Siamo dei e ci muoviamo nello spazio profondo […] mentre tu, pover'uomo, non sei niente di speciale devi anche lavorare e poi chiedere perdono. (L. Dalla, Siamo dei)
spergiuro e perdono
Con l’uscita nel novembre 2023 del volume edito da Jaca Book per la cura di Vittorio Perego, Lo spergiuro e il perdono. Seminario (1997-1998) continua la meritoria opera di pubblicazione, in traduzione italiana, dei seminari, in corso di edizione anche nell’originale francese, che Jacques Derrida ha tenuto all’EHESS [École des hautes études en science sociales] negli ultimi venti anni della sua vita, tra il 1984 e 2003.
Nell’“Introduzione generale” i membri del comitato editoriale diretto da Katie Chenoweth ci informano che La serie “Les séminaire de Jacques Derrida”, nella collezione “Bibliothèque Derrida”, comprende le seguenti sequenze tematiche: «“Nationalité et nationalisme philosophiques” (1984-1988), Politiques de l’amitié (1988-1991), seguiti dalla grande serie delle “Questions de responsabilité” (1991-2003), che affronterà nell’ordine il segreto (1991-1992), la testimonianza (1992-1995), ostilità e ospitalità (1995-1997), spergiuro e perdono (1997-1999), la pena di morte (1999-2001) e, alla fine, le questioni della sovranità e dell’animalità con il titolo “La bête et le souverain” (2001-2003)» (p. 8).
Il seminario fa dunque parte della lunga sequenza di incontri che Derrida, nel corso di dodici anni, dedica alle questioni della responsabilità. Sono precisamente gli anni in cui l’autore declina la decostruzione in una chiave più direttamente politica. Nello stile distintivo a cui ci ha abituati in tutta la sua produzione filosofica, espressione di una rigorosa strategia argomentativa e di scrittura, più che affrontare tematicamente tali questioni, come se fosse possibile isolarle come un oggetto di studio ben identificabile, dai contorni chiari e distinti, ciò che Derrida mette all’opera in questo seminario è tentare di mostrare ciò che accade quando si a che fare con lo spergiuro e il perdono. Chiariamolo subito, ciò che accade – la decostruzione – è sempre, insieme,evento singolare e sua riproduzione archiviale. «La ricerca – ci dice Derrida a tal riguardo – è impegnata dall’inizio del seminario a proposito di ciò che nel perdono, nelle scuse o nello spergiuro accade, si fa, avviene, succede e dunque di ciò che, in questo evento richiede non soltanto un’operazione, un atto, una performance, una praxis, un’opera, cioè il risultato e insieme la traccia lasciata di una supposta operazione, un’opera che sopravvive alla sua supposta operazione e al suo operatore, e che, sopravvivendogli, essendo destinata a questo sopra-vita, a questo eccesso sulla vita presente, implica fin dall’inizio la struttura di questo sopra-vita, cioè di ciò che taglia l’opera dell’operazione, questo taglio, questa interruzione gli assicura una specie di indipendenza o di autonomia archiviale e quasi meccanica (non dico meccanica, dico quasi meccanica), gli assicura il potere di ripetere di ripetizione, di ripetibilità, di iterabilità, di sostituzione seriale e protetica di sé a sé» (p. 370).
Cos’è che accade, dunque, quando abbiamo a che fare con lo spergiuro e il perdono? Il lavoro che qui recensiamo ha precisamente il compito di rispondere a tale quesito. Esso riproduce il testo scritto e letto durante le dieci lezioni che Derrida tiene nel corso del primo anno di seminario. A ragione, i curatori dell’edizione francese Ginette Michaud e Nichols Cotton affermano che «la migliore presentazione del seminario […] è quella che Derrida stesso ha riportato nell’Annuaire de l’EHESS 1997-1998». Per restituire al lettore la vastità del programma, citiamo il brano per intero: «Abbiamo proseguito il ciclo di ricerche sulle attuali sfide (filosofiche, etiche, giuridiche o politiche) del concetto di responsabilità. Dopo aver privilegiato, come filo conduttore, i temi del segreto, della testimonianza e dell’ospitalità, tenteremo di affrontare la tematica dello spergiuro. Essa riguarda una certa esperienza del male, della malignità o della mala fede quando questa negatività assume la forma del rinnegamento. Con riferimento al pegno o all’impegno performativo “davanti alla legge” (promessa, fede giurata, parola data, parola d’onore, giuramento, patto, contratto, alleanza, debito, ecc.) vengono studiate nei differenti campi (etica, antropologia, diritto) e a partire da diversi corpus (esegetico, filosofico o letterario per esempio). Abbiamo tentato di collegare queste questioni del “male” a quelle del perdono. Se il perdono non è la scusa, né l’oblio, né l’amnistia, né la prescrizione, né la “grazia politica”, se la sua possibilità paradossalmente si misura solo in relazione all’imperdonabile,come pensare la “possibilità” di questa “impossibilità”? La traiettoria delineata quest’anno si è sviluppata attraverso letture (le due opere di Jankélévitch sul perdono e sull’imprescrittibilità, i testi di Kant sul diritto di grazia, i testi biblici o greci – platonici in particolare –, le opere apparentemente più letterarie, Shakespeare – Il mercante di Venezia o Amleto –, Kierkegaard, Baudelaire, Kafka), e attraverso l’analisi di alcune scene di “perdono” o di “pentimento” politici che si moltiplicano oggi nel mondo, in Francia o in Sud Africa, ma in verità in tutti i continenti (pp. 13-14)».
Come mette in luce Perego nel saggio introduttivo del volume “Il perdono ovvero la prova dell’impossibile”, l’operazione derridiana si serve di «due movimenti, due livelli di riflessione […]: uno fenomenologico descrittivo finalizzato a portare alla luce l’eidos del perdono con le sue inevitabili e feconde aporie, l’altro che invece attesta l’impossibilità di collocarsi al di fuori dell’esperienza del perdono dal momento stesso in cui Derrida si rivolge agli ascoltatori e assume l’eredità di questa parola “perdono”» (p. 25).
Dopo aver magistralmente così descritto il primo movimento: «l’individuazione di un’eidetica è funzionale a portare alla luce l’identità di un concetto per delimitarlo dal suo opposto, per poi risalire al differire originario che produce queste stesse distinzioni concettuali e che le contamina, rendendole aporeticamente impraticabili, come se pur il necessario concetto sia sempre inadeguato a delimitarne l’esperienza», e con l’intento di mettere dei segnavia su quello che Derrida letteralmente chiama «percorso a zig zag o a slalom» (p. 264), Perego individua tre «feconde aporie», che così analizza.
1) «Il perdono non è la scusa, in quanto di fronte alla colpa il perdono non cerca attenuanti. […] La scusa invece persegue l’obiettivo di spiegare la colpa, […] e quindi di giustificare il colpevole, appunto cerca di discolparlo scusandolo» (p. 29).
2) «Il perdono è la figura dell’ultima parola, ma allo stesso è necessariamente la penultima o forse la prima parola. […] Non può esserci perdono parziale: “ti perdono” significa propriamente “non parliamone più”, “tracciamo una riga”, “voltiamo pagina. […] Allo stesso tempo il perdono è sempre anche la penultima parola o la prima, in quanto è proprio il performativo “perdono” che rende possibile un ri-cominciamento, una rigenerazione, una ricostruzione del legame interrotto» (p. 30).
3) «Il perdono non è la giustizia. Chi perdona non giudica, non applica un codice, vuole appunto porsi al di fuori del regime della giustizia […]. Eppure il perdono non può esimersi dal giudicare, in quanto si costituisce attraverso un giudizio inequivocabile: quello sul male compiuto»(p. 31). Nello spazio di questa recensione, per quel che riguarda le prime due aporie ci limitiamo a quanto scritto da Perego, sulla terza aporia, certamente in maniera inscindibile connessa alla prime due, invece, ci soffermiamo, con l’obiettivo di rispondere al quesito che, con Derrida, ancora ripetiamo: «Se il perdono non è la scusa, né l’oblio, né l’amnistia, né la prescrizione, né la “grazia politica”, se la sua possibilità paradossalmente si misura solo in relazione all’imperdonabile,come pensare la “possibilità” di questa “impossibilità”?»O, detto altrimenti, qual è il rapporto che passa tra lo spergiuro, il perdono, il diritto, la giustizia e il suo impossibile al di là?
