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Nel 1739 l’inventore francese Jacques de Vaucanson progettò il suo automa più famoso, Le Canard Digérateur. Della celebre “anatra digeritrice”, che in realtà non digeriva affatto i chicchi di grano con cui veniva nutrita, è rimasta traccia materiale soltanto negli schizzi preparatori del suo costruttore e nelle riproduzioni di alcuni artisti contemporanei. Tuttavia, il modello meccanico di de Vaucanson rappresenta un ottimo esempio della rappresentazione (e della riproduzione) del fare animale che il nuovo libro di Roberto Marchesini, Etologia filosofica. Alla ricerca della soggettività animale (Mimesis, 2016), intende accantonare in modo definitivo. Freddo, automatizzato, determinato e in fin dei conti semplice nel suo funzionamento, Le Canard Digérateur è la realizzazione meccanica e antropica della res extensa cartesiana, principale bersaglio dell’analisi di Marchesini. Addentrandosi in territori inesplorati dal panorama filosofico contemporaneo, l’autore inaugura una nuova strada seguendo due coordinate principali: la critica del modello meccanicista e l’individuazione del principio meta-predicativo nell’animalità.
L’analisi prende piede, ancora una volta, dalla rivoluzione darwiniana di metà Ottocento. La straordinaria svolta imposta dalle conclusioni del naturalista inglese, già contenenti tutti gli elementi necessari a un approccio non meccanicistico al comportamento animale, venne arginata nei decenni successivi da una vera e propria controriforma sia culturale sia scientifica. Il mentalismo novecentesco compì l’errore di non comprendere appieno la teoria darwiniana, mascherando vecchie concezioni con nomi nuovi. L’animale fu relegato nell’Umwelt, incatenato nel suo mondo e obbligato a svolgere automaticamente le proprie funzioni, delle quali è schiavo più che libero padrone. L’uomo, al contrario, venne svincolato dagli alberi filogenetici del vivente perché soggetto e dunque diverso dalla fauna restante, pletora di forme di vita impossibilitate ad assurgere a tale rango.
Il rifiuto dell’animalità dell’uomo, la prigionia dell’animale nella sua monade e l’automatismo funzionale dell’agire animale sono i tre pilastri di matrice antropocentrica che resistono alle scoperte scientifiche nel campo della biologia e vengono ereditate di generazione in generazione sino ai tempi moderni. Il confine tra umano e non umano viene rimarcato, stabilendo ruoli e incasellamenti che perdurano tutt’oggi e che devono essere scardinati a forza dal pensiero popolare così come dai dibattiti cultural-scientifici.
Nel suo saggio, Marchesini rimarca l’importanza di discostarsi dal classico approccio con cui l’essere umano ha avvicinato, studiato, interagito e osservato gli animali non umani. L’antropomorfismo proiettivo genera due principali conseguenze negative: primo, alimenta la presunzione di poter descrivere un altro essere vivente, dotato di proprie filogenesi e ontogenesi, a partire dal modello umano; secondo, legittima la categorizzazione oppositiva che già sussume, rendendola di fatto ineliminabile. Inoltre, rigettare l’unicità filogenetica di ciascuna specie allontana, in modo solo all’apparenza paradossale, dall’orizzontalità del bios che la teoria darwiniana prima e le scoperte nel campo della genetica raggiunte nel corso del Novecento poi hanno messo in luce. Eppure, nonostante già Darwin avesse sottolineato che l’animalità è una condizione che riguarda anche l’Homo sapiens, una lunga serie di filosofie e movimenti culturali hanno rafforzato e blindato la fortezza-uomo, cercando in ogni modo di isolarla da tutte le altre entità animali. Per raggiungere questo obiettivo non c’è modo migliore che quello di reificare e de-soggettivare l’animale, identificandolo a partire da quei predicati epimeteici che lo inchiodano, rendendolo schiavo delle sue funzioni. Durante il “secolo breve” l’animalità dell’uomo è stata dunque rigettata (spesso facendo perno sulla dicotomia natura/cultura, laddove la seconda è la marcia in più, la dotazione umana per eccellenza), rifiutando qualsiasi accostamento all’altro animale (la sinfisia di Acampora, il comune sentire interspecifico, arriverà soltanto alle soglie del nuovo millennio) e, infine, imponendo l’automa, il costrutto meccanico, come modello per la descrizione del comportamento e della biologia animali.
