre De Kerckhove richiama la tesi secondo cui Internet sta «diventando un Panopticon molto inquisivo e, peggio, un ‘non-opticon’, come lo chiama Siva Vaidhyanathan, sottolineando il fatto che, a differenza del prigioniero di Jeremy Bentham, il soggetto della rete non sa mai se è veramente spiato, né perché, né quando» (p. 162), Monico si riferisce ad un processo tecnocratico irrazionale e riprovevole, capace di sostenere nuove «antropotecniche basate su meri punta-e-clicca» in cui la cybersorveglianza potrà essere percepita (e perciò richiesta) anche come «vantaggio personale» (p. 167). La stessa domanda sugli usi delle tecnologie e delle macchine – con l’alternativa, se siamo ancora noi a usare le macchine o se le macchine usino noi – sembra saltare, nel momento in cui si sottolinea che le macchine sono già con noi e dentro di noi. Eppure resta uno spiraglio, nel passaggio dalle diagnosi sul presente alle prognosi sul futuro, per inattese prospettive di trasparenza che potrebbero riguardare sia noi, sia il Governo, sia «le istituzioni digitali che stanno cercando di irretirci» (p. 166). Come interpretare il seguente paragrafo di De Kerckhove? «La trasparenza va in entrambe le direzioni. Sì, siamo trasparenti, ma così è anche per il Governo, lo sono le istituzioni digitali che stanno cercando di irretirci; solo una volta che avremo firmato un contratto sociale di reciproca trasparenza, beni comuni e di mutuo rispetto arriveremo in una situazione sana, e risolveremo i veri problemi del pianeta» (p. 166). Quale Governo sarà davvero trasparente? Chi e come deciderà quali siano i veri problemi del pianeta da risolvere grazie alla trasparenza? Il futuro contratto sociale di reciproca trasparenza non sarà altrettanto mitico e fittizio di quello che taluni hanno immaginato all’origine della società? Domande come queste, peraltro, possono nascere e restare in sospeso quando la rivoluzione in corso viene proposta secondo le chiavi di lettura dell’apocalisse o della palingenesi sociale. Pierre Lévy introduce il lettore ad un paesaggio concettuale e metaforico ancora diverso. La società centrata sui dati (Data-Centric), infatti, viene declinata al futuro come una civiltà in cui gli esseri umani vivranno in una sorta di sensorium aumentato (augmented sensorium), che permetterà loro di modellare le soggettività grazie a software che li mettono in relazione con dati, algoritmi e social networks. Nel sensorium espanso dell’intelligenza algoritmica ipotizzato da Lévy sarà possibile ragionare ed agire su di sé attraverso avatars semantici (semantic avatars) o in uno «specchio universale (universal mirror) osservabile da chiunque» (p. 138), su cui gli attori sociali del futuro potranno proiettare ciò che vorranno della propria attività software. Il passaggio richiede l’elaborazione di nuovi diritti, tra cui quello di accesso alla rete. Ma non è soltanto questione di accesso alla rete: questo contributo più di altri mette in evidenza che le ICTs attese potranno dare (a noi e ad altri) una serie di inediti accessi a noi stessi.
Così, Cléo Collomb (Pour un concept technologique de trace numérique, pp. 37-60) sottolinea che le tracce digitali introducono ad «un nuovo paradigma che invita a ripensare l’umano» (p. 60) e la «composizione del nostro “noi”», accompagnandoci non alla fine del mondo, ma alla fine di una certa avventura antropologica, fondata sull’«eccezionalismo antropologico». La nuova sfida consiste nel comprendere cosa significhi avere a che fare con macchine computazioni che funzionano raccogliendo, elaborando e mettendo in circolazione – come noi, per noi, per alcuni anziché per altri ecc. – tracce digitali. Così, Simone Guidi e Alberto Romele (Deforming the Subject. Digital Traces and the Post- of Humanism, pp. 73-94) invitano a comprendere se stessi al di fuori di ogni «ontologia statica» (p. 93), suggerendo che il tema delle tracce digitali e delle tecnologie connesse svelano all’essere umano (nuovamente, si potrebbe dire, e tuttavia in un modo che appare rivoluzionario) la sua essenza mediologica (likewise-mediological essence, p. 93): assumere finalmente la propria etero-costituzione tecnologica, comprendendone l’inedita articolazione contemporanea, diventa in questa prospettiva il primo passo per poter rinegoziare le frontiere dei poteri bio-tecnologici (p. 94) senza presumere di attingere ad un’umanità sussistente in sé e per sé. Al contrario, le migliori possibilità di rinegoziazione di cui disponiamo non passano dall’appello ad una fantomatica umanità pura dalla tecnologia, ma dal riconoscimento della multistabilità tecnologica (technological multistability), che ci permette di sperimentare molteplici accoppiamenti strutturali con i dispositivi di cui disponiamo e che progettiamo.