Tentiamo una risposta immaginando, con le risorse offerteci dal seminario, una scena in quella che proponiamo di chiamare la cucina filosofica di Jacques Derrida. Una cucina filosofica, sì, proprio come quella che ospita il nostro scritto. Una cucina perché tutto qui ha a che fare con un certo gusto e con un certo ingrediente segreto. «Mercy seasons justice» [Il perdono (la clemenza, la misericordia) mitiga la giustizia]: sono le parole che Shakespeare, ne Il mercante di Venezia, mette in bocca a Porzia, la cristiana, la quale, mascherata da avvocato, sta cercando, con un’arringa pronunciata di fronte al doge, di salvare il mercante Antonio, il quale, per un’obbligazione con l’ebreo Shylock circa un prestito che non può più corrispondere, deve a lui cedere una libbra della sua carne, andando dunque incontro a morte certa. Con una mossa geniale, che è, come vedremo, una riproposizione della sua traduzione del termine hegeliano Aufhebung, Derrida traduce mercy seasons justice con «il perdono rileva la giustizia», fornendo tre giustificazioni:
«Prima giustificazione, giustificazione immediata con il gioco dell’idioma. “Relever” innanzitutto ha il senso qui della cucina, […] si tratta di dare gusto, un altro gusto che si sposa con il primo gusto, restando lo stesso alterandosi, cambiandolo, ma dandogli più gusto, dandogli ancora più gusto del suo gusto; è ciò che si chiama “relever” nella cucina francese. Ed è proprio ciò che dice Porzia: il perdono rileva la giustizia, la qualità del perdono rileva il gusto della giustizia. […] 2) La seconda giustificazione, è che “relever” esprime bene l’elevazione: il perdono eleva la giustizia […]. Il perdono è un’ascensione della giustizia, una trascendenza, un movimento della giustizia che si trascende elevandosi così essa stessa al di sopra di se stessa. […] 3) La terza giustificazione di questa traduzione con “relever”, è che me ne sono servito trent’anni fa […] per tradurre una parola intraducibile di Hegel, “aufheben”, “Aufhebung” (ciò che nega conservando, ciò che eleva sopprimendo, ecc.) (pp. 109-110).
Il mercante di Venezia, insieme «trattato teologico-politico del perdono» e «opera sul giuramento e sullo spergiuro» (p. 93) rappresenta una delle vette di quella che Derrida chiama la «tradizione abramitica, del perdono cosiddetto infinito» (p. 313). Essa si contrapporrebbe – i condizionali sono qui d’obbligo perché Derrida in tutto il seminario revoca continuamente in dubbio la nettezza di queste distinzioni – a una certa tradizione greca e finanche a una certa tradizione ebraica, le quali sarebbero prive dell’esperienza del perdono. Tutto è come se, senza l’ingrediente segreto che «dà ancora più gusto», ovvero la clemenza o la misericordia, non fosse possibile alcun autentico perdono. La misericordia e la clemenza, elementi specificamente cristiani – nelle Confessioni di Agostino, sottolinea Derrida, la misericordia è «l’essenza stessa di Dio» (p. 194), – di cui sarebbero prive sia la tradizione greca sia quella ebraica, sono gli ingredienti segreti della ricetta del perdono, vale a dire ciò che permette al perdono di varcare l’orizzonte del diritto, della giustizia. Solo puntando all’imperdonabile, a questo al di là della giustizia, è possibile che il perdono non si confonda con l’oblio, l’amnistia, la grazia politica, la prescrizione. Ma è mai possibile una tale esperienza di perdono? È possibile perdonare l’imperdonabile? È possibile perdonare ed essere perdonati senza passare dalla pesante bilancia della giustizia?
Prima di affrettare una risposta chiariamo subito un punto fondamentale. Per Derrida, l'impossibile non è ciò che si oppone vis a vis al possibile, non è il suo contrario. L’impossibile è piuttosto ciò che risveglia, sollecita l'imprevedibilità del possibile. Per far sì che qualche cosa accada, per far sì che si dia un evento di perdono, il possibile deve anche essere impossibile. Ancora, dunque: come pensare la possibilità di questa impossibilità?
In tutta la sua opera – e lo si potrebbe mostrare facendo molti riferimenti, ad es. ai testi sul Kafka di Davanti alla legge, agli scritti su Baudelaire in Donare il tempo, alla sua lettura di Amleto, ai testi dedicati a Blanchot, ecc. – Derrida accorda un certo privilegio alla «letteratura» proprio nella capacità di saggiare, nei diversi registri in cui essa può articolarsi, la possibilità di questa impossibilità, come se la letteratura fosse più adatta a pensare, più adattare ad accogliere l’impossibile. È come se la letteratura, afferma Derrida nella Quarta lezione del seminario, «vivesse della memoria di questo perdono impossibile la cui impossibilità non è la stessa dai due lati della supposta frontiera tra la cultura abramitica e la cultura greca. Dai due lati, non si conosce il perdono, se così posso dire, lo si conosce come l’impossibile, ma l’esperienza di questa impossibilità, almeno questa è la mia ipotesi, vi si annuncia come differente.Intraducibilmente differente, senza dubbio, ma è la traduzione di questa differenza che forse qui tentiamo» (pp. 149-150).
Ecco allora che nella scena del Mercante di Venezia prima evocata, in cui Derrida individua niente meno che «un’altra letteratura che aggiusta il codice dell’idealismo speculativo con il codice del gusto e della cucina» (p. 161),si dà a vedere la possibilità di un’esperienza impossibile, l’evento di un perdono al di là del diritto, il cui al di là, tuttavia,si dà solo passando attraverso il diritto stesso – esperienza sempre aporetica del perdono: insieme evento e sua ripetizione archiviale. Se volessimo tentare di fissare in una formula la forza di questa feconda aporia, diremo che il perdono, se ce n’è, si dà sempre al di là e attraverso la giustizia. «Il perdono […] è giusto e insieme al di là della giustizia» (p. 310).
Per saggiare ancora le risorse di questa possibilità dell’impossibile, oltre all’elemento del gusto, dell’ingrediente segreto letterario, aggiungiamo nella nostra cucina filosofica anche altri due elementi o gesti: 1) la ripetizione di alcune frasi di uso comune legate allo scusarsi o al chiedere perdono, del tipo: «Perdono, sì, perdono» (p. 45) «Perdono, grazie…» (p. 91) «Perdono per non voler dire» (p. 139); «Non c’è niente di male» (p. 226) «Mi scuso» (p. 263), «–Perdono, mi scuso. –Ma no, non c’è nessun male» (p. 297), frasi che non è difficile immaginare che vengano spesso ripetute in una cucina, per esempio in quella indaffarata di un grosso ristorante, e che Derrida, durante il corso di tutto il seminario, ripete, mima, interpreta, intona, saggiandone le risorse retoriche e concettuali; 2) un sottofondo musicale, una colonna sonora.
Di tutte le frasi di uso comune che Derrida fa giocare in quella scena di perdono che il seminario stesso mette performativamente all’opera, ce n’è una a cui l’autore accorda un particolare privilegio e su cui, per questo, vale la pena fermarci. «Questa espressione di tutti i giorni è “non c’è niente di male”» (p. 226). Ora, nella lingua francese, la frase che in italiano suona «non c’è niente di male» si può tradurre in due modi differenti: il n’y a pas de mal oppure, più comunemente, y a pas d’mal. Derrida afferma di preferire sempre la seconda traduzione, perché per mezzo di quell’ellissi che le separa trasforma la negazione in affermazione. Si badi bene, qui non è in gioco soltanto una “mera” questione linguistica – del resto, ogni buon lettore di Derrida sa bene che non esistono “mere” questioni linguistiche, che finanche gli elementi tradizionalmente considerati esteriori al linguaggio filosofico: l’intonazione, lo stile, il gesto, la traccia, tutta la pragmatica del linguaggio naturale, ecc. hanno, a ben vedere, una rilevanza decisiva per il suo statuto –, ma la differenza che corre tra queste due espressioni è precisamente la via, dovremmo dire, forse, l’interruzione della via: aporia, che conduce, attraverso la giustizia stessa, al di là di essa e in cui dobbiamo riconoscere, l’unica possibilità, se ce n’è, di un perdono infinito veramente degno del suo nome, della sua eredità. «Preferisco sempre dire di proposito: “non c’è male” [y a pas d’mal] invece di “non c’è nulla di male” [il n’y a pas de mal]. In questo modo cancello il «Il n’» (il nulla). Infatti […] con questa ellissi o questa elisione di “il n’y” cancello un po’ la negazione che incide nel “c’è”; sopprimo il “non” della negazione, almeno presso il “c’è”, come se dicessi, sì, c’è, sì, ya, sì, y a, ma cosa? Esiste “nessun male”. Nessun male, sì, c’è, esiste nessun male [ya pas d’mal], nessun male esiste: sì, y a» (p. 298).
A nostro avviso, questo decisivo passaggio del seminario fa ben comprendere la tempra affermativa del pensiero di Derrida. Certo, la decostruzione costantemente si impegna per una messa in risalto delle contraddizioni, delle aporie, dei disallineamenti, dei contrasti di ciò che accade,ma lo fa con un atteggiamento che mai cede alla ripetizione fine a se stessa di gesti consolidati, identici, da applicare a questo o quel campo del sapere o della cosiddetta realtà, non cede, detto altrimenti, al ripetersi coattivo e mortale, in una parola, alla fine, ma guarda sempre, certo con sguardo critico e disincantato, al darsi di un evento, in questo caso di perdono, come all’unica possibilità, se ce n’è, che la giustizia trovi posto in questo mondo out of joint. Non ci pare un grande azzardo utilizzare una frase utilizzata da Karl Rosenkranz nella più nota biografia di Hegel (Vita di Hegel), per descrivere la pur differente tempra affermativa del pensiero Derrida: «L’acutezza negativa di Hegel [sostituiamo con: “di Derrida”] aveva come base la sua immediata forza affermativa».
