-
Wittgenstein filosofo della storia
Recensioni / Settembre 2022Alla fine del secolo scorso, l’idea che la storia fosse finita fu salutata con fiducia da molti, nella speranza che la scomparsa dell’Unione Sovietica e il trionfo del capitalismo sancissero l’inizio di una fase di stabilità e armonia in cui l’umanità avrebbe trovato il suo compimento definitivo. Negli anni a venire, quell’idea si è così radicata da diventare di senso comune: il nostro è il migliore dei mondi possibili, mentre il solo pensare a un cambiamento dell’organizzazione politica e istituzionale appare, se va bene, come un anacronismo, se va male, come un rifiuto della realtà. Logica e Tumulti. Wittgenstein filosofo della storia (Quodlibet, 2021) di Marco Mazzeo si oppone con fermezza a questa narrazione. Col pretesto di uno studio sul più grande filosofo del Novecento, l’autore combatte una lotta senza quartiere in difesa della dimensione storica dell’esperienza umana.
Per prima cosa bisogna fugare un equivoco: storia non è il mero scorrere del tempo, il costante succedersi degli eventi. Non va dunque confusa con la filogenesi, né con la deriva dei continenti. È invece «l’insieme delle trasformazioni istituzionali e produttive grazie alle quali gli esseri umani riescono a salvare la pelle. La storia indica, in primo luogo, il modo nel quale i sapiens producono le condizioni di possibilità della propria vita» (p. 10). Indica quei cambiamenti «imprevedibili» – perché non riconducibili a un repertorio d’istinti – e «necessari», senza i quali non riusciremmo a produrre i mezzi della nostra sussistenza. Mentre il tempo dei fenomeni naturali è continuo, storia è sinonimo di discontinuità e fa rima con improvvisi tumulti repressi nel sangue o con una nuova tecnologia che sconvolge l’organizzazione della vita.
Tuttavia, in questa operazione di salvataggio, Wittgenstein non è un alleato. La diagnosi del libro è netta: il filosofo è cieco alla storia. Con un apparato filologico che lascia poco spazio a dubbi (vengono classificati tutti i termini riconducibili alla famiglia della «Geschichte» presenti nel lascito testamentario), Mazzeo dimostra che l’autore delle Ricerche filosofiche prospetta un’«antropologia senza storia» (p. 38): offre istantanee dirompenti, ma non vede la differenza tra il tempo umano e i mutamenti geologici. In questo è un degno «allievo di Spengler» (p. 55), una tra le sue fonti più importanti. Nel secondo capitolo del libro viene soppesato il debito di Wittgenstein con l’autore del Tramonto dell’Occidente il quale, sulla scorta di Goethe, paragona le epoche storiche alle fasi di sviluppo di organismi viventi come le piante, riconducendo la temporalità umana all’andamento ciclico che caratterizza la vita naturale in generale. E così una rivoluzione può diventare un’escrescenza da tagliare, un governo autoritario la piena maturazione di una cultura.
Nell’ipotesi interpretativa di Mazzeo, la discussa amicizia di Wittgenstein con Sraffa (a sua volta amico di Gramsci) sarebbe giunta al capolinea proprio in virtù di questa ritrosia nei confronti della storia. Il primo capitolo è dedicato a una ricostruzione del rapporto tra il logico e l’economista, il quale, oltre a ritenere «insopportabile» che l’amico abbia in Spengler un «punto di riferimento», nei suoi appunti denuncia «in modo esplicito» la «scarsa presenza della dimensione storica» (p. 30) nelle riflessioni dell’interlocutore.
Wittgenstein può però venirci in soccorso quando meno ce lo si aspetterebbe, cioè quando si occupa di matematica. Nelle sue annotazioni sul calcolo e sui teoremi trapela una nozione, quella di storia naturale, che può essere promettente approfondire. È quello che fa Mazzeo nel vertice teorico del volume, il terzo capitolo, in cui propone «una riflessione circa l’intreccio tra natura e storia umana, a prescindere dalla filologia wittgensteiniana» (p. 94) (la filologia tornerà presto, nelle due appendici, dedicate l’una a un confronto tra l’uso filosofico degli scacchi in Saussure e Wittgenstein, l’altra al poco studiato rapporto del filosofo austriaco con la fotografia). L’espressione «storia naturale» è gravata da una lunga tradizione che impedisce di coglierne appieno la portata teorica, e di cui l’Historia naturalis di Plinio il Vecchio costituisce l’illustre testo fondativo. Il paradigma tradizionale, che nel corso dei secoli ha avuto grande fortuna, consiste in una sorta di modello enciclopedico, il cui obiettivo è raccogliere e descrivere gli oggetti che appartengono al regno della natura. La ricerca è simile a quella del collezionista che punta a reperire quanti più documenti possibile, ma senza un vero criterio di selezione. Motivo per cui vi si possono trovare aneddoti circa i lupi mannari accanto a descrizioni di cercopitechi, oppure ipotesi sul senso del pericolo degli elefanti, ma anche cataloghi delle tecniche di cattura da parte degli esseri umani. In tempi recenti questo genere letterario è entrato in una seconda giovinezza: il lemma «storia naturale» figura nel titolo di studi eterogenei, che possono riguardare la morale umana da una prospettiva evoluzionistica, oppure «il profumo, gli alberi, la birra», fino ad arrivare al «concetto di distopia» (p. 83). Al netto delle evidenti differenze tematiche, i corpi che popolano questo variegato firmamento sono accomunati dalla «temporalizzazione dei fenomeni naturali senza un confronto esplicito con la dimensione storica. Si tratta di una disposizione spaziale del sapere scientifico» (p. 87). La temporalità tipicamente umana viene eliminata, annacquando la specificità della nostra forma di vita in un generico calderone in cui tutte le vacche sono nere. Mazzeo propone, al contrario, di prendere sul serio la dicitura «storia naturale», la quale, oltre che un ossimoro, contiene anche un guanto di sfida: come tenere insieme «natura (ontogenesi, filogenesi) e storia (le trasformazioni istituzionali di lingue, riti, forme della tecnica, modi di produzione)» (p. 87)? È possibile un «naturalismo non rinunciatario» (p. 87), che non ceda alla tentazione di nascondere sotto al tappeto le continue trasformazioni culturali che sembrano segnare così profondamente la nostra specie?
La domanda è retorica, alcuni suggerimenti per provare a rispondere ce li fornisce Mazzeo in un elenco di «paradossi» (p. 94), anche se forse sarebbe più corretto chiamarli «tesi sul concetto di storia naturale». Non è in questa sede possibile ripercorrerne l’andamento con dovizia di particolari, mi limiterò a riprendere un punto particolarmente degno di nota, la critica al concetto di adeguatezza. Bersaglio polemico è l’idea ingenua, ma non per questo non diffusa, secondo la quale le condotte umane possono venir lette nei termini di «risposte perfezionate a esigenze precedenti» (p. 98), come se le vicende storiche – ivi comprese le trasformazioni dell’assetto produttivo – non fossero altro che una serie di graduali adattamenti in direzione di una fitness completamente realizzata, di una suprema armonia tra l’anthropos e i suoi bisogni. Wittgenstein è polemico con questa concezione e si chiede, non senza ironia: «viviamo perché è pratico vivere? Pensiamo perché è pratico pensare?» (Wittgenstein 1978, V, § 14) E poi: «è adeguato ai nostri bisogni che noi contiamo come contiamo» (Item 163, p. 30r), cioè in base dieci e non in base sessanta (come, per esempio, facevano i babilonesi)? Il fatto che si calcoli così, o che, più in generale, si viva così, implica che si faccia così e non altrimenti: è sempre possibile una strada alternativa. In altri termini,
«l’insistenza di un gesto che indica cosa facciamo "qui e ora" non esorta a contemplare la bellezza di una sovrapposizione perfetta e atemporale tra la vita e la sua forma, tra la natura e la cultura. Punta a far emergere il carattere contingente di quel che potrebbe essere completamente diverso perché non è chiamato a rispondere a criteri di adeguatezza. Questa contingenza, adeguata solo a cose fatte, si chiama "storia" (p. 99)».
