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La genesi della filosofia può essere rintracciata in un doppio movimento: da un lato essa si pone come discorso sulla verità, dall’altro tenta di escludere la doxa come suo succedaneo, un’ombra rispetto al sole della verità. La filosofia, come luogo dell’episteme, vorrebbe porsi come discorso sulla verità che si colloca (stenai) sopra (epi) le opinioni, la storia e la contingenza. Il concettuale sarebbe così l’elemento chiaro e distinto capace di purificare l’opacità e l’equivocità del discorso che lo articola, ponendo così ai margini il momento comunicativo e retorico in quanto prezzo da pagare per giungere alla verità: una scala da buttare giù una volta raggiunto il piano dell’ideale. Ecco che il momento retorico è così degradato a semplice mezzo, un’ombra di esteriorità, di contaminazione con ciò che è fattuale, ossia storico: un’ombra che il sole della verità promette di dileguare. La lotta tra filosofia e retorica si configura dunque come una lotta di legittimazione; si pensi allo scontro – non solo teorico ma anche politico – tra Platone e i sofisti, i quali, incapaci di mostrare la luce del sole del vero sapere, si accontentavano di offrirne la parvenza, l’artificialità, attraverso l’abilità retorica – cioè una tecnica che mira soltanto ad abbellire, per accennare ad altri due grandi esclusi dal discorso epistemico. Tale lotta di legittimazione non si gioca mai semplicemente sul piano teorico, ma coinvolge il modo in cui questa prende forma, viene articolata e strutturata. In altre parole, i rigidi confini che il discorso filosofico, come discorso sulla verità, si pone non sono mai semplicemente teorici, bensì sempre legati alla retorica che i filosofi, inconsapevolmente o meno, non possono fare a meno di usare, pur cercando di presentare il loro discorso come radicalmente separato da quest’ultima. Nicola Zambon
Su questo argomento scivoloso e pericoloso, tanto per la filosofia – impegnata a mantenere rigidi i confini tra sé e il proprio altro – quanto per il filosofo che se ne occupa – sempre a rischio di trovarsi dalla parte dei sofisti –, si situa il testo di Nicola Zambon, Persuasione ed evidenza. Sul rapporto tra retorica e fenomenologia in Husserl, Heidegger e Blumenberg (Inschibboleth, Roma 2024). Zambon, curatore di numerosi inediti di Blumenberg, muovendosi a partire da questi complessi nodi teorici, affronta il rapporto tra retorica e filosofia all’interno della tradizione fenomenologica in un’ottica non soltanto ricostruttiva ma anche pienamente, e fruttuosamente, teorica. L’ossessione della filosofia per l’evidenza e per la claritas del suo discorso non fa spazio qui alla semplice inversione del rapporto – rendendo, come accade in Nietzsche, filosofia e retorica omogenee –, bensì ad una proposta più articolata: «la filosofia deve aspirare ad essere più che mera retorica, non può derogare da questa pretesa senza tradire se stessa; al contempo, essa è sempre e inevitabilmente anche retorica» (p. 14). Questo rappresenta dunque il tentativo di ridare centralità alla retorica come, secondo un’espressione di Blumenberg, “tutto ciò che rimane al di qua dell’evidenza”. Zambon indica qui la necessità di concepire la filosofia come più accorta riguardo ai mezzi che usa: il retorico o, in altri termini, il metaforico, lungi dal rappresentare il fatale intorbidimento di un discorso, quello filosofico, che si pretende puro (ma che deve necessariamente scendere a patti con l’esteriorità della comunicazione), ne è un intimo alleato. Prova di questa alleanza sia la metaforologia di Blumenberg, che permette di leggere la filosofia come la lotta teorica intorno alle proprie metafore, che non sono quindi semplici abbellimenti del discorso, ma i luoghi delle svolte più profonde di un pensiero, gli archi di volta di un edificio concettuale. Questo movimento permette così di dare voce al metaforico all’interno del filosofico, affrontando l’utilizzo delle metafore con gli strumenti della filosofia e offrendo una critica filosofica alla retorica, di cui Zambon fornisce un esempio nella parte finale del testo, dedicata ad Heidegger e alla retorica dell’autenticità.