Ancora un saggio di questa forza affermativa nell’interminabile domandare derridiano: «È possibile immaginare un perdono o una scusa che consista nel dire “sì”, “Ja” e non “no”? È possibile affrancare la scusa e il perdono dalla negatività? Questa negatività (negazione, diniego o denegazione) è di pura forma, come la manifestazione esteriore o fenomenale di ciò che sarebbe per essenza affermativo, come il dono, per esempio? Se il perdono è un dono, non deve sfuggire, nel suo fondo, nel cuore della sua misericordia, a questa negatività che gli fornisce tuttavia il suo linguaggio? Non si deve negare questa negazione portando via l’economia dialettica di questo rilevare e di questa negazione della negazione?» (p. 315).
Per quanto concerne l’ultimo elemento che ci resta da immaginare nella cucina filosofica di Derrida, c’è un’attenzione costante durante il corso del seminario per certi movimenti musicali – sono quelli, ad esempio, che Derrida individua nel Kierkergaard di Timore e tremore attorno al silenzio di Abramo (v. pp. 142 e ss.) –, ma anche per «il sussurro, il bisbiglio, la dichiarazione appena udibile, la voce del silenzio» (p. 229), per «il grido che si riconosce alle bestie» o per il «rumore di un ronzio» (p. 304). Più che seguire la coda di rimandi che lega questi suoni, questi rumori, questi silenzi o quasi silenzi all’analisi che Derrida fa dei testi di Kierkegaard, Blanchot, Levinas, Nietzsche, in conclusione scegliamo a nostro gusto un pezzo che, chissà, magari Derrida conosceva, e avrebbe pure volentieri ascoltato nella sua cucina filosofica.
Come visto, l’ellissi che «cancella un po’ la negazione che incide» nella frase di uso comune «non c’è niente di male» [y a pas d’mal] è uno dei luoghi fondamentali del seminario. È lo stesso Derrida, del resto, a sottolinearne l’importanza quando afferma: «l’analisi di questa negazione, di questa sottile modalità negativa, è il compito stesso di questo seminario» (p. 315). Data, dunque, l’importanza dell’ellissi – ricordiamo che il saggio che chiude una delle opere fondamentali di Derrida, La scrittura e la differenza titola propria “Ellissi” – scegliamo un pezzo che Sam Rivers, sassofonista statunitense, compone per il suo album del 1964 Fuchsia Swing Song e che proprio così si intitola: Ellipsis.
Con la speranza non ingenua che il mondo diventi più giusto, concludiamo augurandovi: buon ascolto e buon appetito. Il faut bien manger. Dalla cucina filosofica di Derrida, per ora, è tutto.
In questo breve ma densissimo volume, Jacques Lacan, una scienza di fantasmi, (Orthotes 2019) Federico Leoni continua il suo lavoro di originale rilettura delle riflessioni di Jacques Lacan, facendo funzionare il complesso, monumentale e oscuro svolgersi del pensiero dello psicoanalista parigino come pungolo per costruire nuove possibilità di traiettorie teoriche. Infatti, questo libro non vuole essere tanto un testo d’introduzione a Lacan quanto la continua interrogazione e scavatura di alcune delle sue più importanti riflessioni. Un’indicazione sulla lettura del testo ci viene direttamente dall’autore alla fine del libro: “Questo è un libro insistente. Ogni capitolo mostra una stessa cosa, che si presenta ora come Uno, ora come tratto, ora come voce, ora come mana, ora come fantasma, ora come oggetto, ora come gesto, ora come miniatura, ora come ideogramma.” (Leoni 2019, p. 173). Questa “stessa cosa” che Leoni ci mostra in Una Scienza di Fantasmi è l’evento – sempre attivo – dell’insorgenza e dell’inscrizione che produce il continuo processo di soggettivazione. Il libro è, allora, una sorta di indagine sul “supporto” di questo processo, non ritrovato in un fondamento certo e stabile quanto definito e perciò perduto, ma in una materia fluida e inafferrabile che anima la soggettivazione sempre in atto. Cercheremo di riattraversare l’insistenza di questa “stessa cosa” attraverso due vettori in particolare: l’Uno e la perversione.
La struttura di questo libro è permeata da una modalità particolare, che viene in qualche modo rivelato verso la fine del libro: l’obliquità. L’obliquità, o inclinazione, è proprio quella del diwan, del lettino freudiano, residuo della regressione ipnotica (anticamera della psicoanalisi). Questa strana angolatura, caposaldo del metodo clinico psicoanalitico, viene applicata costantemente nel testo sul continuo torcersi del pensiero dei filosofi interpellati. Questo non significa che i filosofi (fra i più presenti troviamo Leibniz, Kant, Cartesio, Bergson e Deleuze) vengano interrogati sui loro fatti privati, ma che le loro teorie, in qualche modo, vengano rese “spurie”, inclinate e condotte verso nuove possibilità. E non è un caso che nell’obliquità e nell’inclinazione ci stia anche la deviazione: infatti ciò che per eccellenza de-via in psicoanalisi è la per-versione, la negativa freudiana della nevrosi, ciò che modifica la rotta e batte strade nuove.
L’Uno, rintracciato e moltiplicato in varie figure (come il mana, il gesto, la voce, l’oggetto), è il protagonista indiscusso di questo libro e ne è anche il ritmo, la scia continua che permette ai molti percorsi anche eterogenei dipanati dall’autore di scandirsi in maniera sempre più coordinata. E, in qualche modo, da un punto di vista letterario, si potrebbe ascrivere questo libro di filosofia al genere del picaresco: assistiamo infatti a un continuo peregrinare avventuroso di questo Uno, dalla psicoanalisi lacaniana ai vari pensieri filosofici indagati, fino all’arte e alla letteratura. Un’altra maniera di mettere a fuoco la centralità di questo Uno ce la suggerisce Leoni stesso attraverso l’altro protagonista di questo libro, il fantasma, paradossalmente più nascosto rispetto alla onnipresenza dell’Uno. L’Uno è il fantasma di questo saggio filosofico, nel senso che è la cornice che anima la sua struttura e attraverso la quale si determina un continuo assemblaggio fra psicoanalisi e filosofia.
L’Uno non è, però, una nozione priva di ambiguità e addirittura strane sorte di pregiudizi sia nell’ambito filosofico che in quello della psicoanalisi lacaniana, come nota Leoni stesso. Sul lato filosofico, nel testo si insiste su come l’Uno sia uno dei marchi dell’elaborazione filosofica sin da Platone e dal platonismo (in Plotino l’Uno trova il suo apice) e non a caso Leoni riprende il Parmenide di Platone che si interroga sull’Uno e il Moltepice (Leoni 2019, p. 103). D’altronde lo stesso Lacan a suo modo notava nel seminario XVI (La logique du fantasme, ancora inedito in italiano) che Platone e Plotino sono fra i pochi filosofi che non cadono nell’errore di sovrapporre Essere e Uno e che riescono a fornire una riflessione specifica su questa dimensione dell’Uno (Leoni 2019, p. 21). Nonostante ciò, secondo Leoni, “dell’Uno non ne è più nulla, nella filosofia, da un certo punto in poi, e salvo diramazioni preziose quanto isolate” (p. 6).
Sul lato psicoanalitico si può dire che il tema dell’Uno emerge in punti diversi dello svolgimento dei seminari lacaniani. All’inizio più che essere un Uno filosofico, l’uno lacaniano è l’eredità dell’einziger Zug (tratto unico o unario) del Progetto di una psicologia freudiano del 1895. Da qui Lacan inizia a elaborare la nozione di tratto unario, che definisce una visione dell’incidenza del significante a partire da un tratto traumatico originario e di “partenza” per l’identificazione e perciò soggettivazione (Seminario IX). Più tardi questo tratto unario assumerà forme differenti nel Seminario XVII subendo una torsione e divenendo S1, il significante padrone cui ci si identifica e da cui origina la catena significante. Solo a partire dal Seminario XIX Lacan (2011) inizia a porre la questione di un Uno filosofico-psicoanalitico, e lo fa confrontandosi soprattutto con Platone e la teoria degli insiemi di Cantor e Frege. Insomma, sembra che si passi da un uno dalla lettera minuscola all’Uno con la maiuscola. Quando Miller (2013) ripercorre le riflessioni di Lacan sull’Essere e l’Uno mette in luce come Lacan passi da una “ontologia” (o ancor meglio una para-ontologia) a una “henologia”, un discorso sull’Uno. Nella lettura milleriana l’Uno di questo Lacan è esemplificabile nella messa a fuoco della dimensione del “corpo che si gode”, narcisisticamente e autisticamente, che diviene sempre più centrale nella costruzione teorica lacaniana. L’immagine dell’Uno che si è andata a definire sempre di più nella psicoanalisi lacaniana è quella concentrata dalla formula milleriana dell’Uno-tutto-solo o Uno-senza-Altro, che rifugge dalla dialettica che si istituisce fra un soggetto e l’Altro, per richiudersi su sé stesso in un godimento sterile e “perverso”. Ma è proprio a partire da un’altra lettura della perversione che Leoni vuole riconsiderare filosoficamente la nozione di Uno psicoanalitico, con l’obiettivo di mostrarne una dimensione nascosta e ricavata proprio dalla elaborazione lacaniana.
