Dal momento in cui la pratica discorsiva del filosofo si è imposta come forma di sapere suprema, in grado di dar conto di se stessa e dei propri metodi, il pensiero metaforico è stato assunto come un procedimento ausiliario al quale ricorrere quando la teoria non funziona nel modo in cui è supposta funzionare – cioè senza buchi e senza sbavature, in grado di cogliere senza residui tutto ciò che c’è e di cui il soggetto fa esperienza. Anche se non sono mai mancati coloro che non ritenevano possibile eliminare del tutto la dimensione del metaforico – coloro per i quali lo spazio discorsivo della filosofia non poteva venir saturato solo facendo ricorso a ciò che coincide con quella forma specifica di cattura del reale che è il concetto – è solo nel corso del Novecento che il discorso filosofico ha superato ogni pregiudizio nei confronti della figuratività, dell’iconico, del narrativo intesi quali parti integranti dell’argomentazione filosofica. Ciò non è accaduto in virtù della volontà di prendere congedo dalla concettualità, bensì in virtù del fatto che quest’ultima, nell’atto del suo porsi, pone anche il proprio altro, di cui il metaforico è attestazione privilegiata. Con ciò, si è resa finalmente obsoleta l’idea secondo cui la metafora servisse al ragionamento filosofico solo quando questo incespica e zoppica, scoprendosi bisognoso di ausili e stampelle. Quattro esempi valgano a illustrare questo scenario filosofico, che costituisce il nucleo teorico del presente call for papers.
Emanuele Tesauro: Il cannocchiale aristotelico, o sia, Idea dell'arguta et ingeniosa elocutione : che serue à tutta l'arte oratoria, lapidaria, et simbolica (1670) - Internet Archive Book Images Flickr [particolare]
Hans Blumenberg non solo ha mostrato che non è possibile scrivere una storia dei concetti senza scrivere anche la storia delle metafore che hanno costellato la discorsività filosofica, ma ha anche offerto un quadro teorico-sistematico generale entro il quale comprendere la necessità del loro intreccio. Generata dal bisogno di tenere a bada la realtà e ciò che in essa resiste a un dominio immediato, la ragione – che co-evolve con Homo sapiens al pari degli altri artefatti di cui questi si serve per plasmare la nicchia ecologica che lo accoglie – produce tanto miti quanto modelli di razionalità e teorie scientifiche, tanto metafore quanto concetti, al fine di rendere più agevole un adattamento che risulta sempre alquanto precario (l’esistenza della specie umana, per Blumenberg, è quanto di più improbabile ci sia nel regno dei viventi). Ne viene fuori non che la metafora compensa ciò che manca al concetto, ma che tutte le misure di prevenzione messe in atto dalla ragione per arginare gli effetti della complessità del reale altro non siano che misure compensatorie.
Jacques Derrida ci ha indicato – una volta per tutte, si potrebbe dire – come la posizione del soggetto che guarda la differenza tra metafore e concetti costituisca la macchia cieca del pensiero: è infatti impossibile dar conto delle operazioni che giustificano tale differenza, essendo questa già da sempre presupposta da ogni pratica filosofica. Il soggetto del sapere filosofico, in altre parole, non si vede mentre opera con – e grazie alla – differenza tra metafore e concetti. Non si può far filosofia se non ipotizzando di sapere cosa differenzi un concetto da una metafora, ma l’articolazione di tale differenza non potrà mai essere maneggiata con i soli strumenti della concettualità. Un residuo metaforico, con tutta la sua impurità, intaccherà sempre la purezza di quella sfera in cui opera la concettualità.
Enzo Melandri, ne La linea e il circolo, ha indicato un percorso sistematico che non solo restituisce piena legittimità alla logica analogica – che non è da vedersi come una logica dimidiata, di secondo ordine – ma ha anche indicato in che senso una teoria dell’analogia aiuti a individuare in modo corretto il posto che il metaforico occupa in seno all’argomentazione filosofica. È vero che gli usi dell’analogia sono pressoché infiniti, ma, come mostra Melandri, le sue funzioni sono ben precise e delimitate: euristica, legata all’inventio, sintetica, quando si passa da un genere a un altro per produrre un sapere unitario e superare pragmaticamente la divisione dei saperi, ed evocativa, quando il valore intensionale o connotativo dell’analogia si autonomizza rispetto al suo valore estensionale e o denotativo. Ora, se si riesce a dimostrare a quali condizioni l’analogia diventi razionalmente possibile tanto come inferenza calcolabile quanto come concettualizzazione dotata di senso – ed era questo lo scopo perseguito da Melandri nel suo monumentale lavoro – allora diviene chiaro che la questione dell’analogia possiede una funzione trascendentale. Si tratta di comprendere non solo in che senso macchie empiriche intacchino sempre la purezza del trascendentale, o in che senso la genesi che conduce all’emergenza del soggetto trascendentale sia sempre una genesi empirica, ma soprattutto di porre a tema la questione della fondazione in termini dialettici, facendo posto al paradosso e alla negatività. Ragionare sull’analogia significa interrogare l’incompletezza del sistema del pensiero, significa cioè indicare come quel negativo che è esteriorità, alterità, rimosso, rientri nel sistema stesso per vie traverse e non dominabili interamente attraverso la concettualità pura.
