Cos’è uno scandalo ̶ a cura di Filippo D’Angelo ̶ raccoglie scritti inediti in traduzione italiana di Roland Barthes. Si tratta di testi composti tra il 1933 e il 1980, anno della morte dell’autore, che percorrono, quindi, tutta la sua vita. Nella raccolta sono presenti testi critici, riflessioni su sé stesso, la letteratura, la scrittura, l’arte, la fotografia, la musica. Nella Postfazione, il curatore sottolinea che «i testi di questa antologia appartengono a una vena apparentemente minore di Barthes, quella che si snoda tra i diversi volumi pubblicati in vita» (p. 210). È probabilmente per tale ragione che gli scritti qui tradotti sono passati a lungo inosservati in Italia, dove, invece, circolano già da tempo in traduzione i saggi più famosi e organici dell’autore. Eppure, nei testi qui riuniti è possibile cogliere un atteggiamento tipicamente barthesiano, cioè il legame della sua scrittura con il frammento, il commento, il diario, la scrittura “minore”, che, come sottolinea egli stesso ne La Cronaca, non indica un genere più basso, ma «un genere come un altro» (p. 190). La stessa scrittura frammentata, che sembra rappresentare il filo conduttore della raccolta, è presente anche nelle opere barthesiane più acclamate dalla critica: per fare un esempio, uno dei testi che ha avuto grande successo è Frammenti di un discorso amoroso, che propone una narrazione spezzata da vocaboli giustapposti in ordine alfabetico su cui Barthes si sofferma e da cui costruisce il suo discorso, rompendo, in questo modo, la narrazione. In Cos’è uno scandalo accade la stessa cosa, le differenze sono nella dilatazione dei tempi di scrittura (poiché il volume percorre tutta la vita dell’autore) e nella grande varietà di temi trattati.
La raccolta si apre con Primo testo, del 1933, anno in cui Barthes aveva appena diciotto anni. L’autore stesso ci ritorna anni dopo, nel 1972, e sottolinea come si tratti di un testo lontano da ciò che egli è diventato negli anni, ma che gli ha permesso di «rappresentare sulla scena di un breve scritto» (p. 13) tutti i linguaggi conosciuti grazie alle letture effettuate. Barthes è un grande lettore: tra 1930 e il 1934 ha già iniziato a leggere i più grandi scrittori francesi, tra cui Mallarmé, Valéry e soprattutto Proust. Primo testo permette, allora, di guardare il primo tentativo di scrittura di un giovane che aveva letto molto, e che si accingeva a diventare un grande saggista.
Un testo che sottolinea la passione di Barthes per la lettura è Il piacere dei classici (1944), in cui sostiene l’idea che i classici abbiano la capacità di parlare al lettore: «Non parlano mai di loro, ma di noi. Hanno posto la propria arte nell’economia dei pronomi personali» (p. 43). Afferma, inoltre, che l’eternità dei classici non sta solo nel contenuto dell’opera, nell’aver «trovato la verità», ma nell’«averla detta bene, ossia in forma incompleta, che è un abile modo di rispettarla» (p. 44). Barthes pone l’attenzione su quanto sia importante scrivere bene: «I problemi di retorica non sono né particolari, né accessori, né inutili; l’arte di parlare bene governa in modo determinante le operazioni essenziali della vita: è la chiave di tutte le superiorità» (p. 47). Pur conservando sempre l’interesse per l’attualità e i moderni, Barthes rivela il suo amore per i classici. Per lo scrittore questi ultimi «sono degli inneschi. Conta ciò che promettono» (p. 50). Il suo legame con la letteratura in generale lo porta, inoltre, a scrivere numerosi testi di critica letteraria. Nel presente volume ne sono riportati alcuni, come Appunti su André Gide e il suo Diario (1942), in cui è interessante notare come Barthes preferisca una scrittura frammentata per il «timore di rinchiudere Gide in un sistema» che non l’avrebbe mai soddisfatto (p. 21). Il testo si sgretola, presentandosi come una serie di appunti a margine del Diario. L’attenzione di Barthes per Gide è la stessa che ha per sé stesso: in Barthes di Roland Barthes (1975), dall’idea autobiografica iniziale finisce col comporre una sorta di diario in forma di frammenti e rivendica il suo diritto a essere un soggetto, cercando di distruggere così una certa immagine stereotipata che ci si può fare degli scrittori. Questo tentativo fallisce in Barthes, poiché egli continua a sentirsi incastrato dalla scrittura, ma permette di cogliere il suo interesse per l’uomo in quanto individuo unico, non richiudibile in un sistema ̶ linguistico ̶ predefinito. Il Diario di Gide viene descritto da Barthes come un’opera egoista, un tentativo di riflettere su sé stesso, in cui è possibile cogliere, tra i tanti temi affrontati, il suo amore per i classici, ma anche un elemento mistico, il cristianesimo di Gide «legato al suo destino personale» (p. 30). Per Barthes, quindi, «nel Diario di Gide il lettore troverà la sua etica, la genesi e la vita dei suoi libri, le sue letture, i fondamenti di una critica della sua opera; ma anche i silenzi, delicati guizzi d’intelligenza o di bontà, minute confessioni che fanno di lui l’uomo per eccellenza» (p. 21).
