Nel settembre del 2020 si chiude il terzo tempo dell’incontro di aut aut con Lacan: si tratta in realtà di una chiusura-apertura, potremmo dire una chiusura-cerniera, il cui effetto è di lasciare il “problema Lacan” aperto. La prima tappa di questa riflessione – affidata al volume A partire da Lacan, numero 177-178 del 1980 – accoglieva il gesto di “dissoluzione” inferto alla psicoanalisi e alla filosofia dall’ultimo seminario lacaniano inedito (Dissolution). Il primo fascicolo pare aver agito après coup: dissolvendo, Lacan mostra di aver fondato la possibilità di una nuova attualità, di un pensiero che continua a scriversi – temi a cui è dedicato Leggere Lacan oggi, numero 343 del 2009. Ma vale la pena chiedersi quale sia l’urgenza di Ripartire con Lacan, che muove il terzo numero. Non esageriamo col dire che la filosofia contemporanea ne farebbe volentieri a meno, in quanto la pratica psicoanalitica è una “scienza senza sapere”, un pensiero senza Weltanschauung, un’immistione spuria e ibrida nel rigore argomentativo del discorso. Il numero 387 di aut aut “stressa” la tendenza onnicomprensiva a cui certa filosofia ambisce, che in termini lacaniani definiremmo un tutto-sapere immaginario. E lo fa interponendosi a una logica forte, ossia barrandola. I diciassette interventi del volume si misurano infatti con il buco della comprensione di un pensiero: non lo suturano, con nuove interpretazioni o “scritture”, ma consegnano, con esso, dei percorsi concentrici di approssimazione, secondo il movimento del desiderio.
Non Un Lacan – declinato secondo le rigidità del lacanismo – né il Lacan dell’Uno, ma i molti Lacan che proliferano, articolati soggettivamente dai margini del discorso. Condizioni liminali in cui le paranoie (sforzi di fare Uno) delle varie Scuole lacaniane e dell’Università si indeboliscono. Da qui, la scelta di parlare ancora, e con più vigore di quarant’anni fa (1983), di pensiero debole, con effetti di spazi di gioco imprevisti: la cifra del contributo di Pier Aldo Rovatti in questo volume (pp. 44-56) sta nell’aprire una «reciprocità di sguardi» tra lacanismo e pensiero debole per abbassare ironicamente tonalità “alte”, smascherando la complicità di queste col discorso del padrone (cfr. p. 49). L’ironia stempera anche il tragico di quel manque-à-être che sostiene le nostre esistenze: sfuggire, abbassare, oscillare sono i significanti di un re-tour a Lacan che ha tanto di un ritorno quanto di un giro attorno, con l’eventualità che possa trattarsi di un giro a vuoto, come spesso ci accade in analisi. Ma attorno al vuoto del re-tour si crea la condizione di possibilità di un ri-pensamento dell’impensato. Che fare? Tagliare la corda. Interrompere la sequenza. Lasciare uno spazio bianco, per non turare buchi costitutivamente non suturabili. “Saperci fare con” ciò che non si riempie sarà un “saperci fare con” la soggettività (p. 53).