Un’indicazione simile la si ritrova anche in Maurizio Ferraris (Dalla mobilitazione totale all’azione esemplare, pp. 141-158), quando scrive che «non c’è un in sé della natura umana, c’è un divenire storico, in cui la tecnica gioca un ruolo costitutivo: capiamo che cosa vogliamo e chi siamo dalle tecniche che adoperiamo» (p. 143). Non diversamente da quanto accaduto in altre epoche, secondo Ferraris Internet ci mostra (e conferma) che la nostra specie è incline alla mobilitazione e alla sottomissione e che proprio attraverso la mobilitazione accediamo alla socialità e alla razionalità. Più precisamente ancora, con la sua capacità di mobilitare la nostra intenzionalità (p. 146) – paragonabile a quella attribuita classicamente al Capitale – il Web ci palesa il nostro essere animali costitutivamente mobilitabili e mobilitati, sottomessi e documentalmente dipendenti. Se una volta ci si sottometteva agli dèi, ai sacerdoti oppure a pochi potenti, oggi ci si sottomette alle «imposizioni che ci vengono dal web», esemplificate dalla «coazione a rispondere» (p. 145). Per comprendere lo scenario attuale e per tracciare qualche via praticabile di emancipazione, secondo Ferraris dovremmo lasciar perdere concetti come “alienazione” e “sfruttamento”, in quanto rimandano a un’immagine idealizzata dell’essere umano e quindi ad un insieme di possibilità che non esistono; si tratta invece di leggere meglio il reale inemendabile del terreno su cui camminiamo (facendoci attrito) e di noi stessi, in versione non idealizzata, perché l’emancipazione può nascere «solo se avremo riconosciuto la sottomissione come il carattere fondamentale dell’umano, invece di fare di quest’ultimo un polo di autonomia, libertà, potenza e virtù» (p. 149).
Bibliografia
Doueihi, M. (2011). Digital Cultures. Cambridge: Harvard University Press.
Floridi, L. (2014). The Fourth Revolution: How the Infosphere is Reshaping Human Reality. Oxford: Oxford University Press.
Valéry, P. (1980), Eupalinos ou l’architecte. In Id. Oeuvres II (pp. 79-147). Paris: Gallimard.
a cura di Luca Mori
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Alla voce “posthumanism” Wikipedia elenca sette possibili sfumature semantiche del termine, tutte riconducibili a diverso titolo a questa controversa nozione: si menzionano l’anti-umanismo, il postumanismo culturale, il postumanismo filosofico, la condizione postumana, fino ad arrivare ai massimalismi di transumanismo, Al Takeover ed estinzione volontaria dell’uomo. Ora, senza entrare nel merito di questa catalogazione – che come tale implica una certa arbitrarietà – cercheremo di presentare il saggio di Antonio Lucci Umano Post Umano (Inschibboleth, 2016), azzardandone una collocazione all’interno del cosiddetto postumanismo filosofico. Premessa: “postumano” indica un ambito delle scienze umane distante da una stabilizzazione disciplinare; i margini tematici a cui richiama sono sfrangiati ed estremamente porosi, continuamente soggetti a sconfinamenti e ampliamenti epistemici – di carattere sia inclusivo sia esclusivo. Dagli anni ’70 fino a oggi, infatti, l’idea di poter parlare di “postumano” nei termini di una questione culturalmente rilevante ha fatto sì che il sintagma “post” – su cui pesa tutta la portata della sua novità concettuale – divenisse l’oggetto di innumerevoli branche delle humanities. Con buona probabilità il motivo di questa fortuna è dipeso dal fatto che parlare di post-umano significhi, più o meno consapevolmente, testare la tenuta di un’idea di scienza – “umana” appunto – che mai come oggi pare minacciata da un preoccupante autosuperamento. L’espressione post-umano effettivamente, come ricorda anche Wikipedia, richiama tanto all’idea di crisi quanto alla categoria generale del “salto al di là”, sia storico (after Humanism) che locale (beyond Humanism). Posthumanism va dunque maneggiato come si maneggia un sintomo, concertando prudenza e perizia. Sarebbe eccessivamente sbrigativo liquidare l’emersione prepotente di questa nozione riducendola a un che di passeggero o magari, per additarne l’inconsistenza, a un evanescente fenomeno mediatico. E’ vero, la confusione non manca: l’oggetto su cui si dibatte rimane il più delle volte nascosto dietro un’impenetrabile cortina di nebbia concettuale; le metodologie di analisi talvolta si combinano seguendo giustapposizioni naïf, talaltra si arroccano su anguste posizioni protocollari figlie di specialismi nati l’altro ieri. Eppure, come vedremo, navigando a vista tra interdisciplinarità e tecnicismo, è ancora possibile mantenere un certo equilibrio, tale da consentirci di formulare una risposta plausibile alla domanda “cosa significa postumano?”.