Come sottolinea Filippo D’Angelo, una delle due anime di Barthes, insieme con quella gidiana, è rappresentata da Proust. In Cos’è uno scandalo, allora, non possono mancare riferimenti a quest’ultimo, che troviamo in Le vite parallele (1971)e La maionese monta (1979). Nel primo, Barthes analizza e rifiuta l’associazione ̶ che viene spesso compiuta ̶ tra la vita di Proust e la sua opera, fino ad affermare che, in questo caso, «non è la vita a plasmare l’opera, ma l’opera a irradiarsi ed esplodere nella vita» (p. 107) e, di conseguenza, «il mondo non fornisce le chiavi del libro, è il libro che apre il mondo» (p. 107). Barthes ribalta il rapporto tra la vita e l’arte di Proust. Nel secondo testo, si chiede cosa abbia portato il romanziere, che nei primi anni di vita non era riuscito a scrivere, a produrre un’opera di così grande portata, come la Recherche. Barthes confuta l’idea secondo cui il romanzo sia nato come conseguenza del trauma per la morte della madre. Al contrario, sostiene che lo scritto proustiano abbia iniziato a prendere forma attraverso una serie di tecniche come «una certa maniera di dire “io”», «una “verità” (poetica) dei nomi» (p. 195), ma anche l’idea di «conservare gli stessi personaggi» (p. 196). Anche in questo caso è interessante notare come la penna di Barthes vada a rompere quell’immaginario in cui i critici tendono a cristallizzare un autore. È proprio distruggendo quest’ultimo che egli può restituire a Proust la propria individualità. Il secondo testo sullo scrittore della Recherche assume un carattere più personale, perché, negli ultimi anni di vita e in seguito alla perdita materna, Barthes aveva pensato a un romanzo, che si sarebbe dovuto intitolare La vita nova, ma nel suo caso la maionese non è montata.
Tra i testi della raccolta troviamo Michelet, la Storia e la Morte (1951). Si tratta di uno scritto di ampio respiro in cui Barthes si esprime sulla visione della Storia attribuibile a Michelet. Interessante, in tal senso, è l’idea per cui «per Michelet, le radici della verità storica sono i documenti in quanto voci, non in quanto testimoni» (p. 71), perché «più il documento si avvicina a una voce, meno si distacca dal corpo umano che l’ha prodotto, diventando il vero e proprio fondamento della credibilità storica» (p. 72). È attraverso questa voce che lo storico può riportare in vita il corpo del popolo. Egli in questa prospettiva ha il duplice compito di «recitare il dispiegamento della Storia» (p. 73) e di unire «al ricordo dei morti il senso della loro vita, restituendo loro una memoria universale sul piano della Storia» (p. 73). Barthes dà grande importanza a questo legame che intravede tra Michelet, la voce e il corpo dei personaggi storici, perché attratto dal corpo come «fondamento di ogni vera scrittura» (p. 209). Secondo Filippo D’Angelo questo saggio porta Barthes a considerare lo storico «in quanto artefice di una secolarizzata ressurrectio carnis» (p. 209). Anche in questo caso appare evidente la necessità dell’autore di aderire a una scrittura attenta al singolo, al corpo, all’individualità di ognuno, per arrivare a una «scienza del soggetto» che pervenga «a una generalità che non […] riduca e non […] annienti» l’uomo (La camera chiara, Einaudi, 2003, p. 20). Questo saggio, inoltre, come spesso accade nella produzione barthesiana, si riaggancia a opere più strutturate come Michelet par lui-même del 1954.
