Nel film Magnifica presenza (Fandango, Faros Film) del regista turco Ferzan Özpetek, il giovane Pietro (Elio Giordano), vive un’esperienza singolare. Egli si accorge infatti, col tempo, di soggiornare in un appartamento infestato da fantasmi. Le misteriose entità, dapprima sfuggenti e timorose, trovano in Pietro un confidente, una figura amica, un tenero protettore. Lo stesso Pietro, che tra gli spiriti incontra Luca, vede in quest’uomo l’espressione più genuina ed autentica del sentimento amoroso, il candore delle prime volte. Sia Pietro che i membri della ‘compagnia Apollonio’ scoprono così un altro modo di vivere, di abitare il tempo, insieme, un tempo ‘ritrovato’, ben distante dalla mera cronologia, dal riepilogo del record quotidiano. I fantasmi che popolano la casa di Pietro non sono infatti ‘invenzioni’, per dirla con Bioy Casares. Non sono nemmeno il frutto di proiezioni sinistre, di spaventose allucinazioni. Lo svolgimento del film mostra che anche Pietro, come i suoi coinquilini, deve perdersi per poi ritrovarsi, per rivedersi, in senso autentico. Rivedere opinioni, correggere i propri giudizi su cose e persone: anche Pietro è un fantasma. Proprio di questa rettifica, di questa rilettura consta l’essenza più segreta della Ricerca.
Di Proust filosofo e della sua relazione con la fenomenologia merleau-pontyana si è scritto molto, nel corso negli anni passati. All’interno del vasto panorama offerto da questi studi, la recente pubblicazione del testo di Franck Robert va ad occupare una posizione di sicuro rilievo, e questo per più di una ragione. In primissimo luogo a colpire è l’ampiezza e la profondità, fisica e tematica, del volume in questione: composto da tredici capitoli (Proust philosophe; Percevoir, le rapport sensible au monde; De l’art; Modernité de Proust; Littérature et réalité; L’homme et l’œuvre; Art et vie; Le style; Vérité et institution; Approche phénoménologique. Temps et subjectivité; Le temps sensible; Écriture et vérité ed Ouvertures)che si dispongono su oltre quattrocentocinquanta pagine di testo, il lavoro di Robert rappresenta, a mia personale conoscenza, lo studio ad oggi più completo dedicato specificamente al confronto tra l’opera di Proust ed il pensiero di Merleau-Ponty, quest’ultimo da sempre affascinato, per confessione del filosofo stesso, dalla prosa dello scrittore e dalla sua ricchissima eredità concettuale. Un ulteriore e pregevole aspetto formale che mi preme rimarcare, in apertura, è la presenza constante, nell’argomentazione di Robert, di richiami teorici e testuali al corso merleau-pontyano Le problème de la parole, tenutosi al Collège de France tra gli anni 1953 e 1954, recentissimamente edito in lingua francese (Métis Presses, 2020, di questo testo mi permetto di segnalare una mia recensione pubblicata in «Studi di Estetica. Italian Journal of Aesthetics», vol. 19, 2021, pp. 237-242). Questa peculiarità, questa scelta speculativa, rappresenta senza dubbio un elemento meritorio e di originalità del già di per sé ricco lavoro di Robert.
La tesi fondamentale del libro è l’affermazione della centralità del ruolo della scrittura al cuore dell’esperienza sensibile. La scrittura non è slegata dalla pratica percettiva, anzi: ne è elemento costitutivo, compimento essenziale, sublimazione. Grazie alla scrittura l’uomo può ritrovare il senso autentico del tempo e dello spazio: tornando sui suoi passi, ripercorrendo a ritroso il cammino della conoscenza, ritrovandosi. Si tratta di un’opinione sostenuta sia da Proust che da Merleau-Ponty, sebbene sia stata comprovata in campi e discipline affatto diverse. Sia lo scrittore che il filosofo, però, hanno fatto della scrittura una vocazione, un mestiere, un modo di vivere ed interpretare il mondo e la propria epoca. Per entrambi la scrittura si spinge, si inoltra dove la percezione sensibile, la nostra prima e fondamentale porta d’accesso al mondo percepito, non può arrivare. Ma perché quest’insufficienza? Cosa serve a giustificare la sua comparsa della ‘grafia’, il suo richiamo, la sua fantasmagoria? Quale logica comanda la dimenticanza, e quale ancoraggio impone, in senso contrario, il percorso, la rotta del ricordo? Robert tenta di rispondere in questo testo a tali domande.
La scrittura, lungi dall’essere banale, sterile, ripetizione del senso, ne sancisce invece la ‘raccolta’, la ‘fissazione’, l’istituzione che non è, però, da intendersi quale esercizio di una qualsivoglia facoltà intellettuale, superiore, di ‘sorvolo’. La scrittura, dice Robert, «apre su di un’universalità che non presuppone, ma che, viceversa, inaugura» (p. 16). Tale affermazione prescrive la primarietà dell’espressione sull’espresso, della comunicazione sul contenuto della comunicazione stessa, facendo allusione ad un’universalità che non può – più – essere quella del concetto (p. 433). La parola non deve essere compresa come «esercizio del concetto, ma rivolta verso l’intersezione dei mezzi espressivi di una pienezza che essi delimitano [qu’ils jalonnent] ma che non contengono», recita Il problema della parola (p. 420; Merleau-Ponty 2020, 143).
