Alle nostre spalle non c'è solo quel brusio di cui abbiamo imparato a riconoscere il ritmo; volgendo lo sguardo case, strade e palazzi proliferano coprendo l'orizzonte, ma la bufera del progresso sembra arrestarsi qui: c'è solo la polvere che, sollevatasi, riempie oramai gli strati alti dell'atmosfera colorando il cielo di un grigio cinereo.
E la città, sotto questa coltre, continua.
Ci domandiamo quale sia il motivo per cui il nostro sguardo sia stato magnetizzato esclusivamente dal paesaggio che si staglia nella direzione opposta. Prendendo in mano una mappa cittadina vedremmo i confini del comune di Torino estendersi ancora per diversi chilometri, nessun segno su di essa potrebbe indicare quella che indubitabilmente appare ai nostri occhi come una frontiera. Se le mura che circondavano la città davano a essa un confine tangibile, il loro abbattimento in favore della cinta daziaria ne conservava il carattere di filtro alla circolazione, ora sono le tangenziali e i viali trafficati a segnare le frontiere urbane, è l'articolazione della circolazione stessa che produce separazione. Invero l'estrema periferia, da qui, non è più la città esplosa del secolo scorso, quando le Edge cities della classe media tentavano di costruire una pacificazione impossibile tra urbano e rurale attraverso la costruzione di autostrade e la promessa di una villetta con giardino.
Forse l'immaginario di chi progetta oggi lo spazio della città non ha bisogno di allargarne il diametro effettivo. Niente cantieri né palazzi di recente costruzione che facciano ipotizzare un qualche piano d'interesse. Di conseguenza anche l'attenzione visiva tende a perdersi come se, avvezza all'eterna riproposizione del nuovo, non trovi in questa obsoleta/desueta veduta nessuna boa di senso a cui aggrapparsi.
Eppure quei palazzi li conosciamo, non certo direttamente ma perché cercando la storia di quest'area ci era capitata in mano una testimonianza che parlava proprio della via Scialoja, la strada in cui sorge il casermone rosso che si vede oltre gli orti, alla sinistra della tangenziale.
L'esperienza vissuta che traspariva da quelle righe rievocava ricordi di gioventù degli anni novanta. Ci stupiamo, ricordando le parole di chi ci ha vissuto, di come ciò che a livello di mera analisi spaziale si presenta come una discontinuità del tessuto urbano, quella della tangenziale e di Corso Grosseto, corrisponda fattualmente alla percezione delle divisioni e delle aggregazioni da parte degli individui che abitano questa zona. Ciononostante qualcosa rispetto al racconto sembra essere cambiato. Non di certo nella direzione che potremmo immaginarci stando seduti a leggere i propositi che gli urbanisti hanno proferito dagli anni Ottanta a oggi sulla spinosa questione delle periferie e del loro rammendo. Se potessimo scattare una panoramica a 360°, un'immagine che quindi potesse tenere insieme le due prospettive dal ponte, non scorgeremmo certo nessuna indicazione verso un'integrazione od omogenizzazione degli spazi. Del resto la città contemporanea, in quanto dispositivo strategico di proiezione dei modelli di produzione, non può che basarsi sulla funzionalizzazione, gerarchizzazione e sfruttamento delle aree ritenute idonee allo sviluppo economico, con buona pace della retorica sul nuovo umanesimo dell'architettura.
L'effetto frontiera che vent'anni fa già era sentito dagli abitanti, dunque, non ci sorprende appaia proprio oggi ancora più evidente.
«Il mio quartiere è una via: via Scialoja. Non esiste un senso di appartenenza comune a qualcosa di più grande, a Borgo Vittoria. Ci siamo noi, quelli delle popolari di via Sospello, quelli di via Natale Palli, i ragazzi dell’oratorio San Martino, dell’oratorio di via Chiesa della Salute. E poi ancora più in là ci sono Barriera e la Falchera.
[...]Via Scialoja inizia al capolinea del 52: quando entri nella via vedi le case cooperative: di fronte il palazzo rosso, a destra quello giallo e un po’ più nell’interno quello blu. Più in là ci sono due palazzi popolari e tra i due c’è un quarto palazzo (“le rosse”) che fa parte delle cooperative. C’è sempre stata rivalità tra le popolari e le cooperative. Noi ragazzi delle popolari andavamo la sera a fare manicomio là sotto e i ragazzi di lì si alleavano con noi contro gli adulti delle cooperative»
Gli orti che dalla parte di Parco Sempione sono stati sgomberati per far posto ai progetti di riqualificazione, dal lato di Via Scialoja permangono come un passato che è presente. Pare proprio che i confini dettati dalla tangenziale da nord a sud siano sufficienti a disegnare scenari di città che la rivoltino come un calzino. Anche la toponomastica ci soccorre nell'interpretazione di questa cesura; se da una parte la nuova stazione è stata chiamata Rebaudengo-Fossata, nome che allude in maniera ambivalente a un passato nobile e a un futuro di rilevanza strategica, dall'altra il quartiere di via Scialoja conserva l'inquietante toponimo di “Villaggio E14”, nome che riprende probabilmente quello della sezione catastale sul quale è stato costruito.
Se la speculazione edilizia degli anni Settanta mirava semplicemente a trarre profitto sull'esigenza di case per la riproduzione della forza-lavoro, quella odierna di una città che vuole cambiare faccia necessita, invece, per attrarre popolazione desiderata e investimenti di lungo periodo, di una prestazione anche simbolica e culturale. Sulla scia di queste considerazioni il grattacielo San Paolo e la stazione, seppur lontani tra loro alcuni chilometri, sono vicini; il villaggio E14 nella sua contiguità è distante. Ma altri stralci del racconto ci tornano in mente, permettendoci di non considerare la zona di via Scialoja solamente come un prodotto del passato lasciato all'abbandono.
«[...] è iniziata la costruzione delle “case nuove”. Sono state costruite alle spalle di via Scialoja, al confine con lo sbocco della tangenziale di corso Grosseto. Prima che edificassero queste case via Scialoja era circondata su due lati da orti abusivi e c’era una sola via d’accesso al quartiere, per cui era possibile controllare ogni movimento: se non volevi far entrare qualcuno non entrava. Quelle case invece davano alla via un nuovo sbocco per far entrare i carabinieri. Noi non accettavamo che invadessero il nostro quartiere, il solo fatto che si trovassero lì ci infastidiva. Avevamo un senso di protezione nei confronti del quartiere. Non volevamo altre persone, altra gente che ci desse fastidio, che chiamasse gli sbirri se facevamo casino.
Li vedevamo come gente piena di soldi e questo ci irritava. Noi eravamo delle popolari, gente che stava in affitto, e non sopportavamo che qualcuno si comprasse la casa nel nostro quartiere. Erano loro i principali nemici»
L'intuizione di un cambiamento in città non sempre è affine a quella del marketing territoriale.
Lo sanno bene i ragazzi di via Scialoja a cui non è mai stato dato il privilegio di rappresentarsi la città come un terreno di produzione; per loro la ferrovia, il corso non sono tappe per lidi lontani ma sono i confini dell'esclusione. Se da questa condizione cercano di trarre forza è per ricostruire un senso d'appartenenza in un territorio da difendere; di fronte a questa esigenza chi progetta la città non può che fornire strumenti per renderla innocua.
E così, oltre le periferie scelte per divenire terreno fertile per la germogliazione policentrica di nuove forme di vivere metropolitano, ci saranno sempre quelle che rimarranno ambienti strutturalmente residuali. In tutte queste via Scialoja, quando la novità architettonica arriva è per una mera miglioria nel controllo.