In Cos’è uno scandalo, oltre a scritti di carattere letterario e storico,sono presenti testi sull’arte e sulla fotografia. Si tratta di Matisse e la felicità della vita (1955), Il grado zero della colorazione (1978), Bernard Faucon (1978). Tali testi permettono di osservare la quantità di ambiti a cui la scrittura di Barthes si apre. In particolar modo è interessante l’attenzione dello scrittore per la fotografia e l’analisi del lavoro di alcuni fotografi. Nel 1980, infatti, due anni dopo il saggio su Bernard Faucon, Barthes dà alle stampe La camera chiara, uno scritto interamente dedicato alla fotografia. Il testo del ‘78 permette di cogliere, allora, il lavoro dello scrittore che si amplia fino a raggiungere la forma di un saggio, quello del 1980, interessato a sua volta a cogliere gli aspetti più importanti della fotografia, partendo proprio dallo studio del lavoro di alcuni fotografi come Faucon.
Il volume non presenta solo testi di critica letteraria, ma anche una lettera, Frammenti per H. (1977), indirizzata a Hervé Guibert. Ritroviamo la forma frammentata, attraverso cui Barthes scrive di argomenti come il desiderio, la sensualità e l’innamoramento. La struttura della lettera sembra permettere all’autore di esprimersi con maggiore libertà, rispettando sé stesso e la chiarezza del suo ragionamento, senza dover incasellare quest’ultimo nelle maglie di un discorso ordinato.
Sempre in forma frammentata, ma di respiro più ampio, è La cronaca (1979). Si tratta di una sorta di diario, in cui Barthes appunta pensieri, sensazioni, idee, richiamando alla memoria, ancora una volta, Barthes di Roland Barthes (1975). Il testo termina con un frammento intitolato Pausa, in cui l’autore afferma: «queste cronache sono un modo per far parlare (senza esplicitarlo, ovviamente) le voci diverse che mi compongono. In un certo senso, non sono io che le scrivo ma un insieme, volentieri contraddittorio, di voci: voci di esseri che amo e di cui prendo in prestito i valori, voci ideologiche del borghese, piccoloborghese o “brechtiano” che posso essere di volta in volta, voci arcaiche, fuori moda, voci dell’idiozia» (p. 191-192).
Scrivere per Roland Barthes è proprio questo: dare voce a diverse parti di sé, senza costringersi a mettere ordine nei pensieri, o a doverli inserire in un testo organico. E questo perché, come egli stesso puntualizza, ha «concepito la scrittura come la forza del linguaggio che pluralizza il senso delle cose e, alla fine, lo sospende» (p. 192).
Cos’è uno scandalo, nella sua eterogeneità, mette bene in evidenza due elementi appartenenti alla penna e al pensiero di Barthes: da un lato l’attenzione al frammento, dall’altro l’interesse per il soggetto in quanto individuo composito e irriducibile. Questi temi sono due facce della stessa medaglia, perché è proprio attraverso il frammento, spezzettando la scrittura, che l’autore si propone di raggiungere l’obiettivo di non schiacciare l’individualità di ogni uomo nelle maglie del linguaggio. Barthes non può rinunciare alle sue voci, diverse, a volte contraddittorie, e il linguaggio segue questa volontà. È in tale ottica che questi saggi svelano tutto il loro interesse, insieme con la possibilità di seguire le idee e i pensieri di Roland Barthes, mantenendo viva l’attenzione su quello che ancora oggi possono rivelare al lettore.
di Roberta Deliso