Se i poeti sono i legislatori non riconosciuti del mondo, gli scrittori di fantascienza sono i suoi buffoni di corte. Noi siamo Pazzi Saggi che fanno capriole, pronunciano profezie e si grattano in pubblico. Possiamo scherzare delle Grandi Idee perché le nostre sgargianti origini nelle riviste popolari ci fanno apparire innocui. Come scrittori di fs abbiamo ogni ragione di godercela: abbiamo influenza senza responsabilità. Pochissimi si sentono in obbligo di prenderci sul serio, e tuttavia le nostre idee penetrano nella cultura, si diffondono in maniera invisibile come una radiazione di fondo.
Questi due paragrafi formano l'incipit della prefazione di Bruce Sterling alla raccolta di racconti di William Gibson dal titolo La notte che bruciammo Chrome. E' la dichiarazione poetica di uno dei nomi più importanti della fantascienza cyberpunk, premessa a quella che è forse la prima raccolta di racconti cyberpunk prodotta dall'indiscusso padre di questo filone fantascientifico produttivo e visionario, e contiene una delle intuizioni più utili a concepire il funzionamento non solo della letteratura, ma dei segni e della loro propagazione nella semiosfera – concetto che con la sua maggiore fluidità e una metaforica spaziale assolve nel contemporaneo il ruolo che nella modernità toccava alla cultura. Come una “radiazione di fondo”, ci dice Sterling, le idee che trovano spazio all'estrema periferia del campo letterario, in un genere nemmeno degno fino a qualche decennio fa di essere incluso nella definizione di letteratura, e tutt'al più tollerato come passatempo, espandono il campo sul quale si esercitano al punto da dimostrare una capacità di penetrazione ineguagliata persino dai tentativi più lucidi e consapevoli di esercitare una forma di influenza sulla realtà. Il cyberpunk, genere di nicchia se mai ce ne fu uno, anticipa di anni non solo le tecnologie – inventando la rete prima della rete, e le biotecnologie prima delle biotecnologie – ma anche le forme di vita urbane ed economiche.
Ma non vi è solo una certa ironia, nel fatto che tante intuizioni penetranti si siano concentrate in una serie di romanzi, piuttosto che nelle proiezioni assai più serie di scienziati e filosofi. Ciò che Sterling sembrerebbe suggerire, anzi, è che proprio il ruolo defilato, estremamente libero di chi scrive romanzi universalmente considerati irrilevanti dal punto di vista letterario, come la fantascienza fino a tempi assai recenti, permette uno sfruttamento pieno delle potenzialità dell'immaginazione.
Messi di fronte al fatto compiuto della trasformazione tecnica delle nostre vite, che la sci-fi ha da lungo tempo subodorata, non possiamo fare oggi a meno di chiederci come è divenuta possibile questa preveggenza contemporanea, e cercare di indagarne i metodi – se ve ne sono – e le possibilità. In più, occorrerà domandarsi che cosa ci dice davvero la fantascienza sul futuro, sul presente, sulla trasformazione dell'umano?
Benché uno sviluppo coerente e completo di questi temi richieda un tempo ben più lungo di quello che una rubrica come questa – notoriamente consumabile in piedi – può permettersi di esigere dai lettori, proveremo a rispondere a queste domande, e starà a voi scusare la lunghezza con l'interesse, o la povertà dell'elaborazione con la fretta.
Una prima spiegazione della chiaroveggenza della fantascienza ha a che fare con il puro gioco: laddove è permesso e anzi consigliabile lasciarsi alle spalle ogni preoccupazione di serietà, ci si può muovere con la più grande disinvoltura. Protetto dalla cornice della fiction, un autore di romanzi non deve difendere le sue posizioni, motivare proiezioni, addurre dati, studi precedenti, né gli è richiesto il consenso della comunità scientifica. Può utilizzare ciò che sa giustificare, ma anche ciò che non sa giustificare, o anche solo ciò che gli sembra di sapere, cercando di costruire una storia coerente.