Nel loro Metafora e vita quotidiana, George Lakoff e Mark Johnson sostengono che la metafora “è diffusa ovunque nel linguaggio quotidiano ma anche nel pensiero e nell’azione”: distinguendo tra tre tipologie di metafora (strutturali, di orientamento e ontologiche), Lakoff e Johnson propongono una teoria complessa la cui tesi fondamentale consiste nell’idea che il linguaggio sia strutturato metaforicamente in quanto il pensiero è strutturato metaforicamente e sottolineano il carattere ambiguo del linguaggio metaforico, che tende a enfatizzare un determinato aspetto concettuale oscurando una serie di altri aspetti non coerenti con la metafora utilizzata. Il meccanismo della metafora fa perno sul nostro essere incarnati, ovvero – ed è un aspetto decisivo – esso è funzione della nostra interazione corporea con il mondo: in questo senso, la metafora riflette la struttura percettiva umana e ritaglia una precisa ed essenziale forma di accesso cognitivo al mondo.
Si sono appena evocati alcuni nomi e autori, ma è chiaro che, evocandoli, lo scopo è quello di circoscrivere possibili aree di pensiero, non di attribuire a questi nomi un ruolo speciale. Grazie a loro, però, si è cercato di isolare il nucleo tematico di questo numero, che consiste nell’isolare, grazie alla messa a tema del ruolo della metafora, quell’oscillazione tra la sfera trascendentale e quella empirica che costituisce il pensiero della fondazione.
A partire da questi snodi il numero intende esplorare il tema della metafora nel discorso filosofico privilegiando i seguenti aspetti:
- l’uso della metafora e dell’analogia nella storia della filosofia: usi, evoluzione, obiettivi;
- crucialità dell’analisi della metafora nel pensiero di Hans Blumenberg nel suo complesso, con particolare riferimento al nesso tra la metafora e l’actio per distans, che Blumenberg individua quale forma precipua di adattamento al mondo;
- centralità della differenza tra metafora e concetto nella decostruzione derridiana della metafisica; valenza trascendentale del discorso derridiano sull’impossibilità di gestire concettualmente l’intreccio tra metafore e concetti;
- rapporto tra metafora e analogia nell’opera di Melandri, analisi degli esiti che assume l’argomentazione trascendentale quando questa ospita al proprio interno un’apertura dialettica nei confronti del metaforico e dell’analogico;
- a partire dall’opera di Lakoff e Johnson, analisi del rapporto tra la metaforicità del pensiero e le attività cognitive in quanto operazioni compiute da un soggetto incarnato, che si orienta nel mondo attraverso costruzioni narrative e concettuali che possono aspirare tanto più all’oggettività quanto più sapranno dar conto del proprio radicamento in una prassi incarnata;
- metafora, analogia e modellizzazione nel pensiero scientifico;
- le relazioni tra metafora e simbolizzazione degli spazi abitati: significati e fenomenologie del monumentale, inteso quale condensazione del metaforico nel linguaggio architettonico;
- rapporto tra funzionamento retorico-semiotico della metafora ed ermeneutica della metafora intesa quale asse portante delle strutture testuali.
Procedura: si prega di inviare, all'indirizzo redazione@philosophykitchen.com, entro il 27 febbraio 2022, un abstract di massimo 6000 caratteri, indicando il titolo della proposta, le modalità in cui si intende sviluppare il tema e l'argomentazione, una bibliografia essenziale e ragionata nonché una breve biografia dell’autore o dell’autrice. Le proposte verranno valutate dai curatori e dalla redazione. Gli esiti della selezione verranno resi noti, via mail, entro il 14 marzo 2022. I contributi selezionati dovranno poi essere inviati entro il 30 giugno 2022 e saranno sottoposti a double-blind peer review. La pubblicazione del volume è prevista per settembre 2022.