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Ancora troppo umani. Il postumano di Giovanni Leghissa
Recensioni / Ottobre 2015Nel suo saggio Postumani per scelta. Verso un’ecosofia dei collettivi, ospite della collana “Spiritualità senza Dio?” diretta da Luigi Berzano, Giovanni Leghissa dà unitarietà a un tema che ormai lo vede occupato da alcuni anni (La fondazione, la fondazione dell’umano, il post-umano, 2013; Il postumano: un nuovo paradigma?, 2013; curatela di aut aut, La condizione postumana, 2014). Nonostante la brevità del saggio, l’autore si propone di soddisfare la duplice esigenza teorica di inquadrare da più vicino lo sfuggente dibattito sulla questione postumana e, insieme, di estrarne una possibile interpretazione critica. Così, alla messa in ordine di linee guida di una discussione spesso frammentaria, si affianca l’argomentazione di una tesi, frutto dell’incontro di assi di ricerca eterogenei ma convergenti. Le fonti e le questioni interpellate sono infatti numerose e provenienti dalle più disparate aree del sapere filosofico. Tra i “maestri” e le tradizioni di pensiero che vediamo avvicendarsi figurano l’illuminismo, l’evoluzionismo, la filosofia francese del dopoguerra, l’epistemologia, la fenomenologia husserliana, l’idea di un sapere enciclopedico alla Enzo Paci, la decostruzione e l’antropologia filosofica di Hans Blumenberg. Come dichiara l’autore, si tratterà allora di seguire questi molteplici stimoli nell’intento di definire la condizione postumana in termini filosofici, individuando e descrivendo schematicamente gli atteggiamenti caratteristici del suo approccio.
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Corpo e linguaggio
Lacaniana, Serial / Gennaio 2015Jacques-Alain Miller (2006a), nel commento al Seminario XXIII – Il sinthomo di Lacan (2006a), sottolinea che, da un punto di vista psicoanalitico, «il corpo è paragonabile a un ammasso di pezzi staccati. Non ce ne rendiamo conto tanto che restiamo catturati dalla sua forma, tanto che la pregnanza della sua forma impone l’ideale della sua unità» (p. 13). Lo statuto primitivo del corpo, contrariamente all’evidenza del visibile, è infatti di essere in pezzi staccati e, affinché il bambino possa percepire il proprio corpo come una unità, occorre che sia passato attraverso quello che Lacan (2002a) considera un vero e proprio «crocevia strutturale» (p. 107) nello sviluppo. Nel 1936, riprendendo le ricerche sperimentali sulla percezione compiute da Henri Wallon, Lacan indica con il nome di stadio dello specchio quella fase in cui il lattante, tra i sei e i diciotto mesi, ancora immerso in uno stato di frammentazione, impotenza e di prematurazione fisiologica, risponde in modo giubilatorio alla vista della propria immagine riflessa nello specchio. L’immagine speculare permette al bambino un primo riconoscimento, una prima identificazione e, contemporaneamente, segna uno iato incolmabile poiché egli non potrà mai ricongiungersi all’immagine che lo specchio gli rimanda. Scrive Lacan (2002b): «questa Gestalt […] simbolizza la permanenza mentale dell’io e al tempo stesso ne prefigura la destinazione alienante» (p. 89). In questo passo, possiamo già trovare l’idea del soggetto lacaniano come strutturalmente diviso ed è per questa via che Lacan (2002a) sottolinea la dimensione tragica dello stadio dello specchio, la cui essenza è quella di essere una «lacerazione originale» (p. 110) in cui l’essere del soggetto è per sempre separato dalla sua proiezione ideale.