La perversione, nell’ambito clinico lacaniano, viene spesso indicata come quella struttura per la quale il soggetto si colloca nella posizione di oggetto inscalfibile, scaricando sull’Altro l’angoscia generata in lui dalla divisione inferta nel soggetto dal linguaggio. Il perverso vuole dividere l’Altro, proiettare su di lui l’angoscia della castrazione che non intende sostenere su sé stesso addirittura arrivare ad angosciare Dio, l’Altro per eccellenza (Recalcati, 2016; Lacan, 2004).
Un altro modo di dire la questione della perversione (ed è a partire da questa altra angolazione che parte la riflessione di Leoni), non contraddicendo necessariamente le altre letture ma facendo emergere un lato “positivo-creativo”, è che il soggetto della perversione “comprende” la struttura e il funzionamento del linguaggio e che in qualche modo usi questa “competenza” riversandola sull’Altro. È in questo senso che, nella prospettiva della teologia psicopatologica paolino-lacaniana suggerita da Leoni nel primo capitolo, se il nevrotico vive nel dramma innescato dalla Legge e lo psicotico non riconosce, forclude questa dimensione della Legge, non accedendo completamente al Simbolico, il perverso conosce questa Legge per negarla e superarla, per andare aldilà di essa e collocarsi al posto di Dio (pp. 8-11). Il soggetto perverso si sistemerebbe nella posizione di colui che scrive, letteralmente crea la Legge, addirittura identificandosi con essa. In questa direzione, si può suggerire, a ulteriore chiarimento, l’immagine prototipica data dall’inserto filosofico-politico di Sade (autore caro a Lacan) all’interno della sua Filosofia nel boudoir. Qui viene messo in luce come il perverso conosca lo strumento della Legge e del suo istituirsi e come utilizzi questo sapere per creare e immaginare un nuovo tipo di società iperbolica, sebbene basata su principi razionali, macabramente illuministici e “formalizzati” su un piano giuridico-filosofico.
A partire da questo lato creativo della posizione soggettiva della perversione, Leoni ci interroga sulla possibilità di concettualizzare la filosofia non come un processo paranoico (la diagnosi che Freud aveva, a suo tempo, affibbiato, e con una certa logica, alla filosofia) di iperuniversalizzazione e astrazione, purificazione dei pensieri e dei concetti. Piuttosto l’autore ci spinge a immaginare la filosofia come un processo perverso, la messa in atto di una possibilità di continua scrittura e riscrittura creativa del pensiero e del mondo a partire dall’invenzione filosofica.
C’è qualcosa come un’altra perversione, qualcosa come un altro scatenamento del possibile, che quella costellazione di pensatori cerca di mettere a fuoco. Misurarsi con la morte di Dio significa misurarsi con quest’altra perversione, con quest’altro scatenamento del possibile. Nuovi possibili si rendono possibili, nuovi impossibili si disegnano a margine di quei possibili. […] [Il perverso] Si mette al posto di Dio, e crea i possibili, o dice che al posto di Dio non c’è nient’altro che questa incessante creazione dei possibili. (Leoni 2019 p. 79)
Infatti, si può dire che la scrittura leoniana di questo testo sia in un certo qual modo perversa, producendo deviazioni, scatenamenti e misurandosi con un’esplorazioni dei possibili. Nel quinto capitolo, Leoni si riallaccia, e non a caso, proprio alla figura di Bafometto (p. 85), principe infernale delle metamorfosi e idolo templare protagonista del romanzo del filosofo “perverso” Klossowski. Nel testo klossowskiano, infatti, si esplicherebbe una condizione di continua trasformazione e implicazione di “tratti dentro altri tratti”:
Ogni tratto di divenire sposta ogni altro tratto implicandolo nel proprio percorso, facendo di ogni altro tratto un proprio segno e facendo di sé stesso un segno di ogni altro tratto. Qui leggere è fare, interpretare è fabbricare. Per questo il lettore dei segni di quel cosmo non va immaginato come davanti a un libro, immune ai segni che sta decifrando, ma come un segno esso stesso, e come un fabbricatore esso stesso. (Leoni, 2019 p. 89-90)
Dunque, in questa direzione obliqua e deviata, l’Uno inizia ad apparire non tanto come un Uno che accade, uno spazio definito nello spazio-tempo o nel soggetto, quanto il supporto continuo, la piega nel soggetto che permette che una soggettivazione, continuamente in genesi e in divenire, accada (Leoni 2019 p. 51). Dunque, se questo Uno non è l’Uno-tutto-solo della perversione, che Uno perverso della creazione sarebbe? L’Uno, che qui viene ripreso a partire dal Seminario XIX di Lacan (2011), non è semplicemente un momento atavico, uno stadio larvale della soggettività che precede cronologicamente l’incontro del soggetto con l’Altro. Viene, invece, indicato come quell’evento, o ancora meglio come quel rimasuglio dell’evento (eco de l’Y a d’l’Un lacaniano) che permette strutturalmente l’emergere di una dialettica fra il soggetto dell’Altro. L’Uno non sarebbe, dunque, un soggetto che può mettersi in dialettica con un Altro (e che eventualmente sceglie di non farlo) ma sarebbe l’evento stesso della possibilità di un’emergenza del rapporto fra un soggetto e l’Altro, in altre parole il suo supporto. È come dire che nell’Uno sta già il Due e il molteplice, nel senso che l’Uno permette, ponendosi come fondamento, l’articolarsi fra più elementi, fra più Uni:
Ovvero, che c’è dell’Uno, c’è l’operazione di un Uno molto più profondo o molto più superficiale di così, un Uno che non sta né dalla parte dell’uno né dalla parte dell’altro, ma che distribuisce le parti e opera la divisione, non cessando un istante di non-dividersi al fondo della divisione stessa. Questo Uno è nella stessa posizione dell’Altro, anzi è l’Altro stesso, ma come il suo accadere. L’Uno è l’Altro che accade, o l’Altro è l’Uno ormai accaduto. L’Altro è il regime dei rapporti istituiti, l’Uno è l’istituirsi di quei rapporti. (Leoni 2019 p. 35)
Uno, dunque, che nel suo continuo mettere in atto la divisione senza esserne compromesso (una sorta di fondo psicotico a ogni nevrosi), mostra la natura continuamente metamorfica della soggettivazione, del suo incessante divenire all’interno di una logica sostenuta dallo scandire di questo Uno fondamentale. Dunque, nella lettura di Leoni, se l’Altro è il “regime” dove si sono dati dei legami e delle leggi secondo un ordine simbolico (istituito), l’Uno sarebbe il supporto che permette che questi rapporti si istituiscano senza esso si istituisca mai.
Ancora, per rimanere nel solco del complesso svilupparsi della riflessione lacaniana attraverso i suoi seminari, il tratto unario, l’elemento di identificazione a un tratto dal soggetto che fa partire la sua soggettivazione, è sostenuto dalla dimensione dell’uniano, appunto da quel yadlun (“c’è dell’uno”) inassimilabile e allo stesso tempo motore e supporto della possibilità di far partire la soggettivazione dall’identificazione del tratto unario. Certo, seguendo Lacan non troviamo un Uno tutto-pieno, monolitico e compatto, le sue fondamenta sono instabili. L’Uno lacaniano del Seminario XIX è rappresentabile, infatti, da una sacca vuota con un buco: «Si vous en voulez une figure, je représenterais le fondement du Yad’lun comme un sac. Il ne peut avoir l’Un que dans la figure d’un sac, qui est un sac troué» (Lacan, 2011 p. 147) [1]. Insomma, di questo Uno non si sa mai quanto ce n’è davvero dentro al sacco.
[1] Se volete una figura, io rappresenterei il fondamento di Yadl’un come un sacco. Non si può avere l’Uno se non dentro la figura di un sacco, che è un sacco bucato. (traduzione mia)
Non è un caso che l’Uno di Lacan sia inavvicinabile dal linguaggio ordinato dell’istituirsi del simbolico e che lo psicoanalista francese idei proprio per questo Uno il neologismo yadlun. Questo ci porta nella dimensione della lalangue (che Leoni incrocia nell’indagine su grido e voce nel capitolo otto) di una lingua primitiva rispetto all’intervento regolativo e differenziante del simbolico, capace dunque di mostrare, più che significantizzare, l’ambigua e inafferrabile consistenza di questo Uno.
E se Leoni ci indica un modo per immaginare come un soggetto venga fuori da questo Uno è attraverso l’immagine di un piano che si piega su se stesso, producendo una singolarità in continua trasformazione, la soggettivazione sempre in divenire. È così che il soggetto appare come una monade, piega e unità singolare in cui tutto il mondo si inclina attraverso quel particolarissimo vertice che è il fantasma, meccanismo di cornice-interfaccia della realtà e allo stesso tempo suo assemblaggio. Il fantasma è, infatti, già nella riflessione lacaniana, la dimensione che permette al soggetto di aprire una vasta gamma di possibili incontri con l’oggetto piccolo a. S◊a, il matema del fantasma che Lacan (2013) indica nel Seminario VI, va a significare proprio questo: il punzone ◊ che contiene in sé più simboli (maggiore, minore, et, vel) rappresenta la plurimità delle possibilità di rapporto fra il soggetto diviso (S) del desiderio e l’oggetto causativo del desiderio, l’oggetto piccolo (a), resto di una delle forme dell’Uno lacaniano, Das Ding, la Cosa perduta per sempre dal soggetto nella rimozione originaria.