In altri termini ancora, questa volta più filosofico-linguistici, le regole che guidano la nostra prassi – in modo eminente quella verbale – non possono essere considerate alla stregua di leggi biologiche o chimiche. Tra regola e applicazione vi è uno scarto tale che niente obbliga a rispondere a un insulto con un pugno e non con una frase sardonica, a un comando con obbedienza e non con sdegnata insubordinazione.
La storia naturale di Mazzeo è, insomma, un concetto con cui combattere una battaglia ideologica contro una precisa narrativa del potere. Uno strumento di difesa nei confronti di chi fa sua un’idea di natura per nulla innocua, che in fin dei conti uccide una croce, ma anche una delizia, tipica della vita umana, la contingenza. Infatti, se ciò che i sapiens fanno è motivato esclusivamente da un criterio di adeguatezza, da una fatale tendenza all’adattamento, allora è inevitabile che le cose vadano così e non altrimenti, angusto lo spazio per mettere in discussione l’organizzazione della vita caratteristica del mondo contemporaneo. Per chi condivide una simile battaglia, varrà la pena di dare uno sguardo alle criptiche riflessioni del filosofo viennese sulla matematica. Chissà che questo Wittgenstein non possa fornire un prezioso antidoto contro la rassegnazione allo status quo.
di Adriano Bertollini
Bibliografia
Mazzeo, M. (2021). Logica e tumulti. Wittgenstein filosofo della storia. Macerata: Quodlibet.
Wittgenstein, L. (1988). Osservazioni sopra i fondamenti della matematica. Trad. it. di M. Trinchero, Torino: Einaudi.
Wittgenstein, L. Wittgenstein’s Nachlass, Electronic Bergen Edition, Oxford University Press, Oxford
-
Storia della filosofia del lavoro
Recensioni / Settembre 2022«È ampiamente riconosciuto che per noi, membri delle società moderne, il lavoro conta molto […] Sapere per quali ragioni, è una domanda a cui rispondere è molto meno agevole». H-C., Schmidt Am Busch
Histoire philosophique du travail (Vrin, 2022), curato da Frank Fischbach, Anne Merker, Pierre-Marie Morel ed Emmanuel Renault, è uno dei risultati del progetto di ricerca «Approches philosophiques de la centralité du travail» diretto da Fischbach e Renault tra il 2014 e il 2017. A loro due si deve l’interessante introduzione, a cui seguono sedici saggi (per i titoli e gli autori, rinvio all’indice) organizzati in due sezioni, la prima dedicata alla filosofia antica, la seconda, più ampia, dedicata alla filosofia moderna. Completa il volume, una bibliografia che amplia i riferimenti proposti dai singoli saggi e che si rivolge quasi esclusivamente alla filosofia contemporanea, in particolare ai più recenti sviluppi della Teoria critica francese, di cui, d’altronde, Fischbach e Renault sono esponenti.
Histoire philosophique du travail non ambisce a proporsi come una «storia della filosofia» sul tema del lavoro. I curatori non hanno ricercato né la sistematicità né la completezza che avrebbe richiesto una simile opera: rimandano ai sette volumi curati da Antimo Negri (Negri 1980-1981) e al progetto in fieri di Jean-Philippe Deranty. I saggi, infatti, sono stati scelti tra gli interventi di tre diverse giornate di studio, tenutesi, tra il 2015 e il 2017, nell’ambito di suddetto progetto di ricerca, e presentano, pertanto, una certa aleatorietà. Così, sebbene i curatori stessi riconoscano che mancano, ad esempio, la filosofia medioevale e quella contemporanea (cfr. p. 11), nondimeno va notato che la selezione dei saggi riduce la filosofia antica a quella greca da cui, però, è escluso Platone (che pure era oggetto di più di una conferenza). Al contempo, occorre segnalare la pubblicazione dell’antologia curata dagli stessi Fischbach e Renault (Fischbach, Renault 2022) con cui integrano Histoire philosophique du travail della parte mancante sulla filosofia contemporanea (nell'indice, ad esempio, si trovano Simone De Beauvoir, Adina Schwartz e Elizabeth Anderson).
Alle mancanze contenutistiche, si può forse aggiungere una mancanza di tipo pratico, quella di un indice analitico. Componendo una mappa del nutrito elenco di termini che gravitano attorno al lavoro e che ricorrono nell’arco del volume, un indice analitico avrebbe certamente agevolato il lettore a muoversi trasversalmente tra i saggi e sarebbe stato coerente con un interesse teorico che i curatori sottolineano nell’Introduzione (cfr. pp. 12-13), cioè seguire le inflessioni di significato che, nel corso della storia della filosofia, i concetti che si riferiscono al lavoro hanno assunto. Inoltre, tanto più in un volume come questo, che presenta una notevole varietà tra gli autori trattati, ciò avrebbe reso possibile reperire i diversi fili rossi che s’intessono nelle riflessioni filosofiche sul lavoro. Piacere, macchina, corpo, dignità, ma anche democrazia, salute, tempo, solo per ipotizzare alcune delle possibili voci.
Tuttavia, non si può additare come lacunosa questa Histoire philosophique du travail, poiché si tratta di un progetto pionieristico e poiché presenta, comunque, una certa organicità. Sin dall’Introduzione, intitolata Historicité et centralité du travail, Fischbach e Renault fissano ed esplicitano il fulcro del volume, che è la centralità del lavoro. A quest’ultima è legato il chiaro obiettivo teorico a cui essi mirano, cioè favorire una rivalutazione delle «risorse» che la storia della filosofia mette a disposizione «per pensare l’importanza delle diverse poste in gioco del lavoro» (p. 9). L’intento è invitare a «rivisitare la storia della filosofia occidentale dal punto di vista del lavoro e così elevare il tema del lavoro alla dignità filosofica che merita e che raramente gli è stata riconosciuta dalla storia della filosofia» (p. 10).
Questo è il tono che i curatori danno al volume e a cui tutti i contributi s’accordano. Gli autori e le autrici si propongono di rileggere tale filosofo o filosofa o una certa tradizione, per dimostrare il valore euristico di tematizzare il lavoro all’interno della loro produzione. Pertanto, per una valida recensione dei singoli saggi, servirebbe l’intervento di altrettanti specialisti. Ad esempio, Morel (Démocrite et le travail technique. Comment produire en régime atomiste?)sceglie di interrogare «la coerenza globale della filosofia di Democrito» non sulla pista più battuta dell’etica bensì «per quanto riguarda l’attitudine umana a modificare la natura attraverso il lavoro» (p. 88), mentre Frédéric Porcher (Nietzsche, penseur du travail?) intende mostrare che in Nietzsche è possibile individuare una nozione positiva di lavoro su cui egli sviluppa la sua critica, alla quale, invece, si fermano normalmente i suoi interpreti.