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Per mezzo dell’espediente letterario proustiano, «la verità che si rivela al narratore nelle reminiscenze della sensazione e nella scrittura – dice Robert – non è un accesso ritrovato a un mondo di idee che l'esperienza sensibile avrebbe coperto, poiché le arti che aprono la strada a questa verità, che abbozzano ciò che la letteratura realizzerà in altro modo, attraverso la scrittura, sono proprio le arti meno concettuali, più vicine al sensibile» (ibid.). Non è la filosofia che conduce alla filosofia, dice Robert, il sapere non si nutre di sapere, autenticamente, in modo univoco, ma è la ‘non-filosofia’, l’esperienza concreta, vissuta, ad indicare la via per il suo superamento non concettuale, laterale. L’intera opera di Proust, sostiene Robert facendo parlare le pagine Merleau-Ponty, può essere intesa allora come un tentativo di rovesciamento del platonismo, dell’idealismo cartesiano e delle sue derive teoreticamente più pericolose. Citando nuovamente Il problema della parola, in questo caso, «l’idea non precede l’espressione, ma è l’espressione ad essere responsabile dell’avvento dell’idea» (p. 108; Merleau-Ponty 2020, 160).
L’ambizioso compito della scrittura, e con essa del linguaggio letterario, è quello di restituire «la modalità di apparizione del mondo sensibile» (p. 221). E proprio «restituendo questo mondo vissuto, pre-nozionale, è possibile effettuare il passaggio all’idea: ovvero, è possibile costruire un ‘equivalente spirituale’ dell’esistenza» (Merleau-Ponty 2020, 178-179). Dunque, ‘spirituale’ ed ‘ intellettuale’ non sono termini coincidenti. Soprattutto, scrive Merleau-Ponty, «le essenze vere – e non quelle intellettuali – si trovano esclusivamente attraverso il chiaroscuro del vissuto, che noi provvediamo a costruire attraverso la nostra vita» (ibid.). La ‘modernità’ proustiana, la sua ‘ricerca’e la sua successiva realizzazione, sta, per Merleau-Ponty, nella sua capacità di rompere con la complicità idealistica con la conoscenza di ‘sorvolo’, la quale «sostituirebbe alle cose allo stato nascente l’idea delle cose», approdando alla dimensione più propria di ricerca dell’«idea sensibile» (p. 419). Quest’indagine si alimenta della proliferazione di «significati nascenti» (p. 435), designati dal criterio della «denominazione» (Merleau-Ponty 2020, pp. 153, 181-182; cfr. Merleau-Ponty 1996, pp. 106-108) e del suo eventuale capovolgimento ‘algoritmico’, – del quale il pittore Elstir è daimon proustiano né A l’ombre des jeunes filles en fleurs, così come, a ben vedere, lo è della reversibilità carnale merleau-pontyana – ovvero di quella logica del rinvio che, nella letteratura latu sensu, consentirebbe alla verità di raggiungere quell’universalità dettata da una progressiva ed inesauribile crescita «laterale» (Merleau-Ponty 2013), contributiva ed intersoggettiva.
Di questo consta la sintesi, passiva, delle ‘cose’ che la prosa di Proust sarebbe in grado di raccogliere, di riunire: la sintesi «risiede – allora – nel modo in cui il corpo riceve il mondo, nella capacità di tracciarvi delle linee che costituiscono un senso, degli assi che il soggetto segue, e che accompagna nel suo modo di abitare il mondo» (p. 435). Menzionando indirettamente il lavoro di Jacques Garelli, la ‘ricerca’ si occupa della raccolta del «logos del mondo estetico (…) delle idee prime che sono sensibili perché, all’interno del sensibile stesso, ne tracciano il senso pur senza apparirvi esteriormente» (ibid.).
Già, ma perché – come anticipato – si continua a parlare insistentemente, nelle pagine di Robert, di raccolta, di recupero del senso? Cosa è andato perduto nella delicata transizione tra percezione ed espressione, seguendo questa volta l’itinerario storico e teorico dell’opera merleau-pontyana? Cosa è andato ‘storto’? La replica a queste domande, sebbene ponderata e testualmente fondata, non può che risultare ambigua. A pagina 255, Robert sostiene che « [m]entre nell'opera di Proust la scrittura ha origine nella perdita, è una ricerca di un significato sepolto nell'esperienza del narratore, una raccolta e uno svelamento del passato, una ricerca di un senso della vita perduta, una vita superiore a qualsiasi vita vissuta, nell'opera di Stendhal la scrittura è identica alla vita stessa, un progetto di esistenza sempre già superato da questa stessa esistenza, un eccesso, un'apertura su un futuro che si inventa mentre si realizza, un'avventura». È una prima risposta, di primo acchito soddisfacente: vi sono molti modi di vivere, di interpretare, e quindi di scrivere il mondo circostante.
Ciò che, a mio parere, Merleau-Ponty individua ed apprezza nell’opera proustiana, ed è un aspetto che Robert coglie appieno, è il ruolo positivo della dimenticanza, dell’oblio, della capacità di allontanarsi dal mondo senza perderlo mai dal personale ‘orizzonte ermeneutico’, direbbe Collot, senza perderlo mai del tutto di vista. Per Proust ogni opera, ogni sforzo, mira ad «accogliere e a raccogliere l’esperienza», attraverso una «conquista differita e sospesa del senso dei fenomeni», la quale si attua per mezzo del «ritorno incessante al concreto, al sensibile» (p. 36). Secondo Proust, e a parere di Merleau-Ponty, l’esperienza, l’erranza avventurosa e, segnatamente, l’errore, la maldestrezza, è necessaria al fine di raggiungere la verità (p. 39). Questo punto è cruciale: il narratore non sarebbe tale senza la distanza, senza la contrarietà, senza la trascendenza che lo allontana da persone e cose, come l’istituzione del sentimento amoroso e la gelosia provata per Albertine nel corso su Istituzione e passività attestano con chiarezza. È come dire che sbagliando si impara o che il viaggio conta almeno quanto la destinazione, il che è condivisibile, detto anche in modo triviale.
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Maurice Merleau-Ponty (Wikimedia)