Da una parte, dunque, lo stadio dello specchio permette quell’operazione simbolica che offre al soggetto la possibilità di individuarsi come un “io” mentre, dall’altra, è ciò che lo divide irrimediabilmente dalla sua immagine. È a questo livello che si pone la «Spaltung tra il moi che viene a costituirsi e il soggetto dell’inconscio je, che non si lascia reperire nell’immagine speculare, e che troverà modo di presentarsi nei punti di vacillamento dell’io» (Cosenza, 2003, p. 23-24). Nell’analisi di questo momento così importante nella costituzione dell’immagine del corpo Lacan evidenzia il ruolo fondamentale e preliminare svolto dalla madre: ella è colei che tenendo in braccio l’infans gli indica che l’immagine che lo specchio rimanda è la sua. È quindi attraverso l’azione operata da un elemento terzo – in questo caso la madre – eterogeneo alla dimensione della similarità, che «il soggetto si pone come operante, come umano, come io (je), a partire dal momento in cui appare il sistema del simbolico» (Lacan, 2006b, p. 66).
Quanto detto mette in rilievo come il corpo si strutturi a partire dall’apporto dell’immagine e l’esperienza del corpo in frammenti, di cui testimoniano i soggetti schizofrenici, si pone come caso paradigmatico degli effetti provocati dal non accesso alla funzione unificante dell’immagine speculare. Per Eva, una ragazza schizofrenica, per esempio il corpo è piuttosto il luogo di un ritorno nel reale della libido: Eva in certi momenti di vacillazione deve cingere la testa con una fascia perché possa avere la tranquillità «che tutto ciò che è all’interno della testa resti dentro». Quando il bambino viene al mondo, viene già al mondo nel campo dell’Altro simbolico ed è il simbolico che per Lacan costituisce uno dei tre registri, oltre all’immaginario e al reale, che presiede alla nascita e alla formazione del soggetto. Il simbolico, in particolare, è ciò che umanizza il soggetto sottraendolo alla condizione di puro vivente per immetterlo nel legame sociale.
Nelle Due note sul bambino, Lacan (1987) ci dice che il bambino diventa soggetto solo tramite il desiderio dell’Altro, cioè a partire dal modo in cui la madre, il suo Altro primordiale, ne ha fatto causa del proprio desiderio. Da ciò si coglie che il corpo per l’essere parlante non è più solo un organismo, prodotto di puri bisogni biologici, ma è la risultante della relazione che intercorre tra l’organismo di un vivente e l’Altro del linguaggio. È quindi il simbolico a trasformare l’organismo in corpo e il parlare di corpo implica una trilogia che comporta, oltre al corpo, la parola e l’essere. Per un verso, l’entrata nel campo del linguaggio fa pertanto perdere all’umano lo statuto di essere naturale ma, contemporaneamente, fa guadagnare al corpo uno statuto inedito perché diviene tempio della pulsione: «Come tempio della pulsione il corpo è libidicamente erotizzato, sublimato, sessualmente portatore di una differenza che fa problema, sede di un desiderio che ha fonte in quella perdita di godimento che è correlativa alla iscrizione stessa del simbolico. Ma il corpo è anche ciò che patisce di “quello che non va” e che Lacan chiama “il reale”. È questo reale che si manifesta nel sintomo e che insiste rendendo sofferente il corpo come un impossibile da sopportare ma di cui però non si riesce a fare a meno: “godimento”, lo chiama Lacan» (Miller, 2006b, p. 8).
Bibliografia:
Cosenza, D. (2003). Jacques Lacan e il problema della tecnica. Roma: Astrolabio.
Lacan, J. (1987). Due note sul bambino. La Psicoanalisi, 1, 22-23.
Id. (2006a). Il seminario. Libro XXIII. Il sinthomo (1975-1976). Roma: Astrolabio.
Id. (2006b). Il seminario. Libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi (1954-1955). Torino: Einaudi.
Id. (2002a). Aggressività in psicoanalisi (1948). In Id., Scritti. Vol. 1. Torino: Einaudi.
Id. (2002a). Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io In Id., Scritti. Vol. 1. Torino: Einaudi.
Miller, J.-A (2006a). Pezzi staccati. Introduzione al seminario XXIII “Il sintomo”. Roma: Astrolabio.
Id. (Ed.) (2006b). Gli imbrogli del corpo. Roma: Borla.
di Monica Buemi