È possibile, quindi, definire una prima portata dell’espressione «centralità del lavoro». Bisogna intenderla come il tentativo di contrastare l’idea che il lavoro sia un tema poco rilevante nella storia della filosofia o che ha acquisito interesse solo recentemente, con la modernità. Fischbach e Renault vogliono, invece, «rendere manifesta la presenza costante del tema del lavoro, rendere percettibili un più ampio numero delle sue implicazioni, e far apparire la ricchezza dei concetti e delle problematiche attraverso le quali esso è stato pensato» (p. 11). In altri termini, si tratta di affermare la centralità del lavoro per smuovere la filosofia dalla sua posizione affine alla «lunga tradizione di svalorizzazione delle attività lavorative» (p. 9).
È un obiettivo piuttosto urgente per Fischbach e Renault. Infatti, la filosofia, dopo aver assecondato il primo discorso sulla fine del lavoro (cfr. Rifkin 1995), potrebbe assecondare anche il nuovo discorso sulla fine del lavoro che si sta diffondendo e che si basa sull’intelligenza artificiale e il machine learning. Riprendendo le analisi di A. A. Casilli (cfr. Casilli 2020), i curatori sottolineano che anche questo nuovo discorso è solo un nuovo capitolo dell’«occultamento del lavoro, della sua cancellazione nei fatti e della sua svalorizzazione nelle norme […], e dell’estensione e della diffusione del regno della produzione di merci» (p. 7). È evidente, quindi, che la «centralità del lavoro» ha una portata che tracima i limiti della storia della filosofia.
Con la «centralità del lavoro» Fischbach e Renault, infatti, non intendono soltanto opporsi alla perifericità o alla trascurabilità del lavoro quale tema filosofico, bensì vogliono affermare una tesi a pieno titolo. L’espressione indica più propriamente l’opzione teorica su cui la Teoria critica di stampo francese si sta spendendo negli ultimi anni (cfr. Dejours et al. 2018), cioè affermare «il potere strutturante, tanto socialmente quanto psicologicamente, tanto individualmente quanto collettivamente» (p. 16) del lavoro. Contro certe critiche del capitalismo che considerano che il lavoro sia diventato centrale solo con l’avvento della modernità (cfr. Postone 1993), inoltre, ritengono che la svolta che quest’ultima rappresenta consiste nel fatto che il lavoro ha assunto una centralità ulteriore, quella sociale: «La centralità del lavoro diventa così essa stessa sociale nelle società moderne, nel senso che il lavoro vi diventa socialmente strutturante, di modo tale che questa nuova centralità sociale riconfigura completamente e di riflesso le modalità secondo cui il lavoro è e resta strutturante anche sui diversi piani economico, psicologico e politico» (p. 19).
L’articolo di Renault su John Dewey (Dewey, l’anti-Arendt) è quasi un prolungamento dell’Introduzione. Infatti, ricostruendo l’argomentazione del tutto originale del pragmatista americano a proposito della centralità del lavoro, Renault offre una lucida esposizione dell’articolazioni delle «dimensioni» di tale problema. La prima è quella epistemologica, ovvero l’estensione da assegnare al concetto di lavoro. La questione è decisiva perché, come spiega Renault, una «concezione ristretta» esclude la possibilità di riconoscere la centralità del lavoro, laddove una «concezione allargata» la ammette (cfr. p. 369). Tra l’altro, questo spiega perché in Histoire philosophique du travail, a dispetto del fatto che il primo tipo di definizioni siano quelle più diffuse nella storia della filosofia - le rappresenta, ovviamente, Arendt, qui discussa da K. Genel (Hannah Arendt, une critique du travail: comment sortir de «la triste alternative de l’esclavage productif et de la liberté improductive»?) -, sia il secondo tipo di definizioni a prevalere: oltre a quella di Dewey (cfr. pp. 359 e sg.), si veda, per esempio, quella di Weil, esaminata da M. Labbé (Le travail chez Simone Weil: réalité, subjectivité, liberté, cfr. pp. 309-312).
Posta in via preliminare tale questione, la centralità del lavoro si decide propriamente sotto tre riguardi, cioè decretando la sua posizione dal punto di vista antropologico, dal punto di vista psicologico e dal punto di vista della teoria sociale. A tal riguardo, secondo Renault, l’originalità di Dewey consiste nel fatto che la sua argomentazione investe tutti e tre gli ambiti congiuntamente, laddove altri autori e autrici sostengono la centralità del lavoro sotto uno solo di questi aspetti. Infine, vi è la questione della «diagnosi storica» della centralità del lavoro che riguarda il ruolo del lavoro nelle varie società, in particolare in quella contemporanea.
Negli articoli che compongono Histoire philosophique du travail, se ne può quindi individuare una serie che, mentre contribuiscono ad affermare l’interesse filosofico del tema del lavoro, alimentano la prospettiva «forte» della centralità del lavoro e la esplorano secondo le diverse prospettive degli autori che vengono discussi. A proposito della centralità del lavoro dal punto di vista antropologico, ad esempio, sono di grande interesse le pagine del ricco esame che Merker dedica alla concezione aristotelica di schiavitù (L’esclave-Organon d’Aristote: entre machine-outil et homme augmenté). L’inattesa conseguenza delle riflessioni di Aristotele sullo schiavo e il lavoro, infatti, è la sanzione dell’«inclusione indelebile della problematica del lavoro nella condizione umana» (p. 154). H.C. Schmidt Am Busch, invece, esaminando i Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel (La valeur du travail: sur l’actualité de la théorie hégélienne de la société moderne) si propone indagare «il valore non monetario del lavoro» (p. 213) tanto per l’individuo quanto per la società.
Tra gli autori che compongono suddetta serie, ha un peso specifico Marx, in quanto è uno degli autori di riferimento per chi sostiene le «obiezioni storicistiche» alla centralità del lavoro (cfr. Deranty 2013). Dapprima, J. Quétier (Marx et le travail) ricostruisce la posizione di Marx a proposito della centralità del lavoro: essa è cruciale tanto per la sua antropologia quanto per la sua analisi del capitalismo e le sue prospettive emancipative. Per riprendere le parole di Quétier, la centralità del lavoro è per Marx «problematica: da una parte perché occultata, dall’altra perché incompleta» (p. 233). Quindi, Fischbach (Le salariat Le salariat doit-il quelque chose à l’esclavage? Capitalisme, esclavage et salariat selon Marx) si concentra su questo secondo aspetto, cioè sulle ragioni per cui, secondo Marx, la centralità del lavoro non può essere realizzata nel capitalismo. Quest’ultimo, infatti, non solo conserva la schiavitù ma ha «una tendenza permanente» (p. 345) a reinventarla e congiungerla con il salariato e con nuove forme indirette di subordinazione del lavoro.
In definitiva, grazie al consistente novero dei filosofi e delle filosofe che sono prese in esame, Histoire philosophique du travail persegue l’obiettivo di rendere meno «fantasmatica» l’esistenza del tema del lavoro nella storia della filosofia (cfr. p. 10). D’altro lato, Histoire philosophique du travail segnala l’interesse e l’urgenza di ampliare e sviluppare, se si accetta la metafora, il cantiere del «potere strutturante» del lavoro ovvero della sua centralità.
di Armando Arata
Bibliografia
Casilli, A. A. (2020). Schiavi del clic. Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo?, Feltrinelli, Milano.
