Esiste un elemento in comune tra una passeggiata, un viaggio in treno o una visita al museo: il paesaggio. Guardato, rappresentato, vissuto, il paesaggio, come da definizione, restituisce e precisa tanto una porzione di territorio quanto un’immagine. Ma dov’è allora la differenza – e quale la sua natura - tra un paesaggio dipinto da Cézanne e un paesaggio che si erge all’orizzonte e si percorre con i sensi durante un’escursione? Questo il primo quesito con cui si apre il libro di Justine Balibar, dottoressa e professoressa di filosofia, Qu’est-ce qu’un paysage?, edito da Vrin nel 2021.
Il termine paesaggio è intendibile in due sensi: uno realista, l’altro iconico. La differenza sostanziale, specifica nelle prime pagine Balibar, è data dalla « situazione spaziale del soggetto percettore in relazione allo spazio percepito » (trad., p.8). Nel caso del paesaggio rappresentato, il soggetto si posiziona in uno spazio distinto rispetto a quello che percepisce; una fotografia, un quadro e, più generalmente un’immagine, racchiudono uno spazio a due dimensioni – delimitato da un’eventuale cornice o bordo – sottolineandone la lontananza e l’inaccessibilità fisica e ontologica; « noli me tangere » sarà l’ordine costitutivo del paesaggio rappresentato. Al contrario, il paesaggio reale circonda il soggetto che si situa e si muove all’interno dello spazio percepito, trovandosi in una relazione di continuità con esso. Ne consegue dunque, seguendo il ragionamento di Balibar, che il paesaggio rappresentato e quello reale rilevano due spazialità distinte da cui dipendono due esperienze estetiche differenti: « da una parte, spiega la filosofa, l’esperienza contemplativa della percezione di uno spazio separato dal nostro, uno spazio al di fuori del quale siamo situati, dall’altro l’esperienza immersiva o integrativa della percezione di uno spazio in continuità con il nostro, uno spazio in cui siamo situati.» (trad., p.11). Inoltre, rispetto al paesaggio rappresentato, quello reale mette in gioco non soltanto un’esperienza estetica della percezione – dall’aisthésis greca, esperienza fondata sulla percezione sensibile – ma anche da un’esperienza pratica del movimento, dell’attività fisica del corpo nello spazio.
Poste queste prime differenze, quali rapporti intrattengono il paesaggio reale e quello rappresentato? Si possono pensare a dei legami di interdipendenza tra questi due paesaggi? Per rispondere a queste domande, Justine Balibar ripercorre la storia etimologica della parola ‘‘paesaggio’’ cercando di contestualizzarne l’uso lessicale e di comprendere l’origine della confusione contemporanea tra i sensi, realista e iconista, del termine. Per una curiosa inversione del rapporto che vorremmo spontaneamente instaurare tra la realtà e la sua rappresentazione, ai nostri giorni, osserva Balibar, l’idea di paesaggio, inteso nel suo senso realista, è stato contaminato dall’idea della rappresentazione « come se il paesaggio reale dovesse essere sempre compreso e percepito in termini di paesaggio rappresentato, o addirittura come se, alla fine, esistesse solo un paesaggio rappresentato » (trad., p.12). L’origine? Il topos iconista, secondo cui il paesaggio rappresentato eserciterebbe un’ascendenza sul paesaggio reale. Complici di questo pensiero sono la teoria settecentesca del pittoresco e, nell’età contemporanea, i teorici del paesaggio come Augustin Berque (1995), Anne Cauquelin (2004) e Alain Roger (1978 ; 1997). Questo primato tradizionalmente attribuito al paesaggio rappresentato rispetto al paesaggio reale è inteso nel senso di una precedenza cronologica e logica. Secondo Alain Roger l’esistenza di rappresentazioni paesaggistiche, nella sua prima formulazione rinascimentale, avrebbe permesso la costituzione di un metodo di percezione e apprezzamento dei paesaggi reali in natura; un fenomeno che l’autore chiama “artialisation”, sottolineando il ruolo cruciale dell’arte nella formazione del nostro modo di osservare e considerare il paesaggio. Sulla stessa linea di pensiero, la teoria di Anne Cauquelin sostiene che il Rinascimento ha visto l’avvento di un nuovo genere pittorico - la pittura di paesaggio - che avrebbe sviluppato il nostro senso e la nostra cultura del paesaggio, determinando così la nostra capacità a percepirli e apprezzarli. Un po’ provocatoriamente, si potrebbe ribattere, con Justine Balibar, che prima della comparsa della pittura di paesaggio, non ci sarebbe stato alcun paesaggio nel mondo reale; detto altrimenti, non saremmo stati in grado di sperimentare i paesaggi nel mondo fisico né tantomeno di apprezzarne la bellezza.