Il testo mostra come lo spazio per questa discussione si apra a partire dal fallimento husserliano di una logica pura, cioè l’impossibilità di un ritorno ad un «“fondamento originario” dell’intuizione sul quale ogni sistema simbolico deve poggiare» (p. 23). Proprio in questo tentativo potrebbe situarsi il “peccato originario” della fenomenologia di Husserl: la riduzione del momento retorico-comunicativo e, quindi, l’opposizione tra logica e retorica. La retorica risulterebbe così nuovamente esclusa come opacità, cioè come una perdita di evidenza che si pone dal lato dell’espressione, elementi da purificare per raggiungere la circolarità del significato nel monologo interiore dell’anima con sé stessa. Il fallimento di questa purificazione è ciò che concede il diritto di cittadinanza filosofica alla retorica. L’impossibilità che tutto poggi sull’intuizione è a sua volta l’impossibilità dell’univocità: se «il linguaggio adempie alla sua funzione comunicativa originaria» (p. 39), ciò implica l’impossibilità di escludere il fattuale e lo storico, e cioè che il solipsismo, che tanto occupò Husserl, è da sempre infestato dall’intersoggettività e dalla fattualità di una lingua che lo articola al di qua dell’evidenza.
Il superamento di questa problematica viene affrontato da Zambon nei capitoli successivi: prima in Heidegger e, poi, in Blumenberg. Questi due autori condividono infatti numerosi punti di contatto, sicuramente più di quanto il ritorno di Blumenberg ad Husserl in chiave «anti-heideggeriana» (p. 141) faccia pensare. In entrambi si ritrova la critica all’impostazione cartesiana e alle sue conseguenze rintracciabili nel solipsismo e nella distanza tra soggetto e oggetto. In particolare, per entrambi la questione è quella dell’epochè, «espressione dell’indifferenza del metodo husserliano verso questo mondo fattuale, la sua storia e le sue contingenze» (p. 106). In molti di questi aspetti forse Blumenberg è più vicino ad Heidegger di quanto spesso egli non voglia ammettere: se, come nota Zambon, «il dilemma cruciale dello sforzo husserliano» (p. 117) è per Blumenberg l’indessicalità e l’occasionalità del linguaggio – e le loro profonde radici pragmatiche –, ciò non può che fare eco al Da-sein heideggeriano, la cui scelta terminologica, lungi dall’essere mero artificio, rappresenta esattamente il gesto di porre la situatività all’interno della costituzione del soggetto. Anzi è proprio questo gesto ad aprirlo alla storicità della lingua e al suo fondamentale elemento retorico – come ricorda giustamente anche Zambon, la Retorica di Aristotele rimane per Heidegger un testo fondamentale nel distacco dal maestro Husserl.
Al fine di superare in maniera radicale la luce dell’evidenza fenomenologica, il discorso heideggeriano si rivolgerà ad una Phänomenologie des Unscheinbaren, cercando di ritrovare una vicinanza tra pensiero e poesia e trasformando entrambi i termini della relazione: la filosofia non è più il luogo della purezza dell’evidenza e la poesia non è più soltanto quello di un mero piacere estetico. Questa trasformazione, purtroppo, avrà numerose radici ma pochi frutti, lasciando spesso l’idea che la filosofia debba finire ad assumere i toni oracolari, e quasi sofistici, del filosofo che ha scoperto il potere della retorica, un sentiero interrotto, per quanto spesso copiato e ripetuto da numerosi studiosi che ne hanno subito il fascino e hanno cercato di copiarne lo stile – questione, quella dello stile in filosofia, che il libro di Zambon permetterebbe di pensare proprio per la vicinanza essenziale tra retorica e filosofia.