Dejours, C., Deranty, J-Ph., Renault, E., Smith, N. H. (2018). The Return of Work in Critical Theory. Self, Society, Politics, Columbia University Press, New York.
Deranty, J-Ph. (2013). Cartographie critique des objections historicistes à la centralité du travail, in «Travailler. Revue internationale de Psychopathologie et Psychodynamique du Travail», 30, pp. 17-47.
Fischbach, F., Renault, E. (2022). Philosophie du travail. Activité, technicité, normativité, Libraire Philosophique J. Vrin, Paris.
Rifkin, J. (1995). La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l'avvento del post-mercato, Baldini & Castoldi, Milano.
Negri, A. (1980-1981). Filosofia del lavoro. Storia antologica (7 volumi), Marzorati Editore, Milano.
Postone, M. (1993). Time, Labor and Social Domination: A Reinterpretation of Marx's Critical Theory, Cambridge University Press, New York and Cambridge.
-
Pensare senza concetti: l’epopea guerriera
Recensioni / Febbraio 2022Uscito nel 2006 per i tipi di Champion, e ripubblicato nel 2021 dalla stessa casa editrice, il saggio di Florence Goyet Penser sans concepts: fonction de l’épopée guerrière. “Iliade”, “Chanson de Roland”, “Hôgen” et “Heiji monogatari” vede nell’epopea guerriera un genere letterario strettamente legato a una crisi della società. In questo senso, la rappresentazione di eventi collocati in un tempo arcaico, o immaginario, altro non è che uno mezzo attraverso cui l’epopea permette di riflettere su un disordine attuale. Così facendo, essa si configurerebbe come un vero e proprio dispositivo riflessivo – una «Machine à penser» secondo la definizione dell’autrice – capace di fornire al pubblico gli strumenti per comprendere e metabolizzare intellettualmente quella crisi di cui la guerra si fa, appunto, espressione metaforica. Ecco perché l’epopea non rappresenta solo la risposta a un mondo in via di cambiamento ma anche, e soprattutto, un tentativo di sublimare la mancanza di adeguate categorie intellettuali – siano esse appartenenti al terreno degli studi storici, delle scienze giuridiche o della riflessione filosofica – che possano consentire di comprenderlo. Una simile tesi, nitidamente espressa già nell’introduzione, è argomentata attraverso l’analisi approfondita delle tre opere presenti nel titolo, a ognuna delle quali è dedicata una parte ben distinta all’interno del testo.
Fin dalle pagine introduttive, volte a fornire non solo una breve disamina delle questioni che il saggio intende affrontare ma anche a illustrare i principali referenti metodologici utilizzati, Goyet si sofferma su quelli che, a suo avviso, costituiscono i due elementi fondamentali ai fini di un corretto approccio ermeneutico all’epopea: la relazione con la Storia e la fiducia nel testo. Sottolineando lo stretto – e articolato – rapporto che l’epopea intrattiene con la dimensione storico-politica a essa contemporanea, il volume entra volontariamente in rotta di collisione con la celebre tesi espressa da Lukàcs nella Teoria del romanzo (1920), dove, a partire da alcune considerazioni di Hegel, l’epopea è interpretata come il genere non-problematico per eccellenza. Secondo l’analisi lukacsiana – com’è noto –, l’epopea si fonda infatti sull’integrazione armonica del singolo all’interno del proprio contesto di riferimento, e ciò in opposizione al romanzo moderno, al contrario luogo dello scarto tra le aspirazioni dell’individuo e il mondo. Goyet riconduce invece l’epopea a un genere statutariamente fondato sulla rappresentazione di un conflitto, interpretandola come riflesso – e insieme risposta – di una crisi politica «où les valeurs qui avaient cours depuis toujours sont battues en brèche, où les solutions politiques classiques deviennent totalement inapplicables».
La rilevanza che la storia riveste nell’elaborazione dell’epopea giustifica certo l’abbondante ricorso che il saggio fa a riflessioni di carattere storico; del resto, Goyet non fa mistero di considerare l’importanza del contesto un elemento fondamentale per una corretta comprensione del genere. Tuttavia, l’interpretazione proposta non si limita a presupporre un rapporto di rispecchiamento tra testo e referenti extra-testuali ma ambisce a sviluppare, prima di tutto, un’analisi di tipo strettamente letterario. Al di là delle diverse questioni filologiche che, del tutto legittimamente, possono guidare l’approccio a queste opere, l’autrice valorizza prima di ogni altro aspetto la coerenza interna del testo, individuando nei suoi principali dispositivi retorici – personaggi, relazione tra le scene etc.– un sistema di senso del tutto autosufficiente. La comprensione della crisi riflessa dall’epopea è, in altre parole, resa possibile dai dispositivi stessi del récit, incaricato di restituire il disordine del mondo e, insieme, di proporre le soluzioni per risolverlo. Da questo punto di vista, un tratto tipico del genere come la moltiplicazione dei personaggi risponderebbe a una necessità di tipo strettamente politico, ovvero quella di rappresentare le varie alternative storiche perseguibili in risposta alla crisi che le epopee analizzate pongono al centro della rappresentazione.
Data l’assenza di altri strumenti concettuali, l’epopea risolve così una crisi politica contemporanea, altrimenti non risolvibile, mettendo a confronto soluzioni antagoniste che si incarnano concretamente nei personaggi. In questo modo, il conflitto tra valori diversi perde ogni consistenza astratta e si inscrive dinamicamente in un racconto, passaggio che permette al lettore una reale metabolizzazione intellettuale del discorso. È proprio il sistema di relazioni che si instaura tra i vari personaggi a occupare un ampio spazio all’interno dell’analisi proposta dal saggio. In particolare, la complessità del disordine tematizzata è restituita attraverso la tecnica del parallelismo, dispositivo che – tanto nell’Iliade quanto ne La Chanson de Roland – è a sua volta configurabile in due varianti, il parallelo-differenza e il parallelo-omologia. Più complesso il quadro che, secondo l’autrice, caratterizza invece le epopee giapponesi Hogen e Heiji monogatari, dove a fare da padrone è soprattutto lo strumento della juxtaposition.
In virtù di queste considerazioni, puntualmente sondate attraverso l’analisi dettagliata dei singoli testi presi in esame, il saggio indica nell’epopea non solo un dispositivo di riflessione sul presente ma anche un luogo testuale dove vengono elaborate soluzioni profondamente nuove. Per l’lliade, cui è dedicata la prima parte del volume, si tratta di affermare i valori della Cité in risposta al declino del sistema patriarcale: «on voit s'élaborer une nouvelle conception de la royauté, celle-là même qui s'affirmera dans les premières Cités, et qui est bien loin de celle qu'avaient connu Mycènes puis l'Âge Sombre d'où le monde grec est en train de sortir».Nella seconda parte, la Chanson de Roland è dal canto suo letta come «la réponse des contemporains au renouveau de la royauté au XIIe siècle». Per Hôgen e Heji monogatari, al centro della terza parte, è in gioco l’affermazione di una feudalità nuova, opposta a quattro secoli caratterizzati dal predominio della corte. L’analisi ravvicinata delle singole opere permette di notare come la soluzione politica elaborata dall’epopea sia, in fin dei conti, quella poi rivelatasi storicamente vincente. Tuttavia, ciò non equivale a vedere nei testi una pura espressione del contesto storico-culturale: lo dimostra, tra l’altro, l’elogio di personaggi che incarnano una posizione perdente – è il caso di Roland – o, viceversa, la morte di un personaggio che incarna i valori politici risultati poi trionfanti – è il caso di Ettore.