Certo, ogni singolarità, ogni soggetto non può solo creare a partire dal suo fantasma ed è inevitabilmente posto sotto il giogo della legge della coazione a ripetere. Eppure, partendo da una sorta di teoria della registrazione, Leoni nell’ottavo capitolo mette in luce come anche la più fedele registrazione sia in qualche modo una deformazione, un cambiare strada, un de-viare dall’originale (Leoni 2019 p.129). In questo senso ci viene da suggerire l’associazione a un pensatore a suo modo decisamente perverso, William S. Burroughs, che insisteva sul ruolo dello scrittore come registratore, come supporto apparentemente passivo degli avvenimenti della realtà: “Uno scrittore può scrivere soltanto di una cosa: di quello che c’è davanti ai suoi sensi al momento di scrivere… Sono uno strumento di registrazione… Non presumo di imporre una “storia”, una “trama”, una “continuità”…” (Burroughs 1959 p. 199). Nonostante ciò, la vera operazione di Burroughs non si risolveva qui: lo scrittore per lui non si può limitare a ripetere a pappagallo ciò che della realtà si imprime su di lui ma ricostruisce e trasforma il testo della realtà attraverso tagli, sovrapposizioni e giustapposizioni attraverso cui inserisce nella ripetizione un brulicante continuo differenziarsi dentro al testo stesso attraverso la tecnica del cut-up, in cui il testo viene tagliato e poi ricomposto, e la tecnica del fold-in, dove, ancor più significativamente, il testo viene piegato su se stesso.
Pieghe e monadi, dunque, sono le forme filosofiche attraverso le quali Leoni ci vuole restituire una visione della soggettivazione vista dalla prospettiva di una scienza dei fantasmi, delle singolarità. Quello che si configura in questa scienza dei fantasmi è una posizione etica (Leoni p. 105) per indagare il soggetto nella sua prospettiva singolare a partire da una presa in carico del fantasma da cui lo si guarda, indicazione questa preziosa anche per la clinica. Scienza assolutamente soggettiva da una parte e dall’altra, invece, “unica scienza rigorosa”, con le parole di Husserl, perché consapevole di indagare il fantasma a partire da una cornice che è già a sua volta un fantasma:
Che cosa sa, infatti, la scienza del fantasma? Che il fantasma è tanto il fantasma “verso cui” essa guarda per scrivere e descrivere, come suo oggetto di studio; tanto il fantasma “da cui” essa scrive e grazie a cui essa descrive ciò che descrive; quanto il fantasma “in cui” essa scrive, cioè lo spazio e l’esigenza e lo strumentario e la ragnatela di strade resesi possibili, entro cui la sua scrittura, la sua descrizione si muove.” (Leoni 2019 p. 105)
Dunque, la scienza del fantasma auspicata da Leoni sarebbe una scienza capace di mettere in luce la cornice verso cui si tende nella scrittura, la cornice “oggetto di studio”, ma anche la cornice da cui si scrive (in qualche modo, un riconoscimento del fantasma dell’autore) ma soprattutto “ragnatela di strade resesi possibili”, l’esplicazione effettiva “in cui” questa scienza scrive e si dipana. È in questo senso che il testo propone non solo una questione “epistemologica” ma soprattutto una dimensione etica, di riconoscimento e di accoglimento del fantasma singolare all’interno dell’elaborazione del pensiero, che ne è la cornice stessa ma che costituisce anche il metodo di assemblaggio degli oggetti di studio, modificandoli. A partire dalla definizione di questa scienza, Leoni negli ultimi capitoli del libro ci permette di vedere almeno due vertici a partire dai quali si può fare una scienza di fantasmi. Da una parte troviamo il filosofo “perverso”, che dopo Nietzsche è costretto a confrontarsi con la morte di Dio e alle nuove possibilità che gli sono date da scriversi. In qualche modo il filosofo perverso è un filosofo della contingenza lacaniana, colui che fa passare “ciò che non cessa di non scriversi” al “ciò che cessa di non scriversi”. Dall’altra, invece, in una posizione differente da quella del filosofo troviamo lo psicoanalista, che può manifestarsi attraverso più forme di singolarità: cadavere, santo (saint homme) e addirittura idiota. A differenza del filosofo, che fa emergere nuovi possibili attraverso assemblaggi fantasmatici, nella posizione di colui che “crea”, lo psicoanalista si pone in una posizione di annullamento, di “cadaverizzazione”, per permettere all’analizzante di incontrare e attraversare il suo proprio fantasma singolare.
Una scienza di fantasmi, per concludere, è un libro che, fedele alla scena carrolliana descritta da Deleuze in Logica del senso, ci mostra uno scorrere obliquo e continuo di Uni, oggetti, figure, disegnando una ragnatela di associazioni attraverso le quali si inizia a vedere un fantasma emergente, una cornice ritmica. Questo testo vuole già essere, dunque, una messa alla prova di una possibile scienza dei fantasmi che animano il soggetto, lasciando libero di emergere, unico e singolare, un fantasma che anima la complessa struttura del testo:
Ciò che essa sa, e insieme ciò che essa fa, è conoscere e perciò spostare l’oggetto. Non si può conoscere il fantasma senza spostarlo. In parte perché lui stesso è mobile, metamorfico, consegnato a una perenne fibrillazione dei disparati che lo compongono. In parte perché noi stessi siamo mobili, noi che lo studiamo, noi con la nostra scienza del fantasma, la scienza stessa del fantasma che non è mai di fronte al fantasma ma è sempre spinta dal fantasma e immersa nel fantasma, dunque che è fantasma a tutti gli effetti. Se così è, la scienza del fantasma è un’arte che accompagna. (Leoni 2019 p. 105)
di Lorenzo Curti
Bibliografia:
Burroughs, W. S. (1959), Pasto nudo, tr. it. F. Cavagnoli, Adelphi, Milano 2012
Lacan, J. (2004) Seminario X. L’angoscia, tr. it. A Di Ciaccia e Adele Succetti, Einaudi, Torino 2007
Lacan, J. Séminaire XIX …ou Pire, Seuil, Paris, 2011
Lacan, J. (2013) Seminario VI. Il desiderio e la sua interpretazione, tr. it. A. Di Ciaccia e Lieselotte Longato, Einaudi, Torino 2016
Miller, J. A. L’Essere e l’Uno. La Psicoanalisi, 53/54, Astrolabio, 2013, pp. 177-227
Leoni, F., Jacques Lacan, una scienza di fantasmi, Orthotes, Napoli-Salerno, 2013
Recalcati, M., Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto. Raffaello Cortina, Milano, 2016
Recensione a F. Lolli, Inattualità della psicoanalisi. L'analista e i nuovi domandanti (Poiesis Editrice, Bari 2019)
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Correva l’anno duemilatredici e la politica italiana attraversava una delicata fase di translatio imperii. Da una parte si assisteva al lento ma inesorabile sfacelo di quel mostro tentacolare, di quel partito-piovra-azienda che fu il Popolo della Libertà e, dall’altra, alla marea montante di nuovi (ancorché vecchi e pur sempre ideologicamente ritriti…) partiti populisti che sia da destra che da sinistra, sbracciando e sbraitando, miravano a conquistarsi frange sempre più consistenti di un elettorato quanto mai fiacco, stordito e disilluso. In un tale contesto - segnato tanto dal disorientamento ideologico quanto dall’altissimo tasso di dissonanza cognitiva che cominciava a serpeggiare nelle quotidianità anche più caserecce delle nuove società iperconnesse, smart e quasi completamente digitalizzate… - Massimo Recalcati, gettando uno sguardo retrospettivo sulla figura già in pieno declino di Silvio Berlusconi si esprimeva così:
«È questo eccesso pulsionale ciò che ha affascinato materialisticamente i suoi elettori. È il cardine di una nuova psicologia delle masse. Significa – e questo è ciò che ha dato al berlusconismo la sua forza specifica – affermare un desiderio privo di legge, dunque un desiderio che sconfina in un godimento illimitato che per la psicanalisi è il godimento incestuoso. Per questo l’appellativo ‘papi’ è rivelatore di una tendenza perversa intrinseca al berlusconismo come fenomeno culturale. Il padre non è più simbolo della Legge ma della sua continua trasgressione interna» (2013, p. 57).
L’agile libretto da cui è tratto questo passo, un’intervista in cui al più celebre tra gli psicanalisti lacaniani d’Italia l’editore-giornalista-scrittore Raimo chiedeva - non senza una certa qual dose di sacrale soggezione… - illuminanti e innovative analisi psicopolitiche del contemporaneo, si prospettava già dal titolo come un’operazione editoriale ben pesata, una vera e propria pubblicazione strategica: Patria senza Padri. Psicopatologia della politica italiana.
