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Pietro Verri, all’inizio del suo Discorso sull’indole del piacere e del dolore (1781), descriveva la sensibilità umana come «il grande arcano». L’età moderna è attraversata da una doppia consapevolezza: dell’oscura complessità del sentire e della necessità di imbrigliarlo. Iniziano da qui gli sforzi di subordinare questa potenza centrifuga ad una facoltà ordinatrice, l’intelletto; salvo poi, per rendere ragione del suo aspetto più sacro e inquietante, ricondurla ad una zona delimitata dove quasi tutto è concesso: la sfera dell’arte e i suoi luoghi. L’Estetica nasce divisa tra il dominio dei sensi nell’edificio della conoscenza e il dominio delle arti, soprattutto le arti “belle”, dove la sensibilità è portata al suo grado di perfezione. Un grande equivoco. O un paradigma che non regge più: sia l’arte che la sensibilità sono state liberate, storicamente, nelle loro potenze più inquiete e se si vuole ancora - poiché più che mai si deve - parlare in termini estetici occorrono tutt’altri presupposti. Il libro di Fulvio Carmagnola L’anima e il campo. La produzione del sentire (Mimesis 2016) propone in tal senso i termini di una rifondazione del discorso estetico.
L’intento di Carmagnola è innanzitutto quello di individuare le modalità minime dell’estetico, là dove esso non è stato addomesticato. Le sue prime mosse teoriche si potrebbero riassumere in questa frase: l’estetico è rapporto con un reale. Si tratta della proposizione minima su cui si è giocato il discorso da ben prima della costituzione dell’Estetica moderna: Platone parla del rapporto che va dalla copia o dal simulacro all’idealità reale, Aristotele di quello che lega una facoltà sensitiva al reale fisico. Oggi s’impone la necessità di pensare questo rapporto al di là del legame rappresentativo. Ispirandosi alle analisi del post-strutturalismo francese, Carmagnola cerca nel paradigma realista (nel De Anima di Aristotele prima e nell’Estetica razionale di Ferraris poi) le asperità teoriche che permettono di riformulare l’estetico come l’affezione che un’anima riceva da un fuori. Il reale si configura come un’esteriorità dinamica, opacità non-oggettivabile né riducibile a simbolo, che frantuma il soggetto (una lacaniana extimité) a partire dalle sue stesse facoltà. Ciò che è affetto, l’anima, è invece una tabula dotata non di semplice ricettività, ma di una forma di riflessione produttiva, la cui attività resta precedente alla coscienza. C’è un “fuori” che affetta un’“anima”: ecco l’estetico.
La mossa teorica cruciale sta nel collocare l’anima tra le facoltà e in ognuna di esse: come spiega Carmagnola, citando Deleuze, ogni facoltà ha il suo sentire, la sua zona di virtualità dinamica, la sua passione. La sensibilità, intesa come facoltà dei sensi, confina “in basso” con le potenze del reale; si tratterà di liberarla dal suo ruolo iniziale nell’edificazione del soggetto e dalla sua subordinazione all’intelletto. Il pensiero, a sua volta, confina “in alto” con un impensato, come il nous che Aristotele divide in passivo (materiale) e agente (formale). Il “fuori” è dunque tanto concreto quanto astratto. E si manifesta come presentazione assoluta: l’immagine, nel mostrare le ragioni del proprio apparire, è un nudo imperativo che coglie di sorpresa tanto i sensi quanto il pensiero. Le parti più feconde del saggio sono proprio quelle che si avvicinano all’incontro che avviene nelle opere - da Beckett a Barnett Newman -, all’accadere dell’estetico in virtù di queste due potenze differenti.
L’anima è così una sorta di ricettacolo delle forme che riflette la passione dei sensi e quella del pensiero. Riguarda il senso non elaborato dalla coscienza, e perciò è più corpo che spirito. Soprattutto, è «emergenza di un terreno»: si configura spazialmente, come un campo. Togliendo gli oggetti, spiega Carmagnola, e togliendo le loro coordinate trascendentali, non resta che il campo di produzione, il luogo dell’incontro, il campo del sentire. Questo termine pesante tenuto in gioco, “anima”, appare come un tentativo di sviluppare la nozione deleuziana di superficie. Al limite delle facoltà, secondo il loro eccesso, il sentire ha luogo come emergenza di uno spazio, «impersonale» e «intensivo» (Deleuze), «esteso» - perché non cogitans, come l’inconscio, e in tal senso «tecnico» (Nancy). Non ci addentriamo nelle argomentazioni riportate dall’autore; basti l’esempio di quelle opere (quei frutti della techne), che per semplicità chiamiamo ancora opere d’arte, in cui siamo “invitati ad entrare”, che impongono cioè un ingresso piuttosto che un’osservazione distaccata: non siamo più oggi, di fronte ad un quadro, ma «dentro una macchina». Nel produrre puro sentire, l’arte contemporanea non rappresenta, ma presenta degli spazi.