Una tale mobilità assiologica permette a Goyet di insistere sulla differenza tra racconto e riflessione, nella misura in cuil’epopea trae la sua forza cognitiva non dalla sua capacità di veicolare concetti astratti ma dal suo configurarsi come narrazione. In questo senso, l’epopea conserva certo un’immagine forte del passato ma contemporaneamente ambisce a costruire valori nuovi; o, per dirla altrimenti, proporre nuovi valori non impedisce di render testimonianza a un passato storicamente in procinto di essere sorpassato dalla Storia. Del resto, Goyet sottolinea come la struttura stessa dell’epopea sia fondata su due movimenti complementari e in parte contraddittori, messi in risalto nei singoli capitoli e poi riassunti nelle conclusioni. Innanzitutto, una tensione all’ordine perseguita attraverso tecniche diverse – su tutte la polarizzazione dei valori grazie al confronto tra due campi chiaramente antagonisti. Se questo sembra ricondurre l’epopea a quel genere aproblematico teorizzato da Lukàcs, il saggio sottolinea come il movimento di semplificazione rappresenti in realtà solo una prima componente presto oltrepassata in virtù di un ritorno alla tematizzazione della crisi.
Le caratteristiche fondamentali dell’epopea qui riassunte permettono ai singoli testi analizzati di trattare una materia storico-politica ben determinata ma rielaborandola in modo complesso e articolato. In questo senso, Goyet conclude la sua riflessione elevando la polifonia a condizione necessaria perché il genere sussista: «Il faut que l’épopée soit capable de développer chacune des positions comme si elle était absolument valide, […] pour que le choix qui s’impose entre les valeurs ne soit entaché d’aucun parti pris ni préjugé». Il riferimento alla polifonia rischia forse di schiacciare eccessivamente l’argomentazione dell’autrice verso la teoria di Bachtin, del resto evocata esplicitamente nelle conclusioni del volume. Se l’argomentazione proposta potrebbe facilmente sussistere anche prescindendo dalle celebri posizioni bachtiniane, resta fondamentale il riferimento all’epopea come testo non partigiano, ovvero come testo in cui la logica stessa della narrazione si presta a invalidare qualsiasi partito assunto aprioristicamente. Per la sua capacità di vedere nell’epopea un modello retorico articolato, il saggio lascia così spazio a nuove prospettive di ricerca, come, ad esempio, quella evocata dall’autrice stessa a proposito dell’Eneide.
di Iacopo Leoni
-
Alfredo Ferrarin – Galilei e la matematica della natura
Recensioni / Dicembre 2016“La scienza nasce polemica”: è questo ciò che si potrebbe dire alla luce della lettura del Galilei e la matematica della natura. Lo si potrebbe dire, senza timore di sbagliar troppo, perché il Galilei di Ferrarin è un uomo filosoficamente polemico, che prende continuamente posizione contro qualcuno o contro qualcosa. In primo luogo, ben lo si sa, Galilei si pone contro la tradizione. Non vi è alcuno spazio, nelle pagine di questo libro denso e breve, per un’impostazione anche solo latamente continuista; men che meno ve ne è per quelle tesi che desiderino tratteggiare un’immagine di Galilei come uomo essenzialmente premoderno, col fine malcelato di ridimensionare la portata della “rottura” all’origine della storia della scienza moderna. In una cornice di fondo che mi pare debba molto alla storiografia koyreana, Ferrarin dipinge il lavoro di Galilei proprio come punto di frattura – di coupure – tra due epoche. Una discontinuità che ridefinisce i rapporti tra il campo dell’esperienza e quello della teoria, che chiude definitivamente con certi schemi epistemologici e produce una nuova configurazione possibile dell’impresa della conoscenza. Per quanto infatti – anche sulla scorta di lavori di studiosi autorevoli come Stillman Drake – in molti abbiano manifestato la necessità di rivedere e complicare la tesi circa il platonismo di Galilei (avanzata tra gli altri proprio da Koyré), non è in ogni caso corretto, secondo Ferrarin, proporre l’immagine di un Galilei critico degli aristotelici e dell’aristotelismo di maniera ma, in fondo, genuino seguace di Aristotele, ben più fedele al Filosofo di quanto non lo fossero i peripatetici “ufficiali” delle Università. Galilei è certamente in polemica innanzitutto con tutti i Simplicio del proprio tempo ma, nota Ferrarin, lo stesso «Aristotele non viene risparmiato in niente; ed è ai suoi testi che si rivolge polemicamente per iniziare un nuovo sapere» (p. 22). La polemica di Galilei, dunque, è quella contro un modello di sapere antico quanto la filosofia; polemica contro un ideale di conoscenza piuttosto che contro un sistema; polemica contro un certo concetto dell’episteme, contro il suo statuto, contro la sua struttura. Se l’ipotesi di un Galilei platonico – ma anche pitagorico o archimedeo – deve essere rettificata e corretta, quantomeno specificando come il platonismo debba essere inteso, è nel nuovo ruolo del modello matematico nell’economia della conoscenza che deve essere ricercata la specificità della scienza galileiana e, per estensione, dell’intera impresa scientifica moderna. «Ogni filosofia», ci rammenta Ferrarin, «esprime un tratto essenziale del proprio tempo, e ogni filosofia si afferma come critica delle forme di pensiero precedenti» (p. 14). Viene allora in mente quell’immagine del pensiero come lotta e combattimento, avanzata da Deleuze e Guattari in Che cos’è la filosofia?, oppure, in maniera forse più pertinente a questo contesto, l’idea di Bachelard in La formazione dello spirito scientifico della storia della scienza come superamento di ostacoli epistemologici e come sforzo dello scienziato di superare l’immediatezza del senso comune. La scienza e la filosofia, insomma, condividono questo atteggiamento per cui ogni posizione realmente innovativa rappresenta una nuova costruzione che implica come proprio necessario antefatto un gesto distruttivo o decostruttivo. Questo è ciò che ci deve interessare del rapporto di Galilei con la tradizione e, in particolare con Aristotele: se è vero che il fondatore della fisica moderna si rivolge al testo aristotelico in maniera polemica, con il fine, criticandolo, di costruire una nuova configurazione epistemica per la conoscenza della natura, allora l’indagine sui punti di discontinuità e sugli obiettivi della critica ci potrà illuminare sulla natura e sui contorni di quella configurazione che ancora oggi chiamiamo «scienza moderna».
