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Solo la Terra dura. Nota a margine dell’Earth Day
Longform / Aprile 2020Un antico canto degli Indiani d’America recita: “I vecchi dicono che solo la terra dura. Diceste la verità. Avete ragione”. In effetti, mentre gli Indiani se ne stanno nelle loro Riserve, la terra del continente nordamaricano – che fu la loro – se ne sta ancora lì, con i suoi canyons, le sue praterie e le sue foreste. E questo vale per l’intero pianeta: un po’ malconcio, sommerso di rifiuti, esso se ne sta ancora lì. Anzi: come ci suggerisce Leopardi nel Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco, magari questo mondo passerà, ma poi ne verranno altri: «venuti meno i pianeti, la terra, il sole e le stelle, ma non la materia loro, si formeranno di questa nuove creature, distinte in nuovi generi e nuove specie, e nasceranno per le forze eterne della materia nuovi ordini delle cose ed un nuovo mondo». E magari ben prima dell’apocatastasi che porterà alla sparizione di questo mondo per dar poi vita a un altro noi saremo ben che scomparsi per via di un nuovo virus, più potente e micidiale del coronavirus che tanta paura di morire sta inducendo a molti nostri conspecifici. Dobbiamo mettere per questo da parte ogni preoccupazione per la salute del pianeta e assumere un atteggiamento distaccato e disincantato, tale per cui ci diciamo che in fondo il mondo – e gli infiniti cicli cosmici – non ha bisogno di noi, che noi siamo solo abitatori provvisori del pianeta, e che dunque possiamo tranquillamente starcene qui a guardarci l’ombelico meditando sulla caducità nostra e di tutte le cose? Un simile atteggiamento – per altro rispettabile e sensato – dimentica però una cosa, ovvero che festeggiare la terra non significa contemplare gli enti non umani che ci circondano per ricavarne un qualche piacere estetico nel caso siano belli e armoniosi, né significa meditare sulla nostra caducità, il pensiero della quale affiora immediato proprio dalla visione malinconica della bellezza di campi fioriti e uccellini svolazzanti (come ci viene ricordato da Freud in un suo breve ma intenso saggio intitolato appunto Caducità). Festeggiare la terra significa ricordare che essa è la nostra nicchia ecologica, e che dunque siamo toccati direttamente dal suo stato di salute (se mi passate questa metafora impropria: è ovvio in realtà che la salute del pianeta non cambia poi di molto se si verifica un riscaldamento globale di qualche grado).
Il romanticismo, insomma, aiuta poco se è in ballo una associazione di qualche tipo tra la terra e noi che la abitiamo. Posto che questa duri anche senza di noi, è di noi in quanto suoi abitatori che dovremmo insomma preoccuparci. E questo proprio in vista di una possibile e auspicabile diffusione di una maggiore coscienza ecologica. Perché mai gli umani dovrebbero oggi preoccuparsi di quanto sarà duro abitare domani un pianeta con un clima peggiore di quello attuale, con meno acqua, magari devastato da guerre causate dal riscaldamento globale? Aspettarsi dagli umani – sia individualmente che collettivamente – una qualche capacità di far fronte a rischi futuri è profondamente erroneo. La pandemia in corso – tanto per fare un esempio – era stata ampiamente prevista, ma tutti sapevano che essa avrebbe colto tutti i paesi del mondo impreparati.
Parrebbe allora meglio far leva su un argomento molto semplice e banale, che comunque aiuta a non troppo indirettamente a dare corpo a una coscienza ecologica più matura. È nel nostro interesse che il pianeta se la passi bene: se vogliamo continuare a godere dei beni di cui godiamo, almeno per un tempo che è in fondo quello di una generazione (un tempo quindi afferrabile intuitivamente), continuare a sfruttare le risorse del pianeta come se fossero inesauribili potrebbe rivelarsi una scelta assai poco razionale.
L’argomento, sulle prime attraente, fa però acqua da tutte le parti. Presuppone sia che gli umani si comportino in modo razionale, sia che sappiano qual è il proprio bene. Così non è quasi mai – o, più chiaramente, quasi mai le due cose coincidono. Di conseguenza, alla festa della terra si dovrebbe arrivare non muniti delle migliori intenzioni (che sappiamo dove portano) ma con un dono che piove dal cielo, una sorta di deus ex machina: la Giustizia. Essa sola fa del bene sia alla città che alla campagna, per così dire, ovvero sia al bisogno di produrre e consumare, sia al bisogno di godere di quei beni comuni che non possono appartenere a nessuno e che hanno lo scopo di permettere agli umani di stare bene sulla terra – come si vede nell’affresco di Ambrogio Lorenzetti nella Sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena raffigurante l’Allegoria del buon governo, un’opera che per certi versi potremmo definire “ecologica” ante litteram. Senza un governo dei collettivi che sappia coniugare la libertà di intraprendere e di fare profitti con la giustizia, senza insomma un nuovo modello di sviluppo – sarà ormai banale dirlo, lo si ripete da decenni, ma il punto è sempre questo – una qualche forma di convivenza “ecologica” nella nicchia che abitiamo resterà sempre un pio desiderio. Oppure, come ci suggerisce Luhmann, un argomento di cui parlare all’infinito, o almeno a ogni 22 aprile, in attesa che la catastrofe ecologica faccia il suo corso.
di Giovanni Leghissa
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Martha Nussbaum. La tradizione cosmopolita.