Anche se un tale mosaico teorico non sembra raggiungere lo stato di una sintesi, l’autore mostra un grande lavoro di raccolta e messa a frutto di materiali disparati, in assoluta consapevolezza delle attuali tendenze filosofiche. L’originalità della proposta si scorge anche nelle sue prime conseguenze: fra tutte, la possibilità - suggerita da Carmagnola nell’ultima parte del saggio - di interpretare il campo estetico come una componente del campo del biopotere. Quello che si dischiude attraverso i vari dispositivi di apertura del campo del sentire (dalle immagini pubblicitarie agli oggetti di consumo) è uno spazio comune di godimento, di empatia nel being entertained, che non si rivolge più a delle soggettività compiute ma, piuttosto, le compie.
Qui l’autore intercetta un passaggio importante e raramente riconosciuto: l’ideale dell’arte come chance di resistenza e liberazione è legato alla supposizione di una sua mistica portata veritativa. È sul terreno vago delle potenzialità politiche che la filosofia dell’arte e la vecchia estetica continuano ad avere un peso. Nella sua analisi, fortemente influenzata dalla psicanalisi lacaniana, Carmagnola sembra però vedere solo un lato della questione. Se è vero che il distoglimento dischiuso dal sentire non ha più alcun valore liberatorio nel caso dell’arte attuale (l“arte contemporanea” e il suo sistema), è vero d’altra parte che, allargando il campo a ciò che arte non è, anche le chances per la prassi si moltiplicano. Come intendere altrimenti il fenomeno (non ancora del tutto superato nell’istituzionalizzazione) della street art? Come includere quelle immagini che, da sole, tengono in piedi una memoria minacciata, come i pochi fotogrammi scattati dentro i campi di sterminio? Il «campo del sentibile» è qualcosa di molto più sfuggente del campo dell’arte, e deve indicare un più ampio paesaggio di pratiche.
di Gregorio Tenti
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Il corpo come immagine…ma non senza godimento
Lacaniana, Serial / Marzo 2015Lo statuto del corpo in psicoanalisi assume un valore diverso dall’organismo vivente nella sua funzionalità biologica. Freud sin dall’inizio si è preoccupato di sottolineare come l’inconscio abbia effetti sul corpo, e con l’isteria, attraverso l’osservazione dei sintomi presentati nel corpo, giunse alla costruzione della teoria delle pulsioni per spiegare l’eccesso di eccitazione nel corpo e la ricerca di una soddisfazione che si ottiene al di là del soddisfacimento di un bisogno.
Nel testo Introduzione alla Psicoanalisi (1989) Freud scrive: «Una pulsione si differenzia da uno stimolo per il fatto che trae origini da fonti di stimolazione interne al corpo, agisce come una forza costante e la persona non le si può sottrarre con la fuga, come può fare di fronte allo stimolo esterno. Nella pulsione si possono distinguere: fonte, oggetto e meta. La fonte è uno stato di eccitamento nel corpo, la meta l’eliminazione di tale eccitamento; lungo il percorso dalla fonte alla meta la pulsione diviene psichicamente attiva» (p. 205). Già in Pulsioni e loro destini (1976) affermava che «la pulsione ci appare come un concetto limite tra lo psichico e il somatico, come il rappresentante psichico degli stimoli che traggono origine dall’interno del corpo e pervengono alla psiche, come una misura delle operazioni che vengono richieste alla sfera psichica in forza della sua connessione con quella corporea» (p. 17). Lacan riprenderà la teoria delle pulsioni di Freud articolandola, però, al linguaggio; infatti egli sottolineò come il significante entri nel corpo rendendolo corpo vivente, che diventa quindi sostanza godente. Pertanto, avviene un effetto di scrittura che il significante esercita sulla superficie corporea, e il significante stesso può farsi veicolo di godimento introducendo del godimento supplementare nel corpo vivente. Dunque, quando parliamo di corpo non ci riferiamo all’organismo, a quello che ci viene dato; inoltre è necessario distinguere il corpo dall’organismo biologico e dal soggetto. Uno degli effetti del linguaggio è di separare il corpo dal soggetto; questo effetto di divisione, di separazione tra il soggetto e il corpo è possibile solo attraverso l’intervento del linguaggio: il corpo deve costituirsi, non si nasce con un corpo. Vale a dire che il corpo si costruisce secondariamente, essendo effetto della parola.