Ora, la consapevole novità introdotta da Galilei è l’inedito ruolo epistemologico assegnato alla modellizzazione matematica. Questo è il punto decisivo del gesto fondativo galileiano, il carattere fondamentale della frattura segnata dalla scienza moderna. La modellizzazione avviene, nella rivoluzione scientifica, non solo e non tanto attraverso il potenziamento della matematica pura in sé, ma mediante un inedito ruolo assunto dalle cosiddette «matematiche applicate» e, in particolare, dalla meccanica. Certo, ricorda Ferrarin, è «necessario ribadire, con Koyré, che la rivoluzione non è fatta né da tecnici né per tecnici. La figura dell’ingegnere – per esprimermi anacronisticamente: intendo l’artigiano, il fabbro, l’artista, l’architetto – non è né sufficiente né davvero adatta ad identificare il protagonista della rivoluzione scientifica» (p. 28). Nondimeno la scienza, per quanto non perda il carattere universale tipico della concezione classica del sapere, diviene un fare, una prassi (si pensi a Cartesio) e il mondo stesso ora appare come un artefatto, un’opera (Copernico, Keplero). In questa “prima” scienza moderna, lo sappiamo, tutto è macchina e dio è l’ingegnere o l’orologiaio supremo: «Come un architetto, Dio pensa un archetipo che poi pone in opera» (p. 30). Un tecnico, dunque, ma anche un architetto e, in un certo senso, un artista, almeno nella misura in cui l’opera che produce coinvolge certo la facoltà dell’immaginazione. Ma questa immaginazione produttiva non attinge alle risorse dell’irrazionale e dell’inconscio, ma è vincolata, al contrario, dalle regole pure della matematica. E infatti questa immaginazione è la stessa che entra in gioco nell’impresa della conoscenza scientifica della natura nella misura in cui, con Galilei, l’escogitare un esperimento materiale e l’invenzione di nuove macchine rappresentano momenti fondamentali della costruzione teorica. Ecco perché si assottiglia la differenza tra la conoscenza umana e quella divina: esse si distinguono ora per grado, ma vedono all’opera le medesime facoltà e gli stessi modelli epistemici.
Oltre al nuovo ruolo assegnato alla modellizzazione matematica, l’altro grande elemento di scarto con la concezione aristotelica, riguarda il ruolo della percezione. La teoria della verità aristotelica, infatti, implica una certa passività originaria e un certo positivismo di fondo: in Aristotele vi è un senso di «verità come ‘lasciar che le cose ci parlino e si manifestino secondo la loro propria natura’. Il mondo si presenta a noi; e ci si offre unitario e ordinato» (p. 23). È questa concezione del mondo e della verità che comporta che la fisica sia, innanzitutto, lo studio di ciò che si dà nella nostra percezione e dei principi del sensibile (p. 35). Fisica allora, lo sappiamo, come studio delle cose e del loro movimento. Ma il movimento di cui si interessa la physis di Aristotele non è lo stesso di cui parla la fisica galileiana: è un movimento determinato dalla natura delle sostanze, che si differenzia in base ai luoghi cui le sostanze stesse appartengono. Il movimento della fisica, invece, è considerato in purezza, così come lo spazio in cui si manifesta: «Per Galilei, come per la fisica moderna dopo di lui, si prescinde dalle sostanze (dalla natura del mobile) per concentrarsi esclusivamente sulla descrizione del movimento nelle sue coordinate spazio-temporali, velocità e direzione» (p. 40). La scienza moderna si costruisce attraverso la sostituzione di tutto un apparato concettuale: «in una materia omogenea mossa da cause esterne, come al principio interno del movimento si sostituisce la causa esterna, così all’anima (principio di nature soltanto particolari) si sostituisce la forza» (pp. 40-41). Questo, secondo Ferrarin, comporta una nuova visione dell’oggetto, non più inteso come sostanza, ma come prodotto/effetto di cause esterne date come sue precondizioni. Il sorgere del fenomeno (e della sua genesi) rappresenta il tramonto dell’essenza. E lo sguardo “interno”, essenzialistico, è sostituito dallo sguardo esterno – formale – della geometria.
Proprio di sguardo, allora, è necessario parlare se vogliamo rendere conto, al di là delle interpretazioni ormai “classiche”, della novità della matematizzazione galileiana nella conoscenza del mondo sensibile. «Non è possibile comprendere l’importanza di Galilei», infatti, «senza considerare come nelle sue scoperte la razionalità matematica si intrecci con un nuovo modo di vedere» (p. 46). Con il cannocchiale, e con l’uso galileiano del cannocchiale, la tecnica entra nel mondo della percezione o, in altre parole, la percezione diviene consapevolmente oggetto dell’intervento tecnico matematicamente istituito. Quello del cannocchiale, ci dice Ferrarin, è un atto di produzione di fenomeni: per questa ragione l’uso del cannocchiale suscita sospetto, inquietudine, persino rabbia nei contemporanei di Galilei. In un senso ingenuo, il cannocchiale riduce (o elimina) una distanza ma, in un altro senso, introduce invece «una distanza ora essenziale, la relazione esterna ed astratta tra fenomeni e osservazione: se l’indagine dei fenomeni è omogenea e indifferente, i fenomeni tutti vanno ugualmente oggettivati, cioè tenuti fermi, a distanza» (p. 57). Gli oggetti, in altre parole, vanno analizzati, smembrati, in proprietà matematizzabili. Questo comporta l’apertura della questione del platonismo galileiano: sebbene, come nota Ferrarin, sia «indubbio che risulterebbe difficile seguire la traiettoria della rivoluzione in astronomia senza una sorta di intima certezza platonica nella razionalità matematica del cosmo» (pp. 60-61), allo stesso tempo occorre capire con precisione quale Platone sia effettivamente in gioco nell’idea di una lingua pura e matematica della cui scrittura il mondo sarebbe intessuto. Rispondere alla domanda «a quale Platone si riferisce Galilei?» implica allora una risposta anche alla domanda «quale ruolo ha la matematica in Platone?». Nei dialoghi platonici, infatti, il reale rimanda alla dimensione ideale, è vero, ma come nota Ferrarin si tratta di due mondi separati e «occorre ricordare che contro la separazione platonica degli enti matematici dal sensibile Aristotele aveva sollevato obiezioni decisive» (p. 63). Il Platone galileiano, dunque, non è il Platone storico; per Galilei esiste una fondamentale omogeneità della geometria, sulla cui base è riposta l’omogeneità del mondo fisico: non si tratta allora di fare scienza nonostante i fenomeni, ma di fare la scienza dei fenomeni, che ritrovano così nuova dignità come effettivo oggetto dell’impresa conoscitiva. Non si tratta di postulare una partecipazione o metessi del reale nei confronti dell’ideale, ma di riconoscere l’effettiva costituzione ideale della realtà.
Ciò che è importante comprendere, per evitare frettolosi fraintendimenti dell’opera galileiana, è però il significato più profondo dell’idea che il mondo sia scritto in lingua matematica. Quest’affermazione non implica infatti che chiunque possieda pienamente la chiave di lettura del testo eidetico del mondo, anzi; ogni lingua, infatti, presuppone un apprendimento, un esercizio nella lettura e nella comprensione. Lo sguardo della geometria richiede un addestramento al “vedere” matematico: l’esperienza ingenua e l’immediatamente percepito sono esclusi dall’orizzonte della conoscenza, per essere sostituiti da un contenuto sensibile che è già, in sé, un’astrazione. L’ideale è già nel sensibile, ma è necessario imparare a coglierlo: «la scrittura geometrica rende possibile un’esattezza nella misurazione del sensibile che nessuna osservazione dei corpi attorno a noi potrà mai offrire» (p. 69). I sensi sono, platonicamente, inaffidabili ma non nel senso che dobbiamo abbandonare il contenuto sensibile in favore di logoi astratti e puri nella loro idealità: «è dell’esperienza che vogliamo dar conto. È che da soli i sensi non possono decidere casi in un tribunale» (p. 71). La sensibilità non è più recuperata, come in Aristotele, attraverso un atteggiamento passivo, che vorrebbe il mondo come “naturalmente” auto-offerentesi ai nostri sensi, ma attraverso un atteggiamento attivo, «di chi alla natura si accosta con domande precise e mezzi sufficienti per piegarla a risponderci» (p. 74). L’esperienza non è un punto di partenza assoluto, ma un costrutto, un dato risultato, che si innesta nella nostra dimostrazione per corroborarne le conclusioni. «Non si parte dal particolare – o meglio, non si può non considerarlo all’inizio, ma come uno scalino da buttare dopo che ci ha aperto una visione, perché il particolare nel frattempo è divenuto il caso di un concetto» (pp. 75-76). L’esperienza è momento fondamentale della scienza nella misura in cui, nell’idealità che essa contiene, ci permette un accesso all’universalità del concettuale: «come si vede, l’esperienza in senso galileiano – le “sensate esperienze” – è antiempirista» (p. 76).