La critica del meccanicismo utilizzato per spiegare il fare animale insito tanto nella filosofia quanto nell’etologia parte dal superamento del riduzionismo e della macchina come modello. Le domande da porsi in principio potrebbero essere le seguenti: l’animalità può essere matematizzabile? Il fare animale può essere ridotto a un mero esercizio delle funzioni, trasformando il comportamento in un’azione semplice e binaria come lo è azionare un interruttore? Non si deve, ovviamente, cadere nella risposta più ovvia, vale a dire l’esaltazione e la descrizione della complessità come antidoto a ogni tentativo di meccanizzazione. Non è nelle stupefacenti immagini di un documentario della BBC o nell’ultimo, affascinante e istruttivo articolo pubblicato da Nature che dobbiamo cercare l’essenza dell’animalità. Occorre invece comprendere che la formalizzazione cartesiana non può donare al fare animale quella soggettività in cui Marchesini identifica il vero e proprio meta-predicato che funge da fil rouge attraverso il dominio animale dove è di casa anche l’uomo. La titolarità espressiva è il raggiungimento finale: non sono le dotazioni a muovere l’individuo, non esiste alcun homunculus e non è ovviamente contemplato un piano trascendente; «l’esistenza è pertanto una titolarità che va oltre la coscienza» (Marchesini, 2016, p. 45). Superare la res extensa cartesiana è il punto di partenza necessario per poter mettere da parte ogni tentativo di meccanizzazione dell’animale, ridotto, come è stato fatto in passato, a mera macchina a incastro, interruttore pronto ad agire, totalmente privo di soggettività.
Ammettendo la soggettività come condizione meta-predicativa dell’animale, è possibile passare da un modello a innesco (il già citato interruttore) a un modello virtuale. Per giungere alla virtualità funzionale, è dunque necessario considerare la singolarità della presenza animale, una singolarità che è sia storica (filogenesi), sia di sviluppo (ontogenesi). Ogni individuo è unico, non è cristallizzato nel qui-e-ora ma fa parte del flusso diacronico-evolutivo. L’animale non è operativo al pari di una macchina, al contrario è aperto e instabile. Da questo punto di vista, il comportamento non può essere letto come un automatismo: ogni individuo animale è un soggetto che si muove lungo le coordinate del desiderio e della volontà, proprietà queste che lo svincolano da qualsiasi tentativo di modellizzazione macchinica in quanto non c’è alcun compito da portare a termine secondo una procedura, sia essa determinata o algoritmica, tipica dell’automa. In Etologia filosofica il concetto di soggettività viene espresso come «visione diacronico-relazionale dell’esistenza» (Marchesini, 2016, p. 86) e porta a un paio di paradossi: primo, la titolarità sulle funzioni è svincolata dalla responsabilità sulle stesse; secondo, l’animale esercita le sue eredità filogenetiche, pur non essendone da esse esclusivamente determinato. L’animale è quindi un flusso, un divenire, un essere sempre diverso da se stesso. L’ontogenesi è un dialogo aperto col mondo, che diventa il piano su cui l’animale si muove in modo aperto, libero e flessibile, assolutamente non determinato. Abbandonando il principio disgiuntivo e oppositivo che da sempre accompagna la relazione fra l’uomo e gli altri animali, Marchesini illustra la dimensione ontologica dell’animale, fondata sulla soggettività, la singolarità e la titolarità sulle funzioni: non conta ciò che un animale è in grado di fare, ma che cosa fa di lui un animale.
Al termine della sua ricerca, Marchesini trova la metafora perfetta per chiarire l’idea su cui si fonda Etologia filosofica. Se l’intero saggio si configura come una ricerca, un tentativo di inaugurare una nuova strada che porti al riconoscimento della soggettività animale, quale figura potrebbe funzionare meglio che quella di una mappa? La cartina, capace com’è di mostrare una struttura e al contempo di richiedere l’ideazione di un itinerario, può agire da “schema funzionale” meglio di altri modelli. Dotato di un impianto di base – eredità del suo percorso filogenetico e del suo sviluppo ontogenetico – e grazie alla titolarità sulle proprie funzioni, l’animale può agire in modo plurale, creativo, intenzionale e soprattutto flessibile: può imboccare questa o quella strada, allungare il percorso, compiere deviazioni o addirittura mancare l’obiettivo di proposito. Appare dunque chiaro, grazie alla metafora, come questo agire sia distante anni luce dal percorso, rigoroso e iterativo, delineato da un diagramma di flusso, o dalle scelte, limitate e obbligate, che costituiscono un algoritmo informatico.