Se l’ultimo Heidegger sembra dunque rivolgersi verso sentieri che forse soltanto lui potrà percorrere, il ritorno di Blumenberg ad Husserl rappresenta una fedeltà ad Husserl necessariamente oltre Husserl, cioè un «approccio genuinamente descrittivo» (p. 138). Come mostra Zambon, ciò significa rettificare il metodo husserliano, allergico all’opacità della retorica, senza però spegnere la necessità epistemica nella radura heideggeriana. Voler salvare, pur rettificandolo, il metodo husserliano, accogliendo e superando i guadagni heideggeriani della fatticità del soggetto e dell’impossibilità di ridurre il linguaggio ad un’univocità ideale, significa tuttavia approfondire tale fatticità come «fatto biologico» (p. 135). In altre parole, significa radicare la possibilità del linguaggio come medium tanto dell’evidenza quanto dell’opacità nella storia evolutiva della nostra specie. Da questo punto di vista,il richiamo alla storia evolutiva, e quindi ad un dialogo con l’antropologia, è la sfida che Blumenberg (e Zambon) rivolgono tanto ad Husserl quanto ad Heidegger – entrambi avversi a quello che può essere troppo facilmente escludibile come una tentazione psicologista, nome di un altro grande escluso dalla filosofia come la retorica. Vale la pena però prendersi questo rischio in modo da non ridursi ad incontrare i fenomeni soltanto quando sono esangui, privi di quella vita che è la storia non di una coscienza trascendentale ma della storia di homo sapiens, il cui mondo si è aperto quando ha iniziato a maneggiare utensili – questione quella della tecnica, non lontana dagli interessi di Blumenberg – e a camminare in andatura eretta.
Questa svolta antropologica, esplorata nel lavoro postumo Beschreibung des Menschen, è una delle sfide principali poste da Blumenberg e Zambon. La mancanza di una traduzione italiana di questo testo non può che acuirsi a partire dalla pubblicazione del testo di Zambon, che mostra la necessità di riprendere il pensiero di Blumenberg, autore che in Italia è stato a lungo messo da parte e che invece, come mostra l’autore, è ben lungi dall’essere superato.
Pietro Prunotto
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Se si considerano le già numerose traduzioni italiane dell’ingente corpus di Bernard Stiegler, colpisce come soltanto recentemente sia stato tradotto il primo volume di Tecnica e tempo, La colpa di Epimeteo (Luiss University Press 2023), uno dei suoi testi principali. La pubblicazione, considerando il valore fondativo che riveste nella produzione stiegleriana, rappresenta – riprendo l’espressione di Paolo Vignola, curatore del testo, nonché di molte altre opere di Stiegler – un “supplemento necessario” per la comprensione del filosofo da parte del lettore italiano. Come osserva Vignola nella prefazione, le numerose traduzioni già presenti in Italia si sono spesso limitate a testi autobiografici o di occasione, causando nel lettore «un appiattimento del pensiero stiegleriano sulla sua componente più sensazionalistica, di attualità o in certi casi militante» (Vignola 2023, p. 10), oscurando però la dimensione schiettamente filosofica da cui traggono origine. Data questa particolare situazione editoriale, la traduzione italiana di La colpa di Epimeteo permette al lettore di affrontare la componente strettamente teoretica del pensiero di Stiegler.
Pur rappresentando solamente la prima parte della monumentale serie Tecnica e tempo – in tutto sette libri, di cui tuttavia sono stati pubblicati solamente i primi tre (Stiegler 2018) –, La colpa di Epimeteo contiene il nucleo più strettamente teorico del pensiero di Stiegler, ossia la proposta di rendere la «techne il terzo incomodo tra Natura e Cultura, ma anche tra physis e bios» prendendo quindi in considerazione «contro o al di là della tradizione filosofica, […] questo “altro inorganico”, ossia la materia degli enti tecnici. Si tratta, per Stiegler, della materia inorganica che, nell’essere organizzata dall’uomo, inventa e reinventa costantemente e dall’interno la natura di quest’ultimo, rendendo impossibile stabilire quelle opposizioni dicotomiche di cui si nutre la metafisica occidentale» (Vignola 2023, p. 11). Se fin «dalla sua stessa origine, e fino a ora, la filosofia ha rimosso la tecnica come oggetto di pensiero» (Stiegler 2023, p. 45), l’intento di Stiegler è «pensare in un unico movimento (l’“origine” della) tecnica e (l’“origine” dell’) uomo» (p. 175). Tale movimento – già rintracciabile nella différance derridiana, di cui Stiegler offre una rilettura originale – non si limita a concepire la tecnica come rottura all’interno della vita pura in generale (Derrida 2021), quanto di indicare in questa rottura la genesi stessa dell’uomo come «continuazione della vita con altri mezzi rispetto alla vita» (Stiegler 2023, p. 64). In altri termini, l’uomo compare nel momento in cui compare la tecnica e viceversa. Questa correlazione rappresenta per Stiegler la particolarità dell’homo sapiens, aspetto che forse Derrida avrebbe ritenuto ancora troppo tradizionale (Derrida 2020).