Come sappiamo questo gesto epistemologico fondamentale di Galilei ha prodotto una serie di complesse conseguenze, che con Husserl potremmo esprimere come la sostituzione del mondo matematico-matematizzato al mondo della vita. Ferrarin riconosce che la storia di questo processo di progressiva sostituzione può essere narrata in modi diversi (tra questi Ferrarin tocca velocemente quelli di Cassirer, Mondolfo, Weyl, Jonas, Hegel, Husserl) e secondo le opposte prospettive dell’entusiasmo o dell’inquietudine per un mondo ormai poco qualitativo e poco umano. Al di là di queste prospettive di fondo resta però una domanda centrale: sostenere che il sensibile sia comprensibile nella sua dimensione quantitativa a prescindere da qualsiasi riferimento al suo senso (qualitativo, teleologico o soggettivo) non significa in fondo sottovalutare o addirittura sopprimere il problema del rapporto tra ciò che è oggettivo e ciò che è soggettivo nella conoscenza? Galilei non si limita a sdoppiare il sensibile per far emergere l’oggettività per differenza rispetto all’apparire, ma giunge a cancellare la traccia di questa differenza. Questo è il problema, secondo l’Autore, che si riproduce, con forza inedita, in Cartesio.
La novità dell’impresa cartesiana è data dalla riducibilità delle figure a simboli algebrici: l’essenza di un ente matematico non è più una figura, come in Euclide o in Galilei, ma una formula. In questo senso il concetto, per Cartesio, non deriva dall'intellezione o dall’astrazione del sensibile nell’ideale, ma dalla definizione. In questo senso la matematica non si occupa di imporre ordine e misura a un oggetto già dato in anticipo: «il nuovo metodo è ciò che si dà un oggetto nella forma di ordine e misura» (p. 90). Come si vede, tanto per Galilei quanto per Cartesio, sebbene in un senso diverso, l’apparenza del sensibile diviene un prodotto dell’attività del soggetto conoscente. E in questa attività, in entrambi i casi, assume un nuovo ruolo fondamentale l’immaginazione, in quanto facoltà in grado di presentarci un’esperienza vicaria dell’esperienza sensibile, che costituisce il punto di accesso all’idealità matematica.
È dunque l’immaginazione, tema che Ferrarin ha già esplorato in alcuni precedenti lavori, a divenire il punto di indagine di una ricerca che, da Galilei, si è ora allargata all’intera fondazione della scienza moderna. In Galilei, infatti, l’immaginazione permette un passo metodologico di importanza difficilmente sopravvalutabile, in quanto permette l’accesso a «un’esperienza possibile, che non soffre delle stesse limitazioni e approssimazioni dell’esperienza reale» (p. 93). Quasi come la variazione eidetica di Husserl, l’immaginazione galileiana «varia le circostanze date dall’osservazione fino a stabilire un nucleo invariate non più modificabile, che si imporrà come la vera e unicamente stringente necessità del fenomeno» (p. 93). L’immaginazione ha così un effetto propositivo (nella misura in cui amplia la nostra conoscenza possibile) e critica (perché può fornire elementi utili alla confutazione di un’esperienza limitata). Per contro, in Cartesio l’emergere dell’immaginazione scientifica si salda con la fine della coincidenza dell’ordine dell’intelletto con l’ordine della realtà. Il matematico moderno opera con una libertà inedita su simboli e segni ignorandone metodologicamente il significato: l’immagine non duplica la cosa stessa, ma vi rimanda come cifra o segno. E proprio per questo l’immaginazione assume un nuovo significato: «l’idea ora viene foggiata, sicché diventa importante concentrarsi sulla sua formazione e sulla sua relazione con un potere di sintesi e combinazione, l’immaginazione» (p. 103). Ma proprio in queste due concezioni dell’immaginazione emerge la differenza di fondo tra Galilei e Cartesio nella concezione dell’importanza della matematica rispetto all’esperienza: «In Cartesio la matematica fornisce un modello deduttivo rigoroso; in Galilei, la matematica è usata sì per definire lo statuto del sapere, ma nell’applicazione allo studio dei fenomeni» (p. 111). E proprio in questa differenza emerge il diverso modo dei due di recuperare l’eredità platonica e socratica. Per Galilei dubbio e ignoranza sono parte della scienza e questo ben si comprende nella distinzione tra conoscenza intensiva e conoscenza estensiva. In Cartesio, invece, non si dà possibilità di paragone tra la conoscenza umana e quella divina, che rimane totalmente altra rispetto a quella dello scienziato. Eppure, proprio questo assunto permette di eliminare qualsiasi dubbio sulla conoscibilità del reale, le cui leggi costitutive sono opera di un atto libero del Divino. Per Galilei ciò che importa della creazione è che il creatore abbia fatto ciò che è secondo una lingua a noi intelligibile, per Cartesio invece «la materia non è abbastanza ospitale per forme esatte» (p. 116), destinate a risiedere, invece, nella totale trascendenza della mente. Questo, ci dice Ferrarin, è «il diverso platonismo di Cartesio» (p. 116).
Lo sforzo di questo libro denso e breve è tanto teorico quanto storiografico. Ferrarin tenta la difficile impresa di voler, da un lato, evitare lo stereotipo storiografico, che accomuna lo Husserl de La crisi delle scienze europee con studi decisamente più recenti, di un “Galilei” utilizzato come etichetta o nome collettivo, utile a riassumere e semplificare una fase storica complessa e differenziata. D’altro canto, sempre sul piano storiografico, ciò che da queste pagine emerge è il tentativo di tratteggiare un Galilei figura eminente nel panorama della rivoluzione scientifica che, con Cartesio, opera una trasformazione radicale e netta, il cominciamento di un nuovo modello di sapere. Si tratta di provare a esprimere il significato trascendentale del gesto galileiano senza perdere di vista la concretezza della sua storicità effettiva, della sua testualità materiale. Questo è un problema che già Koyré e, più in generale, l’epistemologia storica hanno dovuto affrontare nel secolo scorso: quello del rapporto tra il livello di un’analisi trascendentale e quello della ricerca storiograficamente fondata. Hélène Metzger, importante storica della chimica e delle scienze della natura del secolo scorso, parlando del lavoro dello storico delle scienze, ebbe a dire che se questi «in premessa delle proprie ricerche, si lasciasse andare a discutere, com’è suo forte desiderio, le diverse opinioni che hanno corso sulla natura del sapere e dell’intelligenza umana, egli rischierebbe davvero di non poter mai cominciare il proprio lavoro»; ma subito si apprestava ad aggiungere: «oso credere che questo sarebbe un danno, e che il filosofo stesso se ne rammaricherebbe» (H. Metzger, La méthode philosophique en histoire des sciences. Textes 1914-1939, Fayard, Paris 1987, p. 42). D’altronde il lavoro dello storico delle scienze, se ben condotto, porta necessariamente alla posizione di questioni filosofiche ed epistemologiche di primo livello. È questo ciò che in effetti accade nel Galilei di Ferrarin, che da studio sulla figura dello scienziato pisano si muta sin dalle prime pagine in indagine genuinamente filosofica sul senso dell’esperienza, della teoria e dell’immaginazione nella conoscenza scientifica. Il rigoroso confronto con i testi e la profonda consapevolezza storiografica dell’autore non costituiscono qui un limite alla riflessione teorica e filosofica. Il volume, nella sua brevità, offre così un’ampia serie di spunti di ricerca tanto per lo studioso dell’età moderna quanto per il filosofo della scienza e l’epistemologo contemporanei. Si tratta infatti, a partire da Galilei e, in seconda battuta, da Cartesio, di porre le questioni del rapporto tra l’esperienza e la teoria, del rapporto tra il tratto eidetico e quello empirico nella conoscenza. Un compito arduo, che certo non può risolversi nell’indagine storica, ma che da questa può sicuramente prendere le mosse.