Per discutere e confutare la teoria del primato del paesaggio rappresentato su quello reale, Balibar inizia con il criticare la teoria dell’anteriorità cronologica del paesaggio rappresentato rispetto al paesaggio reale. A difesa della teoria viene spesso avanzata un’argomentazione di natura lessicale, che relaziona l’origine del paesaggio con l’origine della parola “paesaggio”, nata durante il periodo rinascimentale nel gergo pittorico, per designare innanzitutto una rappresentazione del territorio prima del suo aspetto reale. Una prova argomentativa di duplice debolezza : in primo luogo, afferma l’autrice, questa teoria semplifica eccessivamente il complesso sviluppo etimologico della parola “paesaggio” e, in secondo luogo, ne riduce il concetto al suo corrispettivo terminologico.
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Per rispondere a questa argomentazione, Justine Balibar si sofferma, per diverse pagine, a seguire la storia etimologica, complessa e intricata, del termine “paesaggio”, comparandolo ai suoi equivalenti europei, occupandosi poi di distinguere il livello lessicale da quello concettuale. Esistono, infatti, altre parole oltre a ‘‘paesaggio’’ che traducono il concetto, sia in francese che in altre lingue europee: l’inglese ‘‘prospect’’, il francese ‘‘contrée’’, l’italiano ‘‘contrada’’, tutti termini che designano inequivocabilmente il territorio così come si dispiega davanti a noi e si offre alla nostra vista. Non c’è bisogno, quindi, della parola ‘‘paesaggio’’ per esprimerne il concetto e neanche di parole o espressioni legate ad un contesto pittorico : né ‘‘prospettiva’’, né ‘‘contrée’’ o ‘‘contrada’’, né ‘‘facies locorum’’ o ‘‘forma regionis’’ provengono originariamente dal registro della rappresentazione pittorica. Inoltre, il ricorso all’argomento lessicale tende a nascondere tutto ciò che è paradossale nell’affermazione di un’anteriorità cronologica del paesaggio rappresentato rispetto a quello reale. Questa affermazione sembra controintuitiva perché contravviene al rapporto che siamo spontaneamente tentati di stabilire tra realtà e rappresentazione, tra modello e copia; non dovremmo essere in grado di percepire e apprezzare i paesaggi nel mondo reale, prima di poterli rappresentare su una tela? Si chiede Balibar. E ancora, un paesaggio non dovrebbe esistere realmente prima di poterlo fotografare?
Riprendendo gli esempi descritti da Philippe Joutard (1986), Balibar ricorda l’abbaglio di Dürer, durante il viaggio a Venezia del 1494, davanti alle forme e ai contrasti delle Alpi, che gli fornirono numerosi soggetti per disegni e dipinti. Allo stesso modo Brueghel, al tempo del suo viaggio in Italia del 1551, si soffermò tra i paesaggi alpini che ispirarono la valle montana ne Cacciatori nella neve. E lo stesso Leonardo da Vinci, con la sua profonda conoscenza del paesaggio dell’Italia settentrionale, dalla campagna agricola della pianura padana alle montagne lombarde, evoca nei suoi scritti le contemplazioni paesaggistiche.
Di fronte a questi esempi, si potrebbe certamente obiettare che se Dürer, Brueghel o Leonardo si dimostrano capaci di vedere e apprezzare paesaggi reali, è proprio perché li vedono con ‘‘l’occhio del pittore’’. Sembrerebbe non esserci una via d’uscita: chiedersi se viene prima il paesaggio reale o il paesaggio rappresentato, è il paradosso dell’uovo e della gallina. Per risolvere la questione, Balibar si discosta da una prospettiva unicamente cronologica e storica, interrogando in modo approfondito la natura del concetto di paesaggio. Porre la questione in termini genealogici, scrive la filosofa, « porta a un vicolo cieco, perché la questione è insolubile a meno che non si difenda una posizione ingenua - i pittori devono aver percepito i paesaggi reali prima di rappresentarli nei loro dipinti - o paradossale - nessun paesaggio reale prima del Rinascimento e dello sviluppo della pittura di paesaggio » (trad., p.23).