Rilanciare la soggettività non è una sfida scontata, oggi, in filosofia. Rispetto allo spopolare di ontologie nude e pure nel dibattito contemporaneo, il contributo di Massimo Recalcati ha il merito di ri-centrare i processi di soggettivazione sul soggetto, che non è mai un oggetto tra gli oggetti. Come «fare a meno del soggetto» se «è l’esistenza del soggetto a innescare il processo di soggettivazione» (p. 59)? Il sospetto è che se si avanza verso i «territori impersonali di un godimento Uno» si facciano dei tagli, che colpiscono direttamente l’etica della psicoanalisi, che è un’etica del desiderio. Il sospetto, ancora, è che non solo si faccia a meno «della mancanza a essere, del desiderio e dell’Altro» ma, più radicalmente, dell’intero «riferimento alla categoria di soggetto» (p. 57). Basta aprire gli occhi sullo stato dell’arte per constatare come l’henologia (pensiamo all’Uno-tutto-solo di Jacques-Alain Miller e Antonio Di Ciaccia) e le ontologie del processo (senza soggetto) siano precipitate anche nell’analisi. Recalcati, ricordando che l’analisi non è impersonale, produce nella scrittura un «annodamento topologico del soggetto all’Altro […] che diviene essenziale per pensare il problema della soggettivazione» (p. 59). A ogni Uno va ricordato che l’Altro è condizione del suo vedersi. Qual è la dinamica che li annoda? L’identificazione, con la sua portata «non solo clinica, ma anche politica», spesso tenuta fuori dai dibattiti teorici e qui riportata al centro da Ilaria Papandrea (pp. 22-28) come operazione fondamentale del fare legame. L’analisi è un buon modo per guardarsi dal «potere narcotizzante delle identificazioni» (p. 26), dalle «passioni identitarie e dalla furia razzista che scatenano» (ibidem). Lo scandalo e la scommessa dell’analisi è, infatti, il poter far esperienza di se stessi come soggetti non identificati per vie immaginarie o insegne simboliche. La ricaduta, immediatamente politica, è di indebolire la consistenza del grande Altro: a partire dall’analista “modello” fino al grande Altro che vorremmo assumesse una posizione di comando per indirizzare le nostre vite, incarnando il verbo dell’universale. Nessuna identificazione può invece afferrare «il resto opaco di un godimento» (p. 25) che è inconscio. Da qui la portata della rivoluzione psicoanalitica, soprattutto quella lacaniana, che permette di bucare le logiche identitarie e identificatorie, i dispositivi di legame, le organizzazioni del collettivo. Ripartire con Lacan – annodando, al collettivo, il singolare – significa «fare un passo e un altro ancora, un numero incalcolabile di volte, per scavare un incavo nelle verità pretese» (p. 23), ovvero in impianti che si (sup)pongono totali.
Eppure permangono resistenze nell’accettare il ruolo politico della psicoanalisi, che è al centro dei contributi di Muni (Foucault e Lacan. L’amicizia, il discorso, il soggetto etico), Greblo (Lacan con Laclau) e Colucci (Quel muro tra Lacan e Basaglia). Andrea Muni ritesse bio-bibliograficamente le ragioni delle difficoltà di applicazione della psicoanalisi alle biopolitiche, a partire dal disamore tra lacaniani e foucaultiani, in cui ha un certo ruolo la coppia Deleuze-Guattari e il conservatorismo attribuito a Lacan per la sua militanza mancata. La militanza di Lacan si sarebbe invece giocata sul piano squisitamente foucaultiano di una materialità dell’immateriale. I significanti material-pulsionali coincidono infatti coi soggetti governati e (auto)sorvegliati: il soggetto politico lacaniano-foucaultiano è un effetto di discorso; si trova “doppiato” dal discorso come sua causa, in un’attivo-passività che è la stessa del corpo pulsionale della psicoanalisi (si veda il contributo di Andrea Muni, p. 82). Date queste premesse, soggetto (politico) e significante hanno la stessa struttura: da qui Edoardo Greblo via Laclau, e Laclau via Lacan, applicano la logica dell’inconscio strutturato come linguaggio alla soggettività politica, verificandola nella sua «discontinuità aperta» rispetto alla realtà (cfr. p. 197). Come il soggetto del significante, il soggetto politico risulta scisso, separtito, perché l’universale della società (immaginaria) in cui si dà è barrato. Non esiste, cioè, la società, se non come cornice simbolica. Ma cos’è il simbolico senza il reale? Totalità vuota. Serve un «nocciolo che resista alla simbolizzazione» (p. 200), qualcosa che impedisca la chiusura del circolo, che è condanna del definitivo e dello stesso. Ciò che resiste, che non funziona, che non chiude, è il reale, qui declinato politicamente come il negativo dell’antagonismo e del conflitto. Per una politica che rifletta il rimando (negativo)-differenziale tra soggetti-significanti, la proposta di Greblo – in linea con la sinistra lacaniana di Laclau, Mouffe, Butler, Žižek – è di una politica «non-tutta, incompleta, aperta, politicamente negoziabile» (p. 206), scommessa del negativo e delle contingenze singolari che intaccano l’universalità solo presunta della “società”.