di Danilo Zagaria
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Martha C. Nussbaum – Persona oggetto
Recensioni / Marzo 2015Può l’oggettualizzazione essere considerata una parte meravigliosa e inestirpabile della vita sessuale? È questa la spiazzante domanda che Martha Nussbaum si pone in un articolo risalente al 1995, ora disponibile in edizione italiana presso le Edizioni Centro Studi Erickson, dal titolo Persona oggetto. In quell’occasione la filosofa americana si inseriva in un dibattito che trovava quali interlocutrici privilegiate due voci autorevoli e irriverenti del femminismo radicale d’oltreoceano come Andrea Dworking e Catharine MacKinnon. L’oggetto del contendere – mi si perdoni il gioco di parole – consisteva nella ridefinizione di un concetto fondamentale della teoria femminista, per la quale appunto l’oggettualizzazione rappresentava il problema centrale nella vita delle donne – ma anche eventualmente per gli uomini, data la generalità della questione – e contro il quale andava concentrato tutto l’impegno politico. Il testo che qui proponiamo alla lettura tenta di fare chiarezza sul senso del termine oggettualizzazione, non tanto proponendone una definizione chiara ma piuttosto dimostrando la sua ambiguità sia logica che morale attraverso l’esempio fornito da sei estratti di altrettanti romanzi, nei quali sono narrati una serie di comportamenti che oggettualizzano il o la partner sessuale in modi difficilmente giudicabili in maniera univoca. Partendo da Lawrence e Joyce per giungere a Hollinghurst e Henry James, senza dimenticare Playboy e Laurence St. Clair, Nussbaum mostra come la definizione più elementare di tale comportamento, «trattare come un oggetto ciò che in realtà non è un oggetto, ciò che è, di fatto, un essere umano», non renda la complessità di una simile pratica.
Complessità che affiora invece in maniera evidente dalle molteplici e stratificate connessioni logiche che intercorrono tra le sette nozioni fondamentali (Strumentalità, Negazione dell’autonomia, Inerzia/Passività, Fungibilità, Violabilità, Proprietà, Negazione della soggettività) riconosciute quali modalità determinanti nel trattare una persona come una cosa. Spesso infatti, ammonisce l’autrice, usiamo tale termine come un contenitore approssimativo applicando il quale giudichiamo solo uno di questi tratti, benché più frequentemente siano presenti una pluralità di elementi nel suo verificarsi. Dunque per capire che cosa accade e quando si tratta di oggettualizzazione bisogna chiedersi se ciascuna di queste voci sia una condizione sufficiente perché si possa definire un comportamento oggettualizzante. L’analisi che ne segue mette in luce una grande varietà nelle modalità attraverso le quali ci relazioniamo agli oggetti – tra loro molto differenti come una penna a sfera e un quadro di Monet – ma nello specifico mostra che gli elementi che caratterizzano maggiormente il nostro modo di trattare un oggetto sono la considerazione di non autonomia e di strumentalità in quanto moralmente più esigenti. In particolare la non strumentalità risulta determinante nel veder garantita l’umanità altrui kantianamente intesa come fine in sé. Del resto trattiamo i nostri figli piccoli come soggetti non autonomi ma sarebbe riprovevole considerarli come meri strumenti per i nostri scopi. Il rapporto tra autonomia e strumentalità è invece messo in evidenza dalla condizione dei lavoratori e da quella degli schiavi.