La seconda parte del riflessione di Balibar, inizia riproponendo la distinzione con cui esordiva il suo testo: il paesaggio rappresentato è un’immagine, il paesaggio reale è un ambiente fisico. Considerazione che permette di evitare di cadere nell’illusione iconista e confondere il paesaggio reale con le sue rappresentazioni, « la chose avec l’image de la chose » (p.30). A questo proposito, l’estetica ambientale che si è sviluppata nel mondo anglosassone a partire dagli anni Sessanta con autori come Ronald Hepburn (1966), John Baird Callicott (1983; 1994), Allen Carlson (1979; 1981), Emily Brady (1998; 2003), Arnold Berleant (1992) e Noël Carroll (1993), offre preziose risorse teoriche per pensare al paesaggio come ambiente e al tipo di esperienza estetica a cui si presta. Il gesto decisivo dell’estetica ambientale consiste nel difendere una definizione naturalistica dell’ambiente, riconoscendolo come uno spazio fisico polisensoriale e tridimensionale, radicalmente distinto da un’immagine. Tuttavia l’estetica ambientale non è un’estetica del paesaggio: « Per comodità, spiega Balibar, i filosofi dell’estetica ambientale, preferiscono parlare di ‘‘ambiente’’, di ‘‘natura’’ o di ‘‘territorio’’ piuttosto che di ‘‘paesaggio’’, il quale possiede ancora connotazioni artistiche o iconistiche, marcate » (trad., p.35). La nozione di paesaggio reale non si sovrappone a quella di ambiente, ma vi è inclusa. Il paesaggio è infatti un tipo di ambiente con determinate caratteristiche proprie che lo distinguono da altri tipi di ambienti.
Se i teorici dell’estetica ambientale non si sono interessati alla specificità degli ambienti paesaggistici in relazione ad altri tipi di ambienti, altri autori, provenienti da diverse tradizioni teoriche, hanno preso in considerazione questa questione. È il caso del filosofo italiano Rosario Assunto, che definisce i paesaggi reali come ambienti la cui caratteristica principale è l’apertura spaziale : gli ambienti paesaggistici sono ambienti aperti, in contrapposizione ad ambienti chiusi e confinati come un giardino o un sottobosco. Al contempo, l’apertura si oppone all’illimitatezza o a tutto ciò che, per immensità, supera le capacità di sintesi percettiva di un soggetto umano: l’Universo, la Terra, un Paese intero o persino un’immensa regione sono ambienti troppo vasti per essere percepiti nel loro insieme, ossia per poter costituire un paesaggio in sé. L’apertura che caratterizza in modo specifico l’ambiente paesaggistico lo colloca in una posizione intermedia tra gli ambienti chiusi e confinati e gli ambienti sproporzionati o illimitati. Continuando l’analisi di Assunto, possiamo dire che l’apertura non è la semplice dimensione spaziale. Affinché uno spazio sia aperto quest’ultimo deve estendersi tra due punti: tra il vicino e il lontano, tra il punto di vista a cui è ancorato il soggetto che percepisce e il punto di fuga fino al quale la sua percezione può spingersi. Il paesaggio si apre fino al punto in cui lo si può attraversare (visivamente o fisicamente), ma anche dal punto in cui ci si colloca nello spazio e lo si percepisce.
Date queste condizioni, il paesaggio, come ambiente aperto, presuppone un tipo particolare di esperienza, sia dal punto di vista del funzionamento percettivo che dell’articolazione della percezione rispetto al movimento. Il corpo è coinvolto interamente nella misura in cui è in grado di muoversi e percepire il paesaggio attraverso una pluralità di sensazioni, non solo visive, ma anche tattili, cinestesiche, olfattive e uditive, persino gustative. Nel momento in cui il corpo del soggetto che percepisce è in movimento nello spazio che contempla, la visione del paesaggio non è più autonoma: il movimento rende possibile una variazione costante degli angoli di visuale e, di conseguenza, una moltiplicazione indefinita delle vedute del paesaggio. I punti di vista si susseguono fondendosi l’uno nell’altro senza determinazione di un punto di vista privilegiato; il paesaggio reale, basandosi su una percezione in movimento, non è una vista o una serie di viste discontinue come il paesaggio rappresentato, ma è un continuum visivo. Il movimento è quindi una condizione specifica della visibilità del paesaggio reale e della sua leggibilità per lo sguardo del soggetto che percepisce. Per riassumere, citando la filosofa Balibar : « L’esperienza dei paesaggi reali lascia una grande libertà estetica al soggetto, a differenza del paesaggio rappresentato, che impone una cornice e un atteggiamento. Spetta al soggetto comporre la propria esperienza, nella molteplicità delle possibilità che gli vengono offerte. Tuttavia, una maggiore attenzione permette di determinare modalità di movimento e di sperimentazione più appropriate di altre, a seconda della tipologia di paesaggio - camminare o arrampicarsi in alta montagna, utilizzare l’automobile nei grandi spazi delle Badlands americane » (trad., p.57).
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