L’equazione Evaporazione del nome del padre = disagio della civiltà postmoderna alla quale il titolo alludeva, e alla quale ci siamo ormai abituati, ha funzionato infatti per anni come un mantra ed è stata riproposta dal suo gonfaloniere a più riprese e, senza grandi variazioni, nei contesti più disparati. Come i concetti di liquidità o di Nuovo Realismo proposti da Baumann e Ferraris, anche quello di Evaporazione-del-nome-del-Padre è stato al centro di un intenso dibattito (benché meno filosofico che giornalistico, più popolare che intellettualmente raffinato) che ha animato fiere del libro, salotti televisivi, festival della filosofia ed eventi culturali di ogni sorta. Al prezzo di ridurre la complessità intrinseca a materie quali la sociologia, la filosofia e la psicanalisi e correndo il rischio di lasciar scomparire l’identità stessa di queste discipline, il loro vero valore, dietro la bidimensionalità e la superficialità imposte dal “discorso pubblico” e dal senso comune, questi tre esempi ci illustrano chiaramente quali sono le difficoltà che incontrano la divulgazione e l’esportazione di modelli cognitivi “alti”, sofisticati o più semplicemente “tecnici”, in contesti in cui occorre (oltre che vendere più libri possibile…) accattivarsi l’interesse di un pubblico alla ricerca di facili e accomodanti risposte che sollevino da quell’oneroso e sfibrante compito che è il pensare, magari in modo critico, magari in modo autonomo.
Nell’equivalenza concettuale Evaporazione del nome del padre = disagio della civiltà postmoderna proposta da Recalcati, infatti, ciò che più colpisce è l’innegabile semplificazione alla quale è sottoposta la realtà (sia questa sociale, psichica, politica o storica), nonché la paradossale e quasi contradditoria via d’uscita politica che lo stesso Recalcati ha suggerito, per anni, quale soluzione allo stallo ingenerato dalla scomparsa della funzione simbolica incarnata dai padri, ovvero… il recupero della funzione simbolica incarnata dai padri. Come si legge nello stesso testo, infatti:
«Nell’epoca in cui il nome del padre evapora, affinché resti qualcosa del padre, affinché qualcosa del padre sopravviva, è necessario che ci sia una sua reincarnazione singolare. È solo questa incarnazione che può far esistere di nuovo il valore del nome. Questo per me è il passaggio centrale. E ha una forte risonanza politica. Per riabilitare la dimensione simbolica della politica, oggi completamente screditata, c’è bisogno di testimonianza. Il valore della politica non è più garantito ideologicamente dalla forza delle tradizioni, dalla autorevolezza simbolica dei partiti. Per riabilitare la politica non serve il nome ma l’atto. Come accade per il padre della Strada. Testimonianza di come un padre sperduto in un mondo senza Dio sia riuscito a sopravvivere e a non impazzire o suicidarsi. Questa testimonianza può essere la condizione attraverso cui rendere possibile l’evocazione del Nome del Padre. Non dall’alto, ma dal basso» (p. 113).
I brani sopracitati, lungi dal costituire un’estemporanea presa di posizione del loro autore, hanno assunto nel tempo un valore esemplare e a dir poco paradigmatico nella misura in cui riassumono, stilizzandola, quella che è stata la tendenza più in voga adottata, almeno in Italia, dalla letteratura critica di stampo psicanalitico nell’ultimo decennio.
Ora: è anche e soprattutto alla luce di ciò che è incorso all’interno di questo contesto, quello della letteratura psicoanalitica e filosofica mainstream, che una pubblicazione come Inattualità della psicanalisi. L’analista e i nuovi domandanti (Poiesis, Bari 2019, pp. 2014), l’ultima fatica editoriale di Franco Lolli, assume la sua peculiare pertinenza e acquista la sua giusta rilevanza. Ma dall’opera, che almeno nella sua prima sezione si prospetta come un vero e proprio tentativo di sottrarre al parallelismo Evaporazione del nome del padre = disagio della civiltà postmoderna il primato eziologico che vi attribuiscono molti psicanalisti contemporanei, traspaiono anche tanto l’esigenza quanto un intenso sforzo di revisione, di aggiornamento della pratica psicanalitica e di alcuni suoi presupposti dottrinali. Il libro consiste infatti nell’elaborazione di una questione assai complessa, che l’autore, forse, ricapitolerebbe così: «l’estensione dell’applicazione della psicanalisi e le mutazioni socioculturali intervenute negli ultimi decenni impongono una riconsiderazione profonda della tecnica che sia in grado di trattare domande diverse da quelle in risposta alle quali la psicoanalisi è nata» (p. 58). Seguendo la scansione tripartita del testo cecheremo di evidenziare sinteticamente sia le critiche al paradigma recalcatiano sia le istanze di stringente attualità (anche se paradossalmente inattuali…) sollevate da Lolli nel suo accattivante e assolutamente necessario nuovo libro.
Nella prima sezione l’autore, seguendo la ricerca di Zafiropoulos (2019), rileva l’influenza esercitata dalle letture di Bachofen, Durkheim e Horkheimer sul giovane Lacan. Questi, poco più che trentenne, azzardava con la formula “declino sociale dell’imago paterna” un’interessante diagnosi psicopolitica o psicosociale riguardante una mutazione antropologica che all’epoca, agli inizi del Novecento, giungeva a compimento ma che storicamente si innerva nei meandri della modernità. Con “declino sociale dell’imago paterna” Lacan indicava infatti quel precipitato di eventi di lunga durata come la rivoluzione industriale, la rivoluzione scientifica e il conseguente discredito subito dai monoteismi. La formula, quanto mai icastica, individuava una mutazione di non poco conto, quella tra famiglia patriarcale famiglia coniugale:
«Ad entrare in crisi è stata la declinazione storico-immaginaria della funzione paterna (l’organizzazione che le religioni monoteistiche hanno consolidato), non la funzione cosiddetta paterna in quanto tale, da considerarsi, al contrario, la condizione indispensabile al processo costitutivo del soggetto» (Lolli 2019, p. 16).
La presunta eclissi, il tramonto della funzione paterna (che produrrebbe da una parte un’ipertrofia di godimento, una circolazione incontrollata e diffusa di frivoli piaceri a buon mercato e, dall’altra, la scomparsa del desiderio e della progettualità quali possibilità di dare senso a un’esistenza altrimenti impantanata nelle paludi dell’edonismo) non è quindi una diagnosi completamente fuorviante. Vi è del vero, e al netto delle semplificazioni che una tale tesi è stata costretta a subire per poter circolare tra il grande pubblico. Occorre semmai, secondo Lolli, ridimensionare la portata e stemperare il lirismo che ammanta questa efficace formulazione del giovane Lacan.
Occorre, precisamente, distinguere tra quelle che sono le condizioni trascendentali del desiderio, di cui la funzione simbolica incarnata dall’ordinamento patriarcale non è che un esempio storicamente determinato, e le incarnazioni empiriche, appunto, di queste stesse condizioni. Sul primo versante il Lacan più maturo, che ha filtrato la lezione di Levi Strauss e di Saussure, individua la forza propria del significante, il potere generatore e antropopoietico del linguaggio mentre sull’altro polo, al contrario, localizza il ruolo simbolico occupato del genitore, dalla figura parentale materiale e contingente che si trova (molto spesso senza esserne addirittura consapevole…) a occupare lo spazio che è quello del garante formale dell’ordine simbolico. La paternità, dunque, non ha mai coinciso e non è mai stata sovrapposta, per Lacan, all’ordine simbolico (come sembrerebbe dire Recalcati) e i padri, lungi dal costituirsi come gli agenti diretti dello stesso, i suoi facenti funzione, non sono mai stati concepiti come nient’altro che dei presta nome.
Attraverso questo movimento di riconfigurazione e di chiarificazione della terminologia tecnica Lolli ci invita allora a valutare a pieno quella che è la portata della scoperta freudiana ovvero ci invita a rintracciare, al netto delle dinamiche storiche che determinano di volta in volta l’emergenza di nuove morfologie soggettive e identitarie, la dimensione strutturale che si muove carsicamente al di sotto della superficie dei fenomeni. Freud, infatti, ha scoperto che l’uomo, per far sussistere quel progetto millenario che va sotto il nome di “civiltà” (quella Kultur di cui la psicanalisi definisce il costo di produzione nei termini dell’Unbehagen, del disagio), ovvero al fine di porre in essere un ordine, un qualsivoglia assetto civile, ha bisogno di rinunciare al soddisfacimento pulsionale:
«La rinuncia pulsionale non è un’esperienza che l’umano possa evitare: essa è imposta dall’operatività del significante come dato ineluttabile dell’antropogenesi. Il soggetto si genera da tale originaria azione, inevitabile e indifferente ai contenuti socioculturali che il discorso vigente promuove. Il cambiamento delle ‘figure’ dell’Altro (cambiamento che in alcune epoche storiche si rende particolarmente evidente) non deve, in altre parole, indurre ingannevolmente a pensare che la sua funzione di regolazione del godimento possa essere cancellata» (p. 23).
La “rinuncia pulsionale” e la perdita di godimento (o più semplicemente tutto quello che passa sotto il nome di “castrazione”) sono allora la conditio sine qua non sia della civiltà che del suo disagio e indicano l’orizzonte concettuale di ogni analisi critica delle realtà sociali, politiche e soggettive che vogliano fondare i propri presupposti sulla psicanalisi freudiana. Le teorie dei “declinisti” (l’appellativo usato da Lolli per definire chi attribuisce al declino dell’immagine paterna la causazione del nuovo disagio psichico), per contro, sembrano focalizzare l’attenzione su di un aspetto marginale e più che altro formale della questione. Queste teorie, in altre parole, sembrano da una parte rimuovere la persistenza eterna, ubiquitaria, strutturale e per certi versi anch’essa inattuale del disagio, della sofferenza umana. Da un’altra parte, inoltre, le teorie decliniste paiono strumentalizzare questo stesso disagio in modo da far leva su di una tendenza che, nell’epoca del tramonto del simbolico e dell’estensione assoluta del dominio tecnologico sulla comunicazione, mira alla resurrezione di un discorso conservatore, revanscista e tradizionalista. E questo, ovviamente, al netto di quelle dinamiche storicamente determinate e variabili che regolano la patogenesi e le mutazioni morfologiche dei sintomi psichici, in ottemperanza alla distinzione sopracitata tra condizioni trascendentali del desiderio e incarnazioni empiriche di queste stesse condizioni. Su questo tema Lolli tornerà nella terza parte del libro.