Altro snodo del volume è il modo in cui la politicità del significante si riverbera nell’istituzione (discorsiva) di spazi di segregazione: per Lacan i muri dell’istituzione psichiatrica. Ma non solo per lui. Anche Franco Basaglia si colloca nel solco di quella corrente etico-politica ed epistemologica affine all’operazione lacaniana. Entrambi nascono come fenomenologi e arrestano, ricorrendo all’epoché, una deriva impietosa della psichiatria che andava verso la psichiatria d’organo, ottusamente (solo) biologica e iper-medicalizzante. Mario Colucci, psichiatra lacaniano, fa dunque cadere «quel muro tra Lacan e Basaglia» (p. 28), attribuendone l’esistenza alla differenza di identità culturali, laddove in Italia predominava una vocazione politica, atta a sfondare il muro dell’istituzione, e in Francia una vocazione terapeutica, estremamente ricca sul piano teorico ma incapace di mettere in crisi l’istituzione stessa. Tuttavia la vocazione politica italiana si lega a un’estrema laicità che non esclude da sé un certo scientismo: da qui la psicoanalisi lacaniana come semi-sconosciuta o preziosa rarità nei servizi di salute mentale in Italia, e l’urgenza di ripartire, non solo da Lacan, ma da Lacan con Basaglia. Oggi la presenza di Lacan nella psichiatria italiana rappresenta la possibilità di forare il recinto simbolico delle segregazioni con il reale della parola gettata – angosciosamente – al silenzio dei muri. Annodare Lacan e Basaglia significa porsi all’incrocio fra due angosce: «il comune affetto d’angoscia che li lega è la sola garanzia che non ci ingannano» (p. 43). Contro la deriva segregazionista della psichiatria dei muri, Colucci traccia un solco dove «due saperi incompleti si toccano sul punto della loro mancanza e si scoprono vulnerabili» (ibidem).
Un affondo clinico decisivo nel volume sta nella proposta della filosofa e psicoanalista Silvia Lippi di «psicotizzare la psicoanalisi» (p. 128). In linea col tardo Lacan di Le Sinthome, L’Étourdit e le conferenze del ’70, l’interesse di Lippi non è rivolto a una migliore clinica della psicosi, ma a un ripensamento radicale dell’intera pratica analitica a partire dalla psicosi, per pensare la direzione della cura tout-court, per dischiudere un linguaggio non polarizzato dal senso, dove il significante sia «vettore di godimento» (p. 134). La psicosi diventa così il luogo di lalingua, invenzione singolare, particolare a chac’Un. È infatti dal «linguaggio de-strutturato dello psicotico» (ibidem) – in termini deleuziani linguaggio senza articolazione – che si trae qualcosa di paradigmatico dell’inconscio, sottraendolo ai residui di un’ermeneutica infinita e alle maglie dell’esegesi del senso. Quale lalingua, nella psicosi? Non il linguaggio della comunicazione o della trasmissione, bensì il «linguaggio crudo del corpo […] desiderante e, certamente, godente» (p. 134). È qualcosa che non può prodursi se non in un’analisi, e mai senza corpo. Legittimo chiedersi, a questo punto, cosa abbia provocato, nella ricezione psicoanalitica, la de-corporeizzazione, la corporeità in perdita, inflitta dal cogito. Sebbene Lacan abbia dovuto smembrare il cogito in “penso dove non sono, sono dove non penso” – anzi proprio per questo – Cartesio resta tra i suoi interlocutori privilegiati. Le scienze cartesiane, vagliate nell’intervento di Antonello Sciacchitano, sono tutte quelle scienze «del dubbio e dell’incertezza», altrimenti definibili come congetturali o umane. Si tratta cioè di quelle scienze «diversamente scientifiche» (p. 161), che tendono a una certezza non dell’ordine dell’universale o dell’oggettivo, ma del soggettivo. In esse, il cogito si configura come «ipotesi di lavoro», che sostiene una logica della congettura. Ma, al di là, della congettura, c’è del sapere. Un sapere che è nel reale, è nell’inconscio. Come «l’inconscio è un sapere che non si sa di sapere», così il desiderio inconscio è un «desiderio che non si sa di desiderare» (p. 166): da qui una scienza che fa congetture su un sapere che non sa se stesso. Lacan ha così «dissotterrato dal reale – che non cessa di non scriversi – un sapere che a volte – non sempre – riesce a scriversi» (p. 168). E soprattutto, che si scriva non è garanzia del fatto che riesca a leggersi. Qui subentra l’impasse dell’ovvietà delle nostre letture e il bisogno di un gesto ulteriore.