Debitrice di Derrida (Derrida 2015) è invece la strategia messa in atto da Stiegler di leggere in maniera decostruttiva il rapporto che la filosofia occidentale ha intrattenuto – o, meglio, non intrattenuto – con la tecnica, da sempre relegata al polo deteriore di ogni dicotomia, quello fuori dal privilegio spirituale del logos, senza assurgere mai quindi alla piena dignità di una questione filosofica. L’obiettivo è perseguito in particolare attraverso un’approfondita lettura di Heidegger, di cui il titolo della serie – Tecnica e tempo, da accostare a Essere e tempo – sembra essere testimone. Ciò è dovuto alla posizione teorica di Heidegger, a cui Stiegler ascrive il merito di aver indicato l’insufficienza di una «definizione strumentale e antropologica della tecnica» (Heidegger 1976, p. 5). Nell’ottica del filosofo francese, Heidegger non avrebbe tratto tutte le conclusioni del passaggio da una considerazione di quest’ultima come semplice mezzo alla comprensione della sua importanza ontologica: la tecnica rimane comunque identificata come il polo deteriore all’interno della dicotomia con la physis, su cui la tecnica si imporrebbe con violenza. Heidegger rappresenta quindi il pensiero che più di tutti va affrontato e decostruito per ottenere una più profonda comprensione della tecnica. Se per Heidegger alla tecnica è escluso il ruolo di originario, lo scopo di Stiegler è proprio quello di «pensare il tempo nell’orizzonte di una tecnicità originaria come oblio originario dell’origine» (Stiegler 2023, p. 52).
Se tale lettura verrà completata nella seconda parte, la prima, L’invenzione dell’uomo, ne prepara il terreno. Proprio in quest’ultima, attraversando autori come Gille, Simondon, Rousseau e Leroi-Gourhan, Stiegler realizza il definitivo distacco dalla “definizione strumentale della tecnica”. Ciò permetterà di rileggere la tecnica come materia inorganica organizzata, tertium tra materia e forma capace di incrinare l’ilemorfismo, il quale oppone ad una materia inerte e docile la superiorità del logos sovrano che la plasma. Come nel Derrida della Grammatologia, anche qui Rousseau è preso come fulgido esempio delle configurazioni storiche di questa opposizione, diventando il simbolo dell’uscita dell’uomo dalla purezza dello stato di natura. Ecco che la lettura di Rousseau permette così a Stiegler di indicare «per antitesi come tutto ciò che è nell’ordine di quello che di solito si considera propriamente umano sia immediatamente e irrimediabilmente legato a un’improprietà, a un processo di “supplementazione”, protesizzazione o esteriorizzazione, […] dove tutto è mediatizzato e strumentalizzato, tecnicizzato, disequilibrato» (p. 174).
Ciò può avere un valore deteriore soltanto qualora si leggano queste parole alla luce di una comprensione dell’oggetto tecnico come semplice strumento. Qualora invece ci si volga, come fa Stiegler, verso Leroi-Gourhan, si arriva a vedere la questione in altri termini: lo sviluppo della selce è inscindibile dallo sviluppo della corteccia cerebrale; proprio questo «rapporto co-evolutivo dell’uomo e della tecnica» (Vignola 2023, p. 31) è il livello in cui Stiegler situa la différance. Se l’intento di questa prima parte consisteva nell’invenzione dell’uomo, la rilettura della différance permette di approfondire la questione: come va intesa l’ambiguità del genitivo nell’espressione “l’invenzione dell’uomo”? Fra la tecnica e l’uomo, chi occupa il posto del “chi” e del “cosa”? Ecco che la différance permette di pensare al rapporto tra questi termini evitando di dare il primato, qualunque esso sia, a uno dei due: non c’è “chi” senza “cosa”, non si dà cioè un’interiorità spirituale che, intatta e già completamente realizzata, si volge all’esterno per modellarlo. Semmai, quanto appena detto va compreso come il risultato di un unico processo, i cui risultati sono quindi dipendenti, e non opposti, l’uno dall’altro. Come conclude molto chiaramente Stiegler, «l’interno è inventato da questo movimento: non può quindi precederlo. Interno ed esterno si costituiscono quindi in un movimento che li inventa entrambi: un movimento in cui si inventano l’uno nell’altro, come se ci fosse una maieutica tecno-logica di ciò che chiamiamo uomo» (Stiegler 2023, p. 184). L’uomo quindi esteriorizza, tramite lo strumento tecnico, un’interiorità che non preesiste a questa stessa esteriorizzazione.