Questi ultimi due esempi mostrano inoltre che riducendo a mero strumento un altro essere umano, sembra manifestarsi un’automatica tendenza nel produrre altre forme di oggettualizzazione non implicate logicamente dalla prima a causa di un blocco dell’immaginazione. Come se fosse più difficile rendersi conto dell’umanità altrui. Nonostante ciò anche la strumentalità – ci avverte Nussbaum – non risulta negativa in tutti i contesti ma solo quando l’altro viene trattato principalmente o esclusivamente come strumento. Non parleremo infatti di strumentalizzazione in senso negativo qualora usassi la pancia della mia amante come cuscino, a patto di avere il suo consenso naturalmente, ma anche in questa situazione si tratterebbe ugualmente di strumentalizzazione. Ciò che ne emerge è che per determinare un trattamento di oggettualizzazione nei confronti di qualcuno entrano in gioco valutazioni complesse che non si devono limitare all’individuazione di una sola delle nozioni indicate, ma piuttosto distinguere quali di queste si manifestano e in quale relazione si dispongono, con la consapevolezza che prese di per sé singolarmente e fuori contesto non possiedono un carattere intrinsecamente negativo o positivo.
È a questo punto che Nussbaum mostra il suo legame con la teoria kantiana del desiderio sessuale e del matrimonio. La filosofa americana concorda in parte con Kant rispetto all’idea che il desiderio sessuale sia una forza molto potente che contribuisce alla strumentalizzazione delle persone come se fossero cose, mezzi per la soddisfazione dei propri desideri. Nell’atto sessuale – secondo il filosofo tedesco – entrambi i soggetti smettono di considerare l’altro come autonomo e come dotato di soggettività poiché non si domandano più che cosa l’altra persona sente o pensa, protese come sono ad assicurarsi la propria soddisfazione. Al tempo stesso però il forte interesse reciproco di entrambe le parti per la soddisfazione sessuale le spingerà a permettere a se stesse di farsi trattare come cose, farsi cioè deumanizzare per deumanizzare a loro volta l’altro/a. Tale dinamica non presenta connotazioni di genere o asimmetrie gerarchiche di matrice sociale ma è intrinseca all’atto sessuale stesso. La reciprocità diviene dunque elemento rilevatore della natura intrinsecamente ambigua della relazione sessuale, nella quale strumentalizzazione, inerzia, passività etc., possono avere un ruolo positivo a seconda del contesto. «Il contesto è tutto» se affrontiamo un'analisi di questo genere poiché operiamo su di un terreno in cui la psicologia dei particolari individui coinvolti risulta determinante, così come la natura del loro rapporto e le sue dinamiche interne in relazione alle consuetudini culturali nel quale è immerso. Spesso intimi scambi di battute, atteggiamenti e comportamenti tra amanti, se avulsi dalla situazione in cui si verificano o vengono pronunciati, possono essere fraintesi poiché ciò che viene perduto dalla generalizzazione è proprio quella densità significante data dall’interrelazione tra essa e gli elementi che compongono, stratificandolo, il concetto di oggettualizzazione.
A questo livello opera la critica di Nussbaum nei confronti delle posizioni assunte da Dworking e MacKinnon che, se pur fedeli alla visione kantiana dell’incompatibilità tra rispetto e negazione dell’autonomia, della soggettività e strumentalizzazione, non sono disposte a credere che tali negazioni siano intrinseche alla natura stessa del desiderio sessuale, ma fanno pendere l’ago della bilancia interamente verso la socializzazione dell’erotismo in un contesto ricco di gerarchia e dominazione. Ciò impedisce loro di distinguere i differenti aspetti che costituiscono l’oggettualizzazione e che fanno emergere la complessità del desiderio e della sessualità. Questa semplificazione del campo di indagine si riflette soprattutto a livello politico poiché la soluzione addotta per questo stato di cose consisterà in un progressivo disfacimento di tutte le strutture istituzionali che inducono gli uomini a erotizzare il potere. Se pur in parte d’accordo sulla necessità di una profonda riforma sociale e istituzionale, Nussbaum pare meno incline a considerare le istituzioni soltanto in senso negativo; il punto non sembra tanto essere una questione di disfacimento, quanto piuttosto di modifica e riformulazione attraverso la conoscenza di come gli elementi che costituiscono la pratica dell’oggettualizzazione si connettono, interagiscono ed emergono dal contesto.