di Gabriele Vissio
-
È con il titolo Mal fare, dir vero, lo stesso delle conferenze che lo hanno generato, che viene edito in Italia il volume contenente il corso tenuto nel 1981 da Michel Foucault all’Università Cattolica di Lovanio. Oltre al testo delle lezioni del corso – tenutesi dal 2 aprile al 20 maggio di quell’anno – il volume ospita anche due interviste a Foucault (la prima a firma di A. Berten, la seconda condotta da J. François e J. De Wit) e una lunga e interessante Situazione del corso a opera dei curatori dell’edizione francese, F. Brion e B. E. Harcourt. Il testo del corso vero e proprio è stato ricostruito grazie a tre diversi tipi di fonte: 1) cassette U-Matic contenenti la registrazione audio-visiva di gran parte del corso (esclusa la conferenza inaugurale); 2) un manoscritto foucaultiano originale della conferenza e della prima lezione; 3) un dattiloscritto, stabilito da audiocassette mai ritrovate, depositato all’Institut Mémoires de l’édition contemporaine (Imec) contenente la trascrizione delle prime cinque lezioni e della conferenza. Il volume è inoltre corredato di un ricco apparato critico, particolarmente utile allo studioso e al ricercatore.
Le lezioni vere e proprie seguono l’ordine cronologico: 1/ una conferenza inaugurale (2 aprile); 2/ due lezioni (22 e 28 aprile) sulla confessione nell’età antica (mondo omerico – Iliade – e tragico – Edipo re); 3/ due lezioni (29 aprile e 6 maggio) sulla confessione nel cristianesimo dei primi secoli e nel monachesimo cristiano; 4/ due lezioni finali (13 e 20 maggio) sulla modernità, concluse con una breccia finale nel sistema penale contemporaneo.
Questa edizione va ad aggiungere un nuovo tassello al mosaico dei corsi foucaultiani, e lo fa collocandosi proprio in un punto delicatissimo della pensée Foucault. Il problema della confessione, infatti, emerge all’incrocio di alcune coppie problematiche che caratterizzano il percorso foucaultiano e, proprio in virtù di questa collocazione privilegiata, si presenta come punto di osservazione particolarmente interessante dell’intero orizzonte di lavoro di Foucault.
Innanzitutto la coppia follia/prigione. Dopo la storia della follia e dopo le ricerche sulla storia dell’incarcerazione punitiva, la produzione foucaultiana sembra imboccare una terza via, una pista di ricerca interessata al problema della sessualità. È proprio nel delineare i contorni di una storia della sessualità che Foucault incappa nel problema della confessione, che rappresenta la chiave d’accesso a un’operazione di livello superiore: il progetto di una storia della verità. Su di un piano metodologico più generale il corso del 1981 ha una posizione particolare anche rispetto alla coppia sapere/potere, rapporto che appare specificarsi soprattutto a partire dall’introduzione della nozione di aleturgia: pratica che, se da un lato fa apparire «ciò che è vero», dall’altro compie tale apparizione a sua volta all’interno di una pratica, quella della giustizia. In tal modo la storia della verità si concretizza, come da programma, come storia delle pratiche del far-vero.
Mal fare, dir vero entra perciò di diritto in quella fase di definitivo chiarimento della dialettica che intercorre tra archeologia/genealogia come rapporto tra analisi delle forme e analisi della formazione delle forme stesse. Il corso in questione infatti, pur mantenendo il proprio valore in quanto studio tematico, risulta particolarmente interessante dal punto di vista metodologico: da un lato la ricostruzione precisa del procedere in fieri di Foucault, ormai pienamente maturo, mette a disposizione dello studioso foucaultiano un nuovo terreno di analisi; d’altro lato in questo corso forse più che in altri Foucault dedica spazio – per esempio nella conferenza inaugurale, ma non solo – a riflessioni di carattere metodologico generale. All’interno di queste riflessioni un posto privilegiato sembra essere occupato dal rapporto storia/filosofia, come se Foucault volesse in qualche modo rispondere alla domanda che tutti gli rivolgevano: «è questa impresa un lavoro di storia o di filosofia?». Ecco che Foucault, quasi sottovoce, in un corso quasi dimenticato, traccia la linea di una risposta: il suo lavoro è un lavoro storico-filosofico, anche se in un’accezione del tutto nuova; non è una storia della filosofia, né una filosofia della storia, bensì qualcosa come una pratica storico-filosofica.
Il volume non rappresenta un punto di approdo definitivo nell’elaborazione delle problematiche che si delineano intorno a questi diversi assi di articolazione anzi, come spesso si rivela esser vero per i corsi di Foucault, esso contribuisce ad aprire il ventaglio dei problemi e ad ampliare il terreno di gioco. Il corso foucaultiano assume davvero la struttura dell’«anello di Möbius» che gli riconoscono i curatori dell’edizione francese nel saggio introduttivo (p. VIII). Su di un unico lato o, meglio, su di un unico bordo collassano il problema politico e quello filosofico: da un lato la questione di come l’individuo accetti di legarsi al potere che si esercita su di esso e dall’altro la questione circa il modo in cui i soggetti si leghino alle forme di veridizione in cui sono implicati. Il pensiero di Foucault sembra subire una curvatura che, attraverso la pratica della confessione, fa svoltare l’interesse foucaultiano dalla politica all’etica.
Alcuni interpreti hanno voluto vedere in questo movimento una cesura; in realtà il corso, lungi dal confermare l’ipotesi di una frattura, evidenzia definitivamente il punto di saldatura del decorso filosofico foucaultiano: la confessione, infatti, rappresenta uno di quei ethoi che costituiscono il contorno del soggetto morale e attraverso i quali si esercita il governo della vita e della condotta dei corpi. La pratica della confessione e la sua analisi contribuiscono, secondo i curatori, a smentire l’idea di una cesura tra etica e politica, evidenziando invece come il passaggio assuma l’aspetto di una torsione quasi necessaria al discorso di Foucault, come se essa si prefigurasse – inattesa – sin dalla Storia della follia. È infatti in questo punto di curvatura che, secondo i curatori, il soggetto si inserisce tra potere e sapere «come un cuneo: se il governo passa attraverso la formazione degli ethoi nei quali gli individui si costituiscono come soggetti della loro condotta, allora il distacco da sé – rendersi in permanenza capaci di distaccarsi da se stessi – è la condizione di possibilità etica delle forme di resistenza politica a cui la sua filosofia invita».
di Gabriele Vissio