In più, libero di ogni scrupolo morale nei confronti dello scenario della propria narrazione, può essere spietato nell'immaginare le conseguenze paradossali del progresso. Il mondo della narrazione gira in folle, in esso il dolore non deve essere elaborato, esorcizzato attraverso procedure retoriche, preso in carica da una coscienza capace infine di risolverlo. La tragedia è l'elemento stesso che fa procedere la storia: spietato, il romanziere è autorizzato a frugarne spudoratamente le viscere. E' questo un atteggiamento impossibile da tenere per uno scienziato nell'esercizio delle sue funzioni, e assai improbabile anche per un filosofo, che per quanto scandaloso o cupo deve pur sempre assicurare alla sua opera un finale edificante, non foss'altro che il rinnovato atto di fede nei confronti dell'essere umano.
La sospensione dell'incredulità che incornicia il laboratorio del romanziere gli permette una felice assoluzione: l'opera non entra nel discorso, e dunque non è soggetta all'ingombrante fardello della verità. Al tempo stesso, essa si sottopone a un diverso test: quello dei lettori. Tali lettori – lo dimostra una certa persistente scollatura fra il giudizio di critica e quello di pubblico – scelgono, apprezzano e rigettano non in base a categorie formali o tematiche, ma secondo regole di attrazione e repulsione più profonde, che hanno a che fare col desiderio.
A tal proposito possiamo ricordare che proprio all'inizio di Vita activa, ormai divenuto un classico della filosofia contemporanea, una parentesi illuminante di Hannah Arendt recita: “La novità era soltanto che uno dei giornali americani più rispettabili riportò in prima pagina ciò che era confinato fino ad allora in una letteratura non precisamente rispettabile, la fantascienza (alla quale, purtroppo, nessuno ha ancora dedicato l'attenzione che merita come veicolo di desideri e sentimenti di massa).”
Nelle parole della Arendt ritroviamo la dicotomia che abbiamo accennato: espulsa dal senso comune – ancora oggi il termine nerd conserva il vago sentore dello stigma sociale che accompagnava gli occhialuti secchioni che ora governano il mondo – la fantascienza affonda le radici nel sentire comune, e forse vi è qualcosa di essenziale nella connessione fra l'indecente, il non rispettabile, e il desiderio e sentimento collettivo che di preferenza vi si riversa.
Come risultato di tutto ciò, troviamo nella migliore fantascienza non solo una spiccata dote di chiaroveggenza riguardo alle successive trasformazioni tecnologiche, ma anche e soprattutto la capacità di riconoscere tali trasformazioni come attinenti l'umano. Il cyberspazio, per decenni pensato nella realtà come opportunità di “scambio di informazioni”, appare fin dall'inizio nella letteratura cyberpunk per quello che ha cominciato ad essere solo da un decennio: la tentazione di evadere dalla propria gabbia di carne per vivere una vita espansa, disincarnata, sublimata attraverso nuvole sfavillanti di dati, incontrando gli altri solo sulla superficie liscia della matrice.
Allo stesso modo, è il cyberpunk a segnare una frattura mai letta abbastanza in profondità con la fantascienza riguardante mondi nei quali la scienza ha “risolto” la realtà o l'ha trasformata in un incubo totalitario. Nei bassifondi abitati da cyborg tossicodipendenti, si mette in scena un mondo nel quale il grande capitale dipende dall'esistenza di spazi deregolamentati almeno quanto dall'esistenza di luoghi disciplinati, e in cui il potere non passa attraverso l'eliminazione dei margini incontrollabili, ma attraverso la loro funzionalizzazione nell'orizzonte di una rivoluzione tecnologica continua. Fra gli agglomerati burocratici, tecnologici e finanziari formati dalle multinazionali, i punk del cyberspazio sono coloro che si muovono sfruttando minuscoli spazi di manovra, vivendo vite di straforo, contando solo sul proprio talento e coraggio per un colpo gobbo che ha il sapore del riscatto esistenziale.
Nessun genere letterario, si può dire, cattura altrettanto bene la precarietà come condizione esistenziale, né la biopolitica come orizzonte definitivo del potere. Il destino dell'umano, nell'epoca del cybercapitalismo, è lì ad aspettarci, messo su carta ormai già venticinque anni fa.
Per fortuna è solo fantascienza.
di Lorenzo Palombini