Per ora ci basti notare che, una volta gettata luce sulle vicissitudini storico-filologiche del concetto di “declino sociale dell’imago paterna”, risulta più chiaro come la riproposizione post-moderna di questa categoria critico-diagnostica forgiata negli anni trenta del secolo scorso figuri più come una grossolana semplificazione che come una rivoluzionaria e geniale trovata sociopsicologica. Il mantra Evaporazione-del-nome-del-Padre=disagio della civiltà postmoderna, che è stato ripetuto fino allo sfinimento e che in un certo senso ha funzionato più come un martello che come una chiave di lettura filosofico-politica, avrà sicuramente facilitato l’individuazione di alcune tendenze insite alla realtà Italiana di inizio millennio e avrà favorito la comprensione (almeno quella cronachistica) di processi che sarebbero stati altrimenti difficilmente rendicontabili (non da ultimo i capricci di un anziano signore che si trovava a occupare, in quel momento, il ruolo di leader politico, di padre dell’orda…), ma non soddisfa di certo quei criteri che ne farebbero lo strumento-chiave per produrre una cosiddetta “diagnosi epocale”.
Nella seconda sezione (pp. 59-42) Lolli compie un’operazione di ricerca storico-filologica che non ha precedenti nella letteratura che riguarda Lacan. Grazie a un lento e faticoso lavoro archivistico di dissodamento e di certosina ricerca filologica qui Lolli ci consegna finalmente, per la prima volta, un elenco ragionato ed esaustivo di tutte le occorrenze incontrate dal termine “analista” lungo l’intero arco del Seminario. La ricerca merita un’attenzione particolare anche perché attinge, oltre che alle trascrizioni di Miller, ai seminari non pubblicati neanche in francese e reperibili solo on-line, seminari di cui esistono solo annotazioni dattiloscritte, appunti e registrazioni audio. Ogni occorrenza è opportunamente contestualizzata e analizzata e tutta questa seconda sezione va letta come un’esplorazione approfondita dell’intero spettro di significato che si dipana, per Lacan, attorno al significante “analista”.
Riproduco qui l’intero elenco degli epiteti reperiti da Lolli e che Lacan ha evocato per rendere conto della professione che ha praticato per tutta la vita, riservandomi di rimandare il lettore al ricco commento proposto in Inattualità della psicanalisi: analista feccia, Pantagruele, saint homme, fuoco fatuo, analista diviso, traumatico, posto vuoto, soggetto-supposto-sapere, dupe, ignorante, ingannatore, sarto, analista-taglio, sofista, specchio opaco, tecnico, facente funzione, analista-nel-gioco-significante, impostore, retore, ostetrico, ipnotizzato, analista-Verleugnung, analista dell’amore, Tiresia, analista-oggetto-a, sembiante, capro espiatorio, destituito, segretario, analista-nodo, analista ultimo-arrivato.
Ebbene, senza voler riassumere la varietà e l’eterogeneità di una figura proteiforme come quella dell’analista ci basti ricordare, qui, del grande insegnamento metafisico ed epistemologico che traspare dalla lezione di Lacan relativo allo statuto ontologico della sua “figura professionale”. Egli, infatti, con il suo fare da flâneur incallito, attraverso le sue pindariche digressioni e i suoi calembour, forte di un nozionismo sconfinato che elargisce al suo uditorio e ai suoi lettori come si trattasse di caramelle o di canditi e assolutamente preoccupato di farsi intendere (anche se, ça va sans dire, non da tutti…) fin nella più improbabile delle sue intuizioni, ha incarnato un modello certamente problematico e difficilmente replicabile di analista. Questo è fuor di dubbio. Sarebbe pura follia pretendere che tutti gli psicoanalisti si conformassero al suo stile anche perché, a dirla tutta, è uno stile un po' troppo ricercato, barocco, e alla lunga può risultare stucchevole. Altra cosa, però, è cercare di mimare con flemma professorale, moraleggiante e con toni decisamente paternalistici la postura cangiante e le movenze ardite di Lacan. Da parte sua, inoltre, questi non ha mai dato consigli su come vivere, non ha mai istruito le masse in merito a cosa sia più o meno giusto votare alle urne (non ha mai osato accusare gli avversari politici, per esempio, di esser nevrotici per il solo fatto di voler votare “No” a un referendum…) e le poche volte che si è presentato in televisione lo ha fatto per il gusto di non farsi capire…o meglio: per suscitare il gusto dell’incomprensibile. Imperniare l’esperienza analitica su quanto vi sia di indecifrabile, di muto, di inerte e di privo di senso: è questa semmai la più grande lezione che la filosofia e la cultura tout court possono trarre da quella pseudo-scienza, o da quella fanta-scienza, che è in realtà la psicanalisi. Il ruolo dello psicanalista di conseguenza non può che essere definito, diretto e limitato da questo paradossale interdetto. Come afferma Lolli, allora:
«Ogni sapere esibito dall’analista che intende spiegare la ‘sostanza’ delle cose umane diventa […] una farsa che magari, come capita di osservare frequentemente, riscontra favori e riscontri positivi (nell’immediatezza e nelle reazioni emotive che una sua presentazione charmant è in grado di generare) ma che, a lungo termine, non può che avere degli effetti di svalutazione della psicanalisi. Non solo: la riduzione della psicanalisi a ‘sapere dell’uomo’ ne decreta irreversibilmente la fine. Una disciplina che pensa di poter spiegare l’uomo infatti ha cessato di interrogarsi e dimostra, in questo modo, di essere giunta al capolinea della sua evoluzione (teorica e storica)» (p. 140).
Come a dire: dimenticarsi della lezione epistemologica di Lacan equivale automaticamente a esporsi all’accusa di voler occupare il posto del guru, del mâitre à penser (ovvero del maestro dietro la cui figura, spesso, si nasconde quella dell’ammaestratore) e, di conseguenza, di svilire la professione di psicanalista nella misura in cui si disattende ai suoi principi dottrinali.Un rischio, questo, che dovrebbe risuonare alle orecchie di quanti, all’interno della più che nutrita tribù dei filosofi e degli psicanalisti attualmente in auge, fanno leva sul proprio ascendente carismatico e sul fascinum intellettuale con il malcelato intento imbonirsi e infatuare intere platee, amalgami indistinti di telespettatori ed elettorato, in un gioco perverso di specchi, riflessi di fantasmi identitari e identificazioni paterne. Lacan (così come Heidegger, Freud e Sartre, per dirne alcuni…) ha esplicitato meglio di chiunque altro che non c’è nulla da dire, di sostanziale, in merito tutto ciò che l’uomo reputi essenziale per sé stesso, quindi: perché ergersi a maestri di verità e di vita se non per godere del godimento del mâitre?
Tali elucubrazioni trovano nella terza parte (pp. 143-190) del volume di Lolli un’ampia e originale elaborazione. L’ultima sezione, infatti, è dedicata all’annosa questione di come aggiornare la tecnica e la teoria psicanalitiche o, per dirla in altro modo, di cosa significhi essere uno psicanalista oggi. Una considerazione che può valere da banale premessa a questo problema potrebbe essere quella relativa ai mutamenti culturali e antropologici intercorsi tra l’epoca in cui si consuma l’invenzione freudiana dell’inconscio e lo stato attuale delle cose. Mutazioni di ordine economico, politico e storico non indifferenti come l’affermazione del consumismo come sistema etico e la riforma della morale influenzata dall’ormai ubiquitario modello neoliberale hanno infatti mutato, giocoforza, le condizioni materiali in cui l’inconscio si manifesta. Ma anche l’esistenza e il successo stessi della psicanalisi (ovvero la libera circolazione di un discorso critico-analitico che esplora la dimensione pulsionale e che mira a disambiguare l’opacità che si condensa attorno al nucleo scabroso, abietto e perturbante dell’umano) hanno contribuito, e non di poco, alla metamorfosi ontologica del sociale tuttora in atto.
D’altronde già J. A. Miller, durante il quarto Congresso dell’AMP svoltosi a Comandatuba, nel 2004, registrava non senza stupore le trasformazioni che un secolo di psicanalisi hanno impresso nella società e nella cultura contemporanee. Quasi come a voler suggerire l’idea di un effetto quantistico tale per cui la posizione dell’osservatore finisce con il mutare la natura, la struttura dell’oggetto osservato, l’erede di Lacan affermava:
«La psicoanalisi è stata inventata per rispondere a un disagio nella civiltà, a un disagio del soggetto immerso in una civiltà, che potremmo enunciare così: per far esistere il rapporto sessuale, si deve trattenere, inibire, rimuovere il godimento. La pratica freudiana ha aperto la via a quella che si manifestava – metteteci tutte le virgolette che volete – come una liberazione del godimento. […]. La pratica lacaniana, dal canto suo, ha a che fare con le conseguenze di questo successo sensazionale; conseguenze che sono sentite come dell’ordine della catastrofe. La dittatura del più-di-godere devasta la natura, fa scoppiare il matrimonio, disperde la famiglia e rimaneggia il corpo» (2006, p. 27).