Le prime teorie di Lacan sul corpo risalgono al 1949, alla teoria dello stadio dello specchio, in cui egli sostiene che il corpo è determinato dalla sua immagine. Nello stadio dello specchio, Lacan ci mostra che, affinché si riconosca come un corpo intero e unificato, al soggetto è necessario un altro, dunque è solo per identificazione con l’immagine dell’altro che il bimbo acquisisce l’immagine del proprio corpo. Ciò nonostante la condizione per l’identificazione immaginaria è il suo accesso alla struttura del linguaggio, ossia al registro simbolico. Perciò la costituzione dell’immagine corporea è un effetto che viene dal simbolico. L’immagine del corpo è ciò che dà consistenza all’Io che quindi si costituisce per il tramite dell’immagine del corpo. Già Freud nel testo L’Io e l’Es (1977) aveva messo in connessione l’Io con il corpo affermando che l’Io è un’entità corporea ed è il luogo su cui si proiettano le sensazioni provenienti dalla superficie del corpo (cfr. p. 488). L’Io è un Io-corpo dice Freud (ivi, p. 490). Il corpo immaginario è una forma completa, senza fratture, e ciò avviene per mezzo della rappresentazione di sé che il bambino intercetta nello specchio.
Nel 1972-73, nel Seminario XX Ancora (2011), Lacan torna alla questione del corpo intrecciandola con il godimento; infatti introduce il concetto di corpo come sostanza che gode: «[…] non sappiamo che cos’è un essere vivente, sappiamo soltanto che un corpo è qualcosa che si gode», introduce cioè il corpo nella sua dimensione più pulsionale. Il soggetto dell’inconscio, costituito dal significante, lascia il posto al parlessere ovvero a un essere attraversato dal linguaggio e toccato dal godimento del corpo. Il corpo parlante ha due godimenti, il godimento della parola e il godimento del corpo. Nel parlessere, c'è contemporaneamente godimento del corpo e godimento che si relega fuori corpo, godimento della parola.
Nel 1975 Lacan affronta di nuovo il concetto di corpo nel Seminario XXIII, Il Sinthomo (2006) definendo il corpo come supporto dell’immaginario, rimarcandone però la sua posizione nello spazio e quindi la sua consistenza. Lacan utilizza il termine di pelle per indicare che ciò di cui si tratta è una superficie, ma nel senso di sacco, pelle come sacco che avviluppa, che contiene al suo interno gli organi corporei uniti (cfr. p. 61). Il corpo non è soltanto l’immagine, al punto che l’immaginario implica il godimento, il reale. Il reale, il godimento, che è al di fuori del senso, ma non al di fuori del corpo, è la consistenza del parlessere. Il corpo come sostanza godente, luogo del godimento e per godere, è il supporto del parlessere. Il corpo, dunque, come tempio del godimento, e perché sia tempio del godimento, e non tempio del puro significante, il corpo deve essere vivente. Ma che cosa vuol dire corpo vivente? è la domanda di Jacques-Alain Miller nel suo testo Biologia lacaniana. Egli dice che non si tratta unicamente del corpo immaginario (non si tratta cioè del corpo che è operativo nello stadio dello specchio), ma non si tratta neppure del corpo simbolico. In questo contesto, parti del corpo umano possono essere elevate alla dignità di significanti. Come il fallo per Freud e il seno per Melanie Klein. Non si tratta dunque né di un corpo immagine, né di un corpo simbolizzato. Per Miller (2000), si tratta invece di un corpo vivente, e «[…] il godimento stesso è impensabile senza il corpo vivente: il corpo vivente è la condizione del godimento» (p. 20).
Bibliografia:
S. Freud (1989). Introduzione alla psicoanalisi. In Id., Opere, vol. 11: Torino: Bollati Boringhieri
Id. (1976). Pulsioni e loro destini. In Id., Opere, vol. 8. Torino: Bollati Boringhieri
Id. (1977). L’Io e l’Es. In Id., Opere, vol. 9. Torino: Bollati Boringhieri
J. Lacan (2011), Il seminario, Libro X, Ancora (1972-73). Torino: Einaudi
Id. (2006). Il seminario, Libro XXIII, Il Sinthomo (1975-76). Roma: Astrolabio
J.-A. Miller (2000). Biologia Lacaniana ed eventi di corpo, “La Psicoanalisi” (28)
di Barbara Nicotra