L’uso della letteratura assume proprio questo scopo, fungendo all’autrice da laboratorio sperimentale nel quale mettere alla prova la sua proposta e la critica alle sue interlocutrici, analisi questa che lasciamo percorrere al lettore.
di Alberto Giustiniano
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Riccardo Massa è stato un pedagogista capace di interrogare i problemi educativi con la radicalità propria di uno sguardo filosofico. Il suo libro Cambiare la scuola. Educare o istruire? (Laterza, Roma-Bari 1997) è la testimonianza esemplare di un'attitudine di ricerca in grado di tenere insieme la consapevolezza empirica e vissuta dei sommovimenti di un ambiente – quello scolastico – con la profondità e il rigore concettuale. Non a caso, a quasi vent'anni di distanza dalla sua pubblicazione, quest'opera risulta allo stesso tempo persistentemente attuale e marcatamente inattuale. L'attualità è dovuta all'ampiezza della riflessione di Massa, che esamina i problemi e decostruisce le diverse posizioni del dibattito sulla scuola sviscerandone le implicazioni fondanti, spingendo l'interrogazione fino a mettere in discussione le ovvietà inavvertite, i pregiudizi che occludono l'accesso al terreno di discussione più fertile e vitale. Proprio questa attitudine genuinamente filosofica rende il gesto di Massa altrettanto inattuale, apparentemente poco in grado di interagire con la concretezza dei problemi e con il livello dei temi dibattuti dalla politica e dai media. Eppure il testo, composto da una serie di brevi e dense riflessioni prive di note, si presenta come un “esercizio di pensiero” necessario per intraprendere una trasformazione concreta e rigenerante della scuola.
L'esperienza della crisi dell'istituzione scolastica è talmente radicale da rendere necessaria l'apertura di uno spazio di pensiero che vada oltre i discorsi politici e istituzionali, fermi alla superficie del problema. Per intraprendere questo esercizio critico e ricostruttivo occorre sgomberare il campo da una falsa dicotomia, che ha contribuito a impigrire e fossilizzare il dibattito: quella tra educazione e istruzione. Il gioco che vuole contrapporre istruzione e educazione favorisce una a discapito dell'altra: è possibile evidenziare la capacità propria dell'educazione di prendere in considerazione i bisogni dei soggetti che vivono la scuola, la dimensione affettiva e relazionale, a fronte dell'aridità e del nozionismo dell'istruzione; oppure rivendicare la portata emancipatrice dell'istruzione in quanto trasmissione laica di competenze e abilità, di contro al dogmatismo, al moralismo e ai rischi di mistificazione ideologica propri dell'educazione. Tuttavia questa contrapposizione appare in gran parte infondata: l'istruzione, quando si presenta come un mito di emancipazione, ha già in sé un orientamento valoriale, e quindi educativo. D'altro canto la densità concettuale di cui l'educazione è portatrice viene perduta nel concepirla come il tentativo di trasmettere valori, a cui si oppone l'istruzione come pratica che insegna conoscenze e competenze.
Massa riconduce l'etimologia di “educare” a educare, che significa nutrire, allevare. Questa derivazione può essere incrociata con la più nota da educere, che vuol dire “tirare fuori”, connotando così l'educazione come un prendersi cura che conduce via, porta oltre. L'avere cura, l'allevare, comporta uno strappare dal luogo protetto dell'allevamento per condurre all'aperto, nella radura. Educere può così essere accostato a seducere, nel senso dello sviare, del portare fuori strada. La ricchezza semantica insita nell'educazione lascia intravedere la possibilità di un'accezione del termine scevra da dogmatismi, indica il gesto di chi, per permettere la costruzione della soggettività, lascia fare esperienza del vuoto.
I tentativi di pensare e cambiare la scuola risultano inadeguati finché si cristallizzano su posizioni
unilaterali e semplicistiche: il cognitivismo assoluto cieco nei confronti della dimensione affettiva, erotica e desiderante dei soggetti che abitano la scuola; il didattismo docimologico che riduce l'insegnamento a una pratica misurabile sul piano dei profitti e dei risultati; il contenutismo che vede il problema in ciò che viene insegnato; lo scolasticismo che propone la scolarizzazione della vita, e l'opposta illusione della descolarizzazione, che crede di poter liberare l'umanità dal giogo oppressivo dell'istituzione scolastica senza immaginare alternative praticabili, e così via. Occorre piuttosto partire dai sintomi di sofferenza e frustrazione che accompagnano l'esperienza scolastica e cercare di risalire allo strato rimosso che essi indicano. Per comprendere le patologie della scuola non basta soffermarsi su uno degli aspetti che la caratterizzano, bisogna tentare di focalizzare la scuola come un dispositivo strutturale, un campo esperienziale.Massa propone una vera e propria fenomenologia della scuola intesa come una porzione non del tutto problematizzata di mondo-della-vita. Ci sono dimensione residuali di essa che non vengono poste al centro dell'attenzione e che invece dovrebbero essere il punto di partenza di analisi e proposte riformatrici volte al cuore del problema. Una dimensione residuale è il tessuto microsociale in cui si struttura l'esperienza scolastica, a cui si collega la dimensione affettiva e relazionale. Inoltre, la materialità propria della vita scolastica nella sua quotidianità, fatta di routine e processi di socializzazione per lo più non tematizzati. C'è poi la dimensione etnografica: la subcultura interna alla scuola come a priori concreto di qualunque apprendimento possibile.