Epifilogenesi è il nome che viene dato a questa dinamica, ossia lo strappo che separa la nascita stessa e lo sviluppo dell’uomo dalla pura vita organica per affidarlo costitutivamente al tecnico. Se lo strumento tecnico è esteriorizzazione, protesi, questo è per Stiegler memoria esteriorizzata. Ciò significa che accanto alla memoria genetica della specie, e a quella epigenetica dell’individuo, si pone il terzo termine della memoria epi-filo-genetica, cioè appunto lo strumento tecnico, «l’accumulo ricapitolativo, dinamico e morfogenetico (filogenesi) dell’esperienza individuale (epi)» (p. 218) indicando così «la comparsa di una nuova relazione tra l’organismo e il suo ambiente, che è anche un nuovo stato della materia: se l’individuo è una materia organica e quindi organizzata, il suo rapporto con l’ambiente (con la materia in generale, organica e inorganica), quando è un chi, è mediato da questa materia organizzata anche se inorganica che è l’organon, lo strumento con il suo ruolo istruttore (il suo ruolo di strumento), il cosa. È in questo senso che il cosa inventa il chi tanto quanto è inventato da esso» (ivi). Di conseguenza, se non è possibile parlare dell’uomo senza le sue protesi tecniche, e se queste rappresentano la sua memoria epifilogenetica, ciò segnala non solo l’impossibilità di ridurre lo strumento a mezzo, ma anche l’obbligo di concepire la temporalità a partire dalla sua stessa articolazione tecnica, cioè «pensare la relazione tra essere e tempo come una relazione tecno-logica, se è vero che essa si tesse unicamente nell’orizzonte “originario” della tecnica» (p. 175).
La prima parte del testo si chiude, quindi, con la messa in campo di questi strumenti teorici, introducendo così una lettura decostruttiva di Heidegger, compiuta nella seconda e ultima parte del testo. Essa sarà volta a rintracciare in Heidegger l’estremo esempio dell’esclusione della tecnica dal pensiero, dove vengono opposti il «tempo del calcolo (tempo inautentico della misura, del tentativo di “determinare l’indeterminato”) e [il] tempo autentico come rapporto alla morte» (p. 220). Ma Stiegler non si ferma a questo punto, in piena consonanza con l’eredità del maestro (Derrida 1997, 2010) bensì ricava dalla decostruzione di questi concetti heideggeriani lo spazio per un’analitica esistenziale della tecnica, «un’analisi della protesicità» (Stiegler 2023, p. 2020) capace di mostrare come lo strumento tecnico sia inscritto nella costituzione stessa dell’esserci.