Recensioni / Aprile 2020Che si tratti di un incidente di percorso, o di un esito coerente con la nostra direzione di marcia, la crisi finisce sempre per rivelare qualcosa: quella che stiamo vivendo, se non altro, ci ricorda quanto siamo fragili, quanto precaria ed esposta alla fortuna sia la condizione umana. E invita anche tutti noi a meditare sulla necessità dell’altruismo, tanto su scala individuale quanto internazionale, al fine di tamponarne le conseguenze più funeste. Se quella che serve è allora una coscienza globale, indispensabile per fronteggiare questa come altre emergenze, non sarà forse inopportuno riflettere attentamente sul significato e le implicazioni di un simile allargamento di prospettiva. È quello che prova a fare Martha Nussbaum nel suo ultimo libro, La tradizione cosmopolita. Un ideale nobile ma imperfetto, recentemente tradotto in italiano per le edizioni Bocconi, un saggio in cui alla complessità dei temi affrontati fa da contraltare il migliore stile anglosassone.
Partendo dai Greci, e nello specifico da quella straordinaria figura che fu Diogene il Cinico, il quale dichiarava di sentirsi cittadino del mondo intero, la filosofa ricostruisce una tradizione di pensiero che dall’antichità giunge fino a noi, e che nelle parole dei suoi protagonisti ha costantemente difeso il principio dell’eguale valore di ogni essere umano. Non si tratta però di ripercorrere passo dopo passo la storia di un concetto, con precisione filologica: a Nussbaum interessa piuttosto soffermarsi su alcuni autori particolarmente significativi per i problemi al centro della sua indagine, accogliendone gli spunti o prendendone invece congedo come si farebbe con dei contemporanei.
Si comincia con lo stoicismo, che eredita dai cinici l’idea secondo cui l’essere umano, indipendentemente dal rango sociale e dalle appartenenze politiche, sia in quanto tale meritevole di rispetto: la dignità, secondo questa tradizione, trascende ogni differenza e deriva dalla capacità di pensare e agire moralmente. Il possesso di beni esteriori non rappresenta affatto un discrimine rilevante, un motivo per giustificare un trattamento iniquo. Ecco l’egualitarismo stoico, che si traduce – l’autrice ha qui in mente soprattutto Cicerone – nel riconoscimento dei doveri di giustizia a cui ognuno di noi è chiamato, e che consistono fondamentalmente nell’astenersi da comportamenti lesivi dell’altrui libertà. Fin qui, spiega Nussbaum, il discorso stoico suona condivisibile, ma a ben vedere non ancora sufficiente: sconta infatti un antico pregiudizio, una visione dell’essere umano monolitica, che non gli consente di comprendere appieno la nostra sfera di responsabilità. Si tratta del convincimento secondo cui la dignità umana, inalienabile in ogni individuo, sarebbe al riparo dalle condizioni esterne, e quindi anche dalle privazioni materiali, giudicate del tutto indifferenti per una vita buona. Convincimento che a sua volta deriva dalla rigida separazione tra foro interno e mondo esterno, respinta dalla filosofa con ottimi argomenti: «La mente e lo spirito, infatti, sono parte di un organismo vivente che ha bisogno di cibo, di cure mediche e di altri beni materiali» (p. 16). Una rettifica quanto mai opportuna e tuttavia gravida di conseguenze, perché lo scarso valore tributato ai beni esteriori è proprio ciò che consente agli stoici di affermare l’universale dignità umana. Non esiste il rischio che, riabilitandoli, si finisca anche per negare dignità a coloro che di quei beni non dispongono? No, spiega Nussbaum, il riconoscimento che la vita umana necessiti di beni esteriori per fiorire davvero, invece di favorire sperequazioni e degradazioni, presuppone al contrario un impegno maggiore nei confronti degli altri, affinché ciascun essere umano abbia la possibilità di condurre un’esistenza ricca di significato. Per un verso la dignità è allora inalienabile, e come affermano gli stoici appartiene all’individuo in quanto tale, ma per un altro verso è responsabilità nostra e della comunità alla quale apparteniamo contribuire a farla risplendere, dando a ciascuno i mezzi per esprimerla appieno. Questo comporta che i doveri di aiuto materiale siano importanti tanto quanto quelli di giustizia, e che agire moralmente non significhi semplicemente astenersi dal commettere azioni malvagie, ma anche attivarsi in modo concreto per il benessere altrui. Con le sue parole: «Esiste un livello minimo di beni esteriori di cui è giusto preoccuparsi, sia pure strumentalmente, poiché la sua mancanza impedisce a un essere umano di vivere una vita decorosa, all’altezza della dignità umana, così come glielo impedisce la mancanza di libertà politica, di istruzione, di legami associativi e di reciproco rispetto con i propri concittadini» (p. 69). Gli stoici, che pur furono anche riformatori sociali, secondo Nussbaum non si sarebbero mai spinti a tanto: con l’eccezione forse di Cicerone, indiscutