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Recensione a V. Jullien, Ce que peuvent les sciences, Paris, Éditions matériologiques, 2020
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Questo libro di Vincent Jullien cerca di indagare, con un esercizio impressionante di sintesi, ciò che possono le scienze. Per farlo, l’autore si interroga innanzitutto su ciò che le costituisce e per ciò stesso cerca di giustificare il metodo dell’epistemologia storica. In seguito si occupa di mettere in discussione l’esistenza di una scienza fisico-matematica e nello stesso tempo l’idea di una rottura epistemologica fondamentale tra la fisica e le altre scienze. Infine, nella terza parte, Jullien affronta più direttamente ciò che possono le scienze, esponendo le conseguenze e i progressi che possiamo aspettarci dal loro sviluppo.
L’autore comincia la sua opera instaurando una rottura netta tra i fatti puri, come, ad esempio, «un sasso cade al suolo», e i fatti scientifici, come «un sasso cade al suolo perché l’attrazione gravitazionale lo costringe al suolo». Al pari di Bachelard, si oppone così fin dall’inizio ad alcuni filosofi delle scienze, Meyerson e Carnap, che difendevano l’idea di una continuità tra gli enunciati del senso comune e gli enunciati scientifici. È solo quando questi «stessi fatti materiali […] [sono] accompagnati da un’attività razionale [che] fanno parte delle scienze e della loro storia» (p. 26). La caduta di un sasso al suolo potrà entrare nella storia delle scienze solo dal momento in cui una teoria gli sarà associata. Dalla teoria aristotelica alla teoria della relatività generale, passando per le tesi galileiane e newtoniane, diverse teorie si sono succedute attraverso i secoli per tentare di capire perché e come un sasso cade al suolo. E se le tesi aristoteliche e poi newtoniane sono state confutate, comunque appartengono alla storia delle scienze. Allo stesso modo, le misure prese oppure i principi su cui ci si deve fondare potranno costantemente essere rimessi in discussione. Infatti, se le scienze sono costituite «da ciò che risulta dalla trasformazione razionale dei fatti elementari, di idee e di immaginazioni suggestive in enunciati o attività complessi, allora, le scienze e la loro storia […] non possono che essere in conflitto» (p. 34).
Jullien si interessa poi alla definizione stessa di una teoria scientifica e questo al fine di giustificare meglio la necessità di ricorrere a un’epistemologia storica. In effetti, secondo l’autore, non si può, come avevano preteso di fare in particolare i filosofi del Circolo di Vienna, descrivere la dinamica delle scienze «come un insieme astratto e formale da cui la struttura poteva essere descritta servendosi di considerazioni logiche e formali, insiemistiche, operatorie, algoritmiche» (pp. 46-47). È precisamente in questa stessa prospettiva logico-insiemistica che Carnap escludeva dall’analisi della scienza sia le prospettive storiche che quelle sociologiche. Secondo Jullien, se si può agevolmente prescindere dalle condizioni sociologiche all’interno delle quali una teoria scientifica è stata prodotta per comprenderla, questo non è valido per la sua storia: «la sociologia ci propone il contesto della teoria e la storia ci suggerisce il testo» (p. 48). Questa tesi concorda con quella difesa da Jullien, in appendice alla sua opera, sull’esternalismo. Le ragioni ideologiche, religiose, politiche o morali sono quindi considerate dal filosofo come esterne alle teorie scientifiche, poiché non giocano un ruolo probante nei confronti del contenuto delle teorie elaborate e neanche sui loro dispositivi sperimentali.
La storia costituisce dunque per Jullien la fonte principale di analisi della scienza e questo soprattutto per tre ragioni: innanzitutto perché dei concetti come principio, anomalia oppure refutazione trovano davvero un senso e un’efficacia solo all’interno della storia delle scienze; poi perché si capisce meglio lo stato presente di una scienza e dei suoi problemi alla luce della sua storia; infine perché alcune linee di argomentazione moderne sono la ripresa di argomentazioni apparse nelle controversie scientifiche passate, come per esempio la questione dell’unificazione concettuale dello spazio e della materia. Jullien precisa poi, basandosi in particolare su Bachelard, la specificità della storia delle scienze rispetto alla storia generale: la prima, al contrario della seconda, permette di giudicare le attività umane passate, in questo caso le attività scientifiche. Questo giudizio dello storico sarebbe possibile grazie all’idea di un palese progresso delle scienze attraverso la storia: «è solamente se si pensa che il progresso esiste nelle scienze che l’epistemologia può ”giudicare”» (p. 70). Non solo capiamo meglio lo stato attuale di una scienza alla luce delle sue problematiche passate, ma la conoscenza dello stato presente di essa sembra anche uno strumento indispensabile alla comprensione dei suoi stati anteriori. La teoria della relatività generale permette anche di capire meglio l’interesse della tesi cartesiana della materia estesa, che identificava già la materia e lo spazio. Jullien non difende peraltro una concezione whiggista della storia della scienza che consisterebbe soprattutto nel fare la storia dei vincitori. Questo però non deve neanche farci cadere nell’«illusione “storicista” che ci farebbe credere che possiamo pensare oggi le controversie nelle condizioni in cui si produssero» (p. 83).
La seconda parte dell’opera consiste nel dimostrare che, nonostante l’associazione molto stretta che unisce la matematica e la fisica, non si può realizzare la fusione di questi due domini in un’unica scienza, facendo sparire per ciò stesso la loro natura distinta. Proprio come ciò che chiamiamo tecnoscienza non può eliminare la distinzione essenziale tra tecnica e scienza, come spiega Jullien in appendice al suo libro. Questa seconda parte sembra costituire una parentesi, in quanto la terza parte pare rispondere e prolungare l’impresa iniziata nella prima. In realtà essa è imprescindibile, perché il mantenimento della distinzione essenziale tra gli oggetti e le procedure della fisica e della matematica permette di giustificare un approccio epistemologico comune per la totalità delle scienze della natura, senza negare l’intensità particolare del legame tra fisica e matematica.
Jullien comincia con l’esame dei rapporti che la fisica e la matematica hanno intrattenuto a partire dall’Antichità. Fino al XVII secolo, «lo studio del mondo sensibile, la filosofia naturale, è debolmente stimolata o animata dalla matematica» (p. 116). Dopo di che «con Galileo, ma anche con Keplero, Cartesio, […] la matematica occupa […] un posto chiaramente più grande nella costituzione delle teorie e delle attività fisiche.» (p. 123). Questa matematizzazione delle scienze dei corpi materiali inanimati è accompagnata da una duratura separazione dalle scienze biologiche. Tuttavia, benché questa associazione tra la fisica e la matematica sia maggiore, la distinzione tra loro non cessa di esistere. Infatti, secondo Jullien, non si deve confondere un’articolazione forte tra questi due domini – come nella legge della caduta dei gravi enunciata da Galileo – con una fusione di questi due domini che condurrebbe all’esistenza di oggetti e di procedure fisico-matematiche.
Se secondo Cartesio la matematica ha chiaramente solo un ruolo metodologico per la filosofia e la fisica, in quanto abitua lo spirito a riconoscere la verità così come a ragionare rigorosamente, la matematica occupa, nei Principia di Newton, un posto molto più centrale potendo lasciar supporre una fusione dei due domini. Tuttavia, ancora una volta, articolazione non è fusione e «la natura dei diversi piani della teoria fisica newtoniana è chiaramente distinta» (p. 136) poiché il livello superiore e inferiore della teoria sono fisici mentre i concatenamenti e gli sviluppi dipendono della matematica. Per Leibniz, la barriera che separa la matematica dalla fisica sembra molto più netta. La prima costituisce un vasto campo di possibilità da cui la fisica può attingere, al contrario di Newton che «costringe le forme matematiche utilizzate ad essere, fin da principio, delle espressioni delle cose fisiche» (p. 144). Dunque, una divisione del lavoro tra fisica e matematica è stata stabilita e la grande efficacia di questo nuovo metodo non deve farci credere in una dissoluzione di questa distinzione. Rispetto alla sua nascita nell’Antichità, è solo da tre o quattro secoli, in sostanza, che la fisica utilizza come strumento principale del suo sviluppo la matematica.
Quanto alla matematizzazione delle scienze biologiche, rifiutate da Buffon e Diderot, si dovrà aspettare la fine del XX secolo affinché si sviluppi davvero. Tuttavia, anche se «l’uso della matematica è diventata un’evidenza per la biologia nel corso del XX secolo», ciò non toglie che la matematica, come fa con la fisica, possa unicamente costituire un mezzo che permette un progresso più ampio delle scienze biologiche. Pertanto, «ciò che separa la fisica dalle altre scienze della natura è di minor rispetto a ciò per cui si assomigliano» (p. 190). Un grande numero di punti comuni permettono un avvicinamento tra l’epistemologia delle scienze biologiche e quella dei corpi inanimati: la costituzione dei fatti scientifici, il ruolo delle anomalie, l’elaborazione delle ipotesi e delle teorie, le attività di laboratorio, ecc.
La terza parte del libro ha come obiettivo principale quello di mostrare, questa volta direttamente, ciò che possono le scienze, sia biologiche sia fisiche. Le teorie scientifiche ci hanno permesso innanzitutto di ottenere una grande quantità di conoscenze, come per esempio l’età della Terra, il suo diametro o anche l’evoluzione delle specie. Tuttavia, dobbiamo notare che queste conoscenze sono valide indipendentemente dalle teorie che ci hanno permesso di scoprirle. È per questo che «se è pertinente convalidare il progresso delle conoscenze grazie alle scienze, lo stesso non può dirsi per le teorie scientifiche stesse. Il loro progresso è infinitamente più delicato da afferrare e soggetto a contestazione.» (p. 197). Diversi schemi esistono per descrivere il progresso delle teorie scientifiche: «il progresso per accumulazione, per inclusione o incastro, per perfezionamento o per sviluppo; può anche essere pensato come ciclico o asintotico» (p. 197). Lo schema dell’incastro, che è difeso dal positivismo logico, consiste nel fatto che teorie più potenti vengono a superare e includere le precedenti. Sia Kuhn che Popper o anche Bachelard si sono opposti, ognuno a suo modo, al modello dell’incastro. Se Jullien condivide, con questi tre autori, l’idea di un progresso delle teorie scientifiche attraverso le rivoluzioni, egli difende, allo scopo tuttavia di escludere il relativismo scientifico, l’idea che una nuova teoria può sostituirne un’altra solo se è più potente. Questo è il motivo per cui, e su questo punto Jullien diverge da Kuhn, si può instaurare una commensurabilità possibile tra le teorie.
Partendo da ciò, Jullien difende insieme il carattere provvisorio e confutabile delle teorie, che per ciò stesso non sono mai vere, e il progresso delle conoscenze e teorie scientifiche. Come però si possono sostenere insieme il progresso delle conoscenze e teorie scientifiche e nello stesso tempo il fatto che queste ultime non siano mai vere? La risoluzione di questo paradosso, centrale nell’opera, si basa sull’idea, difesa anche da Kuhn, che man mano che la scienza progredisce, lungi dal farci avvicinare a una verità della natura, accresce solo la nostra ignoranza di essa. Quando l’esistenza della volta celeste che comprende il mondo fu confutata, questo permise certo un incremento delle nostre conoscenze dell’Universo, ma ciò che c’era al di là delle stelle visibili diventò una fonte notevole di ignoranza. Le scienze non hanno quindi il potere di scoprire né di dirigersi verso la verità della natura, ma forse permettono di «migliorare senza fine la qualità del dialogo che la nostra ragione intrattiene con essa» (p. 17).
Jullien approfitta del capitolo seguente per affrontare il metodo induttivo. Per Darwin, le collezioni dei minerali come quelle dei fossili vegetali e animali accumulate dai naturalisti non costituiscono per niente una scienza geologica o degli esseri viventi: «i fatti puri, non importa quanti siano, rimangono in silenzio e non forniscono teorie, spiegazione, intelligibilità.» (p. 228). Anche la scoperta di Fleming della penicillina non costituisce un elemento probante a favore del metodo induttivo. Infatti, da decenni prima di questa scoperta, i batteriologi cercavano un anticorpo che impedisse la proliferazione dei batteri e «secondo Popper, non era la prima volta che si osservava l’impianto accidentale di una muffa battericida in una coltura microbica […]. Il lampo geniale di Fleming fu di congetturare che la penicillina aveva questo ruolo» (p. 241). È solo nella misura in cui sappiamo prima ciò che i fatti bruti possono insegnarci che essi possono acquisire un senso nello sviluppo delle scienze. Inoltre, la storia delle scienze ci mostra che «gli sviluppi scientifici non sono avvenuti sul modello dell’induzione» (p. 246).
Le scienze possono, infine, essere esplicative, cioè – nel senso di Cartesio – indicare le cause dei fenomeni. La storia delle scienze però mostra «delle belle e potenti teorie che rimangono debolmente o molto debolmente esplicative» (p. 257). Così, la debole capacità esplicativa della dottrina newtoniana non fu un ostacolo alla sua ricezione e al suo successo. Così come anche la funzione, per esempio il fatto di spiegare l’esistenza dell’occhio grazie alla necessità della vista, «non è in grado di proporci un orizzonte, un limite verso il quale tenderebbero le nostre conquiste scientifiche» (p. 267), non più del principio di economia.
Questo libro termina con alcune considerazioni sulla pandemia di Covid-19. Secondo l’autore, «lo schema di sviluppo […] di questo episodio scientifico ha alcune possibilità di rimanere valido e darci alcune idee di ciò che possono e di ciò che non possono le scienze» (p. 297). La matematizzazione delle scienze, attraverso in particolare l’epidemiologia, è qui notevolmente all’opera; un grande numero di piste di trattamenti o di vaccini ha potuto mostrare il ruolo centrale dell’immaginazione dei ricercatori. Inoltre, la velocità molto più grande con cui il virus ha potuto essere sequenziato attesta i progressi spettacolari delle conoscenze scientifiche. Progressi che, anche in questo caso, non si sono sviluppati senza un incremento dell’ignoranza.
Ciò che possono le scienze è un’opera che, grazie al suo sforzo di esaustività e alla sua ambizione, è decisamente stimolante. Jullien prova infatti ad interessarsi sia alla fisica sia alla chimica, alla geologia o alla biologia, ossia alla totalità delle scienze considerate come scienze della natura. Tuttavia questa esaustività non si spinge fino alla comprensione delle scienze umane e sociali – naturalmente c’è sempre una forma di ingiustizia nel rimproverare a un libro una mancanza di esaustività. Come afferma Jullien, «l’idea di scienza esige qualche informazione che risponde, seppure incompletamente, al perché o al come della cosa di cui si tratta» (p. 23). La storia, la sociologia ma anche l’economia non cercano anche loro di fornire delle informazioni che rispondono al perché o al come dell’oggetto in questione? Non cercano anche loro di spiegare i fenomeni quand’anche questi fossero i risultati delle azioni umane? Questa domanda ci sembra tanto più legittima considerato che una parte di queste scienze ricorre sempre di più allo strumento matematico. L’autore stesso si serve di un esempio proveniente dalle scienze economiche per mostrare i limiti dell’approccio induttivo nei Big Data: «così abbiamo visto le previsioni economiche di natura (IA, BD) incapaci di vedere arrivare le grandi crisi finanziarie degli anni 2008-2009, mentre i teorici le annunciavano» (p. 269). Ciononostante, sembra che sia possibile trovare un inizio di risposta alla fine del primo capitolo. In effetti, come ricorda Jullien, benché la storia delle scienze sia caratterizzata dalle sue controversie, dei vasti quadri teoretici finiscono sempre per essere accettati, anche provvisoriamente: «è anche, secondo me, una caratteristica di ciò che possiamo chiamare scienza, cioè questa facoltà che hanno le teorie scientifiche e le controversie all’interno delle quali si sviluppano, di offrire delle vaste sintesi (ciò che Kuhn chiama la scienza normale). A contrario, disponiamo probabilmente di un buon criterio per individuare le false scienze, questi domini dove non si impone mai un punto di vista consensuale e che non conoscono mai un ritmo “normale”» (p. 41). Questo significherebbe che le scienze umane e sociali sarebbero delle false scienze in cui non si impone mai un punto di vista consensuale? Bisognerebbe dedurre una differenza tra ciò che possono le scienze della natura e ciò che possono le scienze umane e sociali? Sfortunatamente, l’autore non risponde a queste domande.
di Corentin Fève