È su questo stesso solco che sembra muoversi Lolli. Più che di evaporazione-del-Padre, infatti, sembra che l’autore suggerisca che dai nuovi casi psicopatologici traspaia una vera e propria evaporazione-dell’Io, una sorta di sua regressione generalizzata a quella fase detta “dello specchio” che qualifica tanto il funzionamento della mente psicotica quanto quello, per certi versi, della mente infantile. La psiche in via di sviluppo, infatti, condivide con quella psicotica l’assenza di solidi punti di riferimento simbolici, l’assenza di stabili identificazioni dell’io. In un contesto del genere non è di certo il padre a essere causa, in quanto assente o evaporato, dello sfaldarsi dell’universo simbolico e dello sfibrarsi della tenuta sociale garantita da saldi punti di riferimento. Più che di “declino sociale dell’imago paterna”, forse, converrebbe allora porre l’accento, per quanto riguarda l’eziopatogenesi delle psicopatologie contemporanee, sulle trasformazioni tecnologiche o sullo strapotere esercitato dagli oggetti – dalla fascinazione per lathousa, se volessimo parlare in lacanese. Ciò che qualifica la condizione sociale contemporanea è infatti probabilmente più simile a una sorta psicosi collettiva, una specie di schizofrenia che va a braccetto con le dinamiche di sfruttamento, iper-consumo e iper-produzione come preconizzato da Deleuze e Guattari in quegli stessi, ruggenti anni in cui Lacan teneva il suo seminario. Ma si tratta di una deriva che, se concepita al netto della retorica rivoluzionaria e neanche troppo velatamente celebrativa della quale i due filosofi sopracitati hanno sempre ammantato la psicosi, può essere intesa come un grande processo di infantilizzazione su larga scala, di regressione generalizzata, che elicita quella dimensione ancestrale e neotenica dell’uomo da intendersi quale vera e propria condizione trascendentale dello psichismo. D’altronde Freud e Lacan hanno ripetuto instancabilmente che “Il bambino è il padre dell’uomo” (anche se la citazione è tratta da The rainbow, una poesia di W. Wordsworth). Sembra proprio che sia a partire da qui, allora, che Lolli ci invita a riconsiderare il rapporto che intercorre tra attualità e inattualità della psicanalisi, tra sintomo e struttura del disturbo psichico:
«Quelli che vengono considerati nuovi sintomi sono, in realtà, forme “aggiornate” alle dinamiche storiche contemporanee del medesimo meccanismo. Basta grattare l’involucro del sintomo per vedere apparire, al di sotto della superficie fenomenica, la questione che inquieta l’essere umano da sempre: come conciliare l’esigenza di soddisfazione personale del proprio desiderio (sostenuta – ed è questa la peculiarità che possiamo rinvenire nell’attualità – dall’enunciato del discorso sociale) con le richieste alla rinuncia della piena soddisfazione (sulla quali l’economia capitalistica si regge, per rinnovare infinitamente il circuito di produzione della merce da cui dipende)» (p. 152).
E di qui sorge infine una duplice necessità. Anzitutto occorre aggiornare la pratica psicoanalitica ai nuovi bisogni insorti negli ultimi decenni, bisogni che Freud non poteva assolutamente prevedere. Lolli definisce “Psicanalisi applicata” questo nuovo modo, più attivo e in un certo senso più “interventista”, di condurre la cura. L’analista, per esempio, ora non riceve solamente ma induce la domanda d’analisi in soggetti che, seppur bisognosi, si rifiutano di formulare una richiesta di aiuto. Ma il nuovo analista è anche chiamato ad assume una postura più elastica e non è più costretto nella sua posizione di ricettore imperturbabile dei patemi dell’analizzante: egli partecipa attivamente alla discussione (laddove la psicoanalisi, a differenza di altre strategie terapeutiche, prevede appunto un suo ritiro, una sorta di sua scomparsa) ed è anche a chiamato a farsi carico della costruzione del transfert e del rinforzo dell’Io, indebolito dalla difficoltà che i nuovi analizzanti (i nuovi “domandanti”, come li chiama Lolli) riscontrano, come abbiamo visto, al livello delle possibili identificazioni offerte dai contesti culturali privi di saldi basamenti simbolici. Anche la mutazione del setting, degli orari e della cadenza delle sedute necessitata dalla nuova scansione del tempo imposta dai ritmi produttivi delle società post-industriali è un’altra trasformazione necessaria, così come lo è la necessità di istituire la seduta come luogo di un sapere possibile, valorizzabile, e non come un semplice “muro del pianto”. La professione praticata da Lolli e da ogni psicanalista permette, in breve, di registrare una sorta di atrofizzazione o di occlusione su larga scala delle potenzialità comunemente attribuite al linguaggio, alla comunicazione e al capire. E va da sé che, se è conclamato che l’efficacia e la tenuta dottrinale della talking cure risentono di tali mutazioni antropologiche, gli psicanalisti siano costretti ad aggiornare il loro strumentario e le loro tecniche di intervento.
La seconda necessità che emerge dalla mutazione antropologica in corso, invece, è relativa al versante opposto a questo, più avanguardista e progressista, e concerne la fedeltà ai testi fondativi, al “testamento spirituale” di Freud e alle fondamenta teoretico – epistemiche della dottrina psicanalitica. In una sorta di movimento enantiodromico, infatti, Lolli accosta alla necessità di una riforma della psicanalisi quella di istituire e di rinforzare la continuità con la tradizione. L’accento qui è posto sulla difesa della centralità della sessualità nella patogenesi del sintomo, sull’esistenza di ciò che Freud ha definito Unbewusstein (un sapere, lacanianamente strutturato come un linguaggio, che è posseduto dal soggetto ma del quale l’Io non è al corrente), sul potere terapeutico del Transfert e sull’importanza capitale da attribuire a Thanatos, ovvero alla pulsione di morte. Tutti questi elementi, infatti, definiscono il nucleo concettuale del lascito freudiano e animano la prorompente forza euristica che caratterizza l’analisi dell’inconscio classicamente intesa.
Solo grazie all’appiglio sicuro garantito da questi punti saldi è possibile, infatti, rilanciare la partita terapeutica ed euristica della psicanalisi – e solo grazie alla reiterazione di un gesto inattuale qual è quello del “ritorno a Freud” promosso da Lacan, sembra dire Lolli, è allora possibile rendere attuale quel discorso che mira al fondo oscuro, indecifrabile e opaco del soggetto parlante e che si cura solo della singolarità, dell’eccezione e della verità di ognuno, della verità dell’uno-per-uno:
«L’analista inattuale non vede nella condizione psicopatologica di chi riceve le conseguenze del declino del padre, dell’assenza del limite, dell’educazione permissiva o della scomparsa dell’autorità. Egli vede, piuttosto, un soggetto alle prese con il compito che impegna qualunque essere umano. Con la differenza che, nella specificità dell’epoca storica nella quale l’incontro si svolge, il compito di trovare un accordo possibile tra le esigenze pulsionali e le esigenze della civiltà è reso più complicato dall’inganno fondamentale che sostiene il regime consumistico-capitalistico. Il quale, nella logica perversa che lo contraddistingue, autorizza il cittadino a pretendere il massimo della soddisfazione (affermandone l’assoluto diritto) e, contemporaneamente, progetta e applica programmi di frustrazione del desiderio stesso, necessari alla macchina produttiva affinché la domanda di consumo non cessi mai» (p. 188).
Lea Melandri affronta i temi che nel corso della sua carriera di pensatrice hanno segnato i momenti più significativi della sua vita e della ricerca, dall’infanzia fino alla scoperta del femminismo, passando per l’incontro con il movimento non autoritario nella scuola. Una narrazione che, partendo dai vissuti personali, mette a fuoco gli snodi culturali, e storici, della società, come la dinamica di potere tra i sessi, la lotta per il riconoscimento, il sogno d’amore e la violenza, l’educazione e, più in generale, il rapporto tra individuo e collettivo, un intreccio sempre presente anche nel privato delle stanze. Vita e pensiero che hanno fatto del fuori tema, inteso come il rimosso e l’escluso, la cifra specifica di una ricerca che ha attraversato la cultura degli ultimi cinquant’anni, restando fedele a quel movimento di pensiero oltre che di liberazione che è stato il femminismo, oggi ancora attuale.
Lea Melandri (Fusignano, 1941) – L' infamia originaria. Facciamola finita col cuore e la politica (L’erba voglio 1977), Come nasce il sogno d’amore (Rizzoli 1987, Bollati Boringhieri 2002), Una visceralità indicibile. La pratica dell'inconscio nel movimento delle donne degli anni Settanta (FrancoAngeli 2000), Le passioni del corpo. La vicenda dei sessi tra origine e storia (Bollati Boringhieri 2001), Preistorie. Di cronaca e d'altro (Filema 2004), La perdita (Bollati Boringhieri 2008), Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà (Bollati Boringhieri 2011).