Non potendo render conto della specificità di ogni contributo, per cui si rimanda alla lettura integrale del volume, sceglieremo di percorrere infine un crinale teoreticamente denso, che vede Lacan, Deleuze e Derrida intrecciati nel problema della rappresentazione, attraverso le letture di Raoul Kirchmayr, Sergio Benvenuto e Federico Leoni. Che cosa si rappresenta? Quello che non c’è. È propriamente quel che fa il fantasma, indice di non-rapporto, ossia del rapporto sessuale che non c’è. Non si tratta qui di un vezzo, di voler recuperare un apoftegma, un abusato motivetto tra lacaniani (“non c’è rapporto sessuale”), bensì di voler sfidare ancora la nozione di soggettività con una formazione dell’inconscio, una micro-struttura narrativa – il fantasma – che mette in crisi un certo rapporto diadico, lineare e ingenuo tra soggetto e oggetto.
Nella lettura di Leoni, prevale un’idea di fantasma come di impersonale singolare, sulla scia di una lacaniana Logica del fantasma che si incrocia con la deleuziana Logica del senso, per cui il «fantasma-bolla è una monade-simulacro» (p. 124). Il simulacro non è di qualcuno, ha una «sovrana autonomia» (p. 120) rispetto a ciò di cui dovrebbe essere rappresentazione, né si dà propriamente qualcuno che lo rappresenti. I simulacri (fantasmi in Lacan) «giocano con l’oggetto» che dovrebbero rappresentare, ma giocano anche col soggetto (cfr. ibidem). Procedendo su questa linea, perveniamo a un assunto impegnativo per lo stato dei processi di soggettivazione. Il soggetto e l’oggetto sarebbero «dispiegamento interminabile […] di una sostanza comune» (p. 125). Quanto al fantasma, «non è mai altro che la linea sempre in cammino e sempre incompiuta del suo soggettivarsi e oggettivarsi» (ibidem). Ma quanto la lettura secondo cui «soggetto e oggetto sono loro stessi le divisioni dell’impersonale» regge, se applicata alla pratica analitica?
Sergio Benvenuto rimarca come ci troviamo davanti a interi archivi di fantasmi, non solo sui lettini di analisi ma anche nei siti porno o, meglio, in quei film pseudo-pornografici (come La vie d’Adèle di Kechiche) in cui il rapporto è supposto: non si vedono penetrazioni, scambi di liquidi, organi turgidi ed eccitati, per cui ci si chiede se il rapporto, di fatto, ci sia. Cosa significa quindi supporre un rapporto? Rappresentare soggettivamente il reale – incredibile, impossibile – di ciò che è inconsciamente irrappresentabile, e fare di tale trauma – come il coito – qualcosa che sia foriero di godimento (cfr. p. 115).
La costruzione fantasmatica ha direttamente a che fare con ciò che non si può rappresentare, e che per questo si rappresenta. Differentemente da certi modi di fare ontologia forcludendo il soggetto, le hantologie (teorie generali della spettralità) tallonano il luogo del margine in cui il soggetto sembra non essere oggetto e viceversa, mostrandone lo statuto labile, poroso. Il fantasma è sì «un primo schema topologico su cui fondare una teoria della singolarità del soggetto» (pp. 94-95), ma anche una sfida a ogni idea precostituita di soggettività: fa posto a due elementi assolutamente eterogenei, legandoli attraverso il simbolo della losanga, che nella matematizzazione lacaniana delinea un buco, indice di non-rapporto ($◊a). Ripartire dal non-rapporto significa rilanciare la soggettività dal reale, «l’assente di ogni struttura psichica» (p. 93).
La portata di questo volume consiste nel fatto che esso si costruisca attorno a un centro assente e che smobiliti, attraverso la proliferazione di voci che rifuggono un neolacanismo dogmatico, la statica di qualsivoglia discorso identitario. Leggendolo, si stacca pezzo per pezzo l’identità del “lacaniano”, assieme a una forma di “dover essere” lacaniani: quel che resta è un punto reale in cui filosofia e psicoanalisi si specchiano in modo complementare e si mancano, lasciando a ogni lettore la possibilità di abitare quel buco tra due saperi con la propria invenzione teorica.
Sara Fontanelli