Nel corso del Novecento i concetti di forma e di struttura subiscono un radicale ripensamento. Emblematico è il caso della matematica: sebbene la nozione di struttura avesse fatto la sua comparsa già nel secolo precedente in ambito algebrico e insiemistico, solo in questo secolo si assiste al tentativo di ripensare l'intera scienza alla luce di tale nozione. Mediante ripetuti procedimenti di messa in isomorfismi, campi eterogenei della matematica (algebra, geometria, analisi, teoria dei numeri, ecc.) sono ricondotti alle trasformazioni trasversali di cui partecipano. Si pensi per esempio al progetto bourbakista di una “architettura della matematica” e ai suoi sviluppi odierni in teoria delle categorie: focalizzando l'attenzione non più sulle strutture ma sulle funzioni, una simile prospettiva si emancipa dal sospetto di “essenzialismo” per dare conto del processo stesso di formazione che dà luogo alle strutture.
Altro ambito in cui il concetto di forma acquista un ruolo centrale è quello della psicologia: dal primo decennio del secolo, un intero movimento, la Gestalttheorie, assume la forma (sinonimo di unità strutturata) come proprio oggetto d’indagine e fonda esplicitamente (Köhler, Wertheimer) la propria teoria della percezione sul postulato di un isomorfismo, almeno nomologico, tra piano fenomenico e fisiologico. Inoltre è proprio da tali ricerche, in particolare da quelle di Meinong ed Ehrenfels, che la fenomenologia eredita una specifica attenzione al rapporto tra parte e intero: dall’elaborazione formale delle intuizioni gestaltiste sulla percezione, come quella sulla differenza tra parti indipendenti e non indipendenti, Husserl getta nuovi basi per la riflessione mereologica.
Lo statuto e la genesi della struttura si ritrova al centro delle analisi strutturaliste, la cui definizione di struttura può essere sintetizzata, prendendo a prestito le parole di Piaget, come un sistema unitario di trasformazioni auto-regolatrici riscontrabile in diversi ambiti del reale e, dunque, oggetto di diverse discipline (linguistica, semiotica, antropologia). Insieme a simili indagini, si assiste alla riformulazione delle filosofie della forma: quelle di Ruyer e Simondon, entrambe fortemente influenzate dai più aggiornati dibattiti scientifici, possono essere prese a esempio giacché rintracciano nella forma una nozione imprescindibile per dar conto dei vari livelli del reale, sia esso fisico o biologico o psicologico.
Anche in altri domini di ricerca, e con altre declinazioni, seppur tangenti alle analisi avanzate in filosofia, prende corpo la formalizzazione della cosiddetta teoria sistemica, soprattutto a partire dai contributi della teoria dei sistemi generali di von Bertalanffy, della cibernetica di Wiener e della teoria dell'informazione di Shannon. Da questa si avviano tanto le indagini sulla morfogenesi e sull'autopoiesi di Maturana e Varela quanto quelle sulla morfogenesi di René Thom, a loro volta riprese, rafforzate e reinnestate in ambito strutturale da Jean Petitot attraverso la proposta di uno strutturalismo morfodinamico o strutturalismo naturalizzato.
Da quest’orizzonte di problemi, sopra succintamente delineato, il sesto numero di “Philosophy Kitchen” intende chiamare a indagare i caratteri epistemologico e ontologico dell'isomorfismo – strettamente connesso a nozioni quali forma e formazione, struttura e strutturazione –, nel tentativo di fare chiarezza sulla valenza della loro relazione. Primo obiettivo sarà dunque quello di appurare la natura, l'evoluzione storica e gli slittamenti di significato che l'isomorfismo, inteso come corrispondenza tra modelli o strutture aventi domini omogenei, ha assunto all'interno delle diverse discipline nel corso del Novecento.
Sul piano epistemologico, si può affermare che l'isomorfismo assume una portata metodica se applicato, in qualità di strumento, a strutture afferenti a livelli diversi di realtà, talvolta apparentemente distanti. Ci si propone allora di valutare la possibilità di generalizzare un simile strumento d’indagine, in vista dell'accrescimento e dell'organizzazione del sapere.
Siamo a Los Angeles, nella funeral home della famiglia Fisher: la serie tv[1] si apre con la morte del patriarca e prosegue con il cordoglio dei familiari e con le loro diverse reazioni al lutto.
Pur essendo girato per un pubblico di massa, Six Feet Under tratta in modo esplicito oltre che ironico argomenti che oggi sembrano essere diventati tabù, come la morte e il cordoglio ma anche e soprattutto il dolore che ne consegue. Infatti, le caratteristiche psicologiche e sociali dei personaggi sono l’occasione per trattare il tema della morte in modo pedagogico e per offrire allo spettatore un’interpretazione circa il modo di reagire al lutto.