Cogliere queste dimensioni consente di mettere a fuoco dei nuclei irrisolti del dibattito sulla scuola: come ridefinire il mandato istituzionale della scuola, i suoi rapporti con il lavoro e con l'apprendistato sociale? Come ripensare il ruolo formativo della scuola di fronte alla crisi della famiglia? Qual è il suo ruolo di rielaborazione e mediazione del sapere in un contesto in cui le fonti che producono conoscenza sono molteplici, diffuse e per lo più esterne alle istituzioni universitarie? Quale codice comunicativo essa deve veicolare? Quale setting pedagogico è funzionale per la riuscita dell'esperienza formativa, e quindi quale struttura organizzativa? Si tratta di un livello problematico che per lo più soggiace a quello comunemente affrontato nel dibattito pubblico sulla crisi e necessità di riforma del sistema scolastico. Eppure, solo affrontando le implicazioni più profonde che strutturano la scuola è possibile proporre un cambiamento all'altezza delle sfide che emergono dall'esperienza educativa in tutte le sue sfumature.
Qualsiasi tecnologia didattica che pretende di istruire efficacemente e programmare il comportamento degli insegnanti risulta monca e velleitaria se pensata al di fuori del contesto materiale e organizzativo che struttura la vita scolastica, se è cieca di fronte alle componenti affettive e relazionali dell'esperienza educativa. La sfida è riuscire a strutturare un campo autonomo della scuola rispetto al resto della vita sociale, che la renda uno spazio protetto di transizione e mediazione, ma che allo stesso tempo consenta, all'interno di quello spazio, di lasciar fare esperienza diretta della realtà e della vita. La scuola non deve ignorare né fare esperienza diretta dei codici simbolici della verità, del potere, dell'amore e del denaro; deve assumerli e rielaborarli attraverso una curvatura pedagogica. Un setting pedagogico in grado di aprire esperienze educative, di apertura del mondo, non può più essere legato a un dispositivo disciplinare ormai inceppato, legato al voto: deve passare da un principio di prestazione a uno di espressione, azione e creazione; deve riappropriarsi della specificità della forma di vita scolastica come spazio capace di accendere il desiderio, di costruire soggetti, di educare anime e istruire menti. É la realtà delle cose – la trasformazione dei codici e dei linguaggi, la mutazione delle forme di esperienza – che richiede un oltrepassamento della forma-scuola così come la conosciamo. La ricerca di Riccardo Massa indica alcuni degli orizzonti di pensiero che è necessario imparare a frequentare per poter intraprendere questo percorso.
di Luca Pagano
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Passeggiate urbane
Serial / Novembre 2014«La passeggiata dello schizofrenico: un modello migliore di quella del nevrotico sul divano. Un po' d'aria aperta, una relazione con l'esterno»
Così scrivevano Deleuze e Guattari nell'Anti-Edipo; questa citazione esprime non solo un'ironica, quanto spiazzante denuncia delle normatività e delle costrizioni dell'analisi freudiana ma anche una valida alternativa alla filosofia da scrittoio.
Da questo spunto nasce la volontà di scrivere una rubrica di Passeggiate urbane che si ricollega a un'eredità antica quanto la filosofia, se con questa intendiamo la tradizione socratica e cinica. Anche se da essa, per questioni probabilmente dettate dal passaggio alla modernità, se ne distacca in quanto alla conversazione preferisce la narrazione e l'indagine emotiva.