Questa nuova analitica della protesicità non potrà più fondarsi, come in Heidegger, sulla favola di Igino, che rintraccia nella Cura la costituzione fondamentale dell’esserci (Heidegger, 2005a, §42), bensì sul mito di Prometeo, e in particolare sulla figura del fratello Epimeteo. Nel mito, e specialmente nella versione del Protagora platonico, Stiegler ravvisa il «legame originale» (Stiegler 2023, p. 223) che tiene uniti tecnica e tempo. Se può stupire che Heidegger non abbia mai parlato di questo mito, se non in maniera cursoria (Heidegger 2005b), maggiormente colpisce la dimenticanza della figura stessa di questo oblio, Epimeteo. È proprio nella vicenda del mito che Stiegler vede la conferma e l’approfondimento di quanto trattato finora: la nascita dell’uomo è dovuta alla colpa di Epimeteo, che dimentica di fornire all’uomo le δυνάμεις per vivere, donandole tutte agli altri animali. Questa dimenticanza è l’origine dell’uomo: «all’origine ci sarà stato solo il difetto, che è appunto il difetto d’origine e l’origine come difetto» (Stiegler 2023, p. 228). Ma Epimeteo, “colui che pensa dopo”, figura della dimenticanza e dell’oblio, è soltanto uno dei due poli dell’origine: questa mancanza viene raddoppiata dall’accorto fratello Prometeo che, rubando il fuoco, dona la tecnica all’uomo. Questo dono porta con sé i tratti del suo donatore: tramite la tecnica l’uomo si costituisce, può prevedere e progettare il proprio esistere, essendo entrato nel tempo. Ecco che il dono di progettare, quel legame che Heidegger rintraccia tra il Dasein e la propria la morte, non viene soltanto legato alla tecnica, ma indicato altresì come risultato di questo oblio, cioè la colpa di Epimeteo. Il tecnico si riconferma così come inscindibilmente legato alla temporalità, questa declinata nelle figure dei due fratelli come oblio e preveggenza, ma quindi anche come mortalità. Se Heidegger si incentra, per il privilegio dell’essere-per-la-morte e quindi del futuro, sul lato Prometeico dell’esserci, la lettura di Stiegler del testo heideggeriano punterà a rintracciare l’originario oblio epimeteico. Porre questo oblio all’origine dell’uomo significa, seguendo il mito, mostrare l’impossibilità di una separazione netta tra l’autentico e l’inautentico, cioè tra costituzione dell’esserci e tecnica. In altre parole, questo oblio rappresenta l’origine della stessa “storia dell’essere”, di cui la tecnica non è l’esito ma la condizione di possibilità: la condizione del fatto che ci sia, in generale, una storia: «la fatalità dell’eredità è il significato profondo della figura di Epimeteo. Come accumulo di colpe e dimenticanze, come eredità e trasmissione, sotto forma di sapere riflessivo e smemorato, l’epimetheia dà anche il senso della tradizione» (p. 245).
Data la recente scomparsa di Stiegler, la traduzione di questo testo ci può aiutare ad affrontare nuovamente, con nuove domande e necessità teoriche, non solo la tradizione filosofica occidentale, bensì anche l’eredità stessa di Stiegler; pertanto, l’apertura del cantiere di traduzione di Tecnica e tempo avrà sicuramente importanti effetti.
Pietro Prunotto
BIBLIOGRAFIA
Derrida, J. (1997). Ousia e grammé. Nota su una nota di Sein und Zeit. in Margini della filosofia. ed. it a cura di M. Iofrida. Torino: Einaudi.
Id. (2010). Dello spirito. Heidegger e la questione. ed. it a cura di G. Zaccaria. Milano: SE.
Id. (2015). La farmacia di Platone. ed. it a cura di S. Petrosino. Milano: Jaca Book.
Id. (2020). L’animale che dunque sono. ed. it a cura di M. Zannini. Santarcangelo di Romagna: Rusconi.
Id. (2021). La vita la morte. Seminario 1975-1976. ed. it. a cura di F. Vitale. Milano: Jaca Book.
Heidegger, M. (1976). La questione della tecnica. in Saggi e discorsi. ed. it. a cura di G. Vattimo. Milano: Mursia
Id. (2005a). Essere e Tempo. ed. it. a cura di F. Volpi. Milano: Longanesi.
Id. (2005b). L'autoaffermazione dell'università tedesca. In Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita 1910-1976. ed. it. a cura di N. Curcio. Genova: Melangolo.
Stiegler, B. (2018). La technique et le temps. 1. La Faute d’Épiméthée – 2. La Désorientation – 3. Le Temps du cinéma et la question du mal-être. Paris: Fayard.
Id. (2023). La tecnica e il tempo. Vol. 1. La colpa di Epimeteo. ed it. a cura di P. Vignola. Roma: Luiss University Press.
Vignola, P. (2023). Il ritardo dell’anticipazione. in B. Stiegler, La tecnica e il tempo. Vol. 1. La colpa di Epimeteo. ed it. a cura di P. Vignola. Roma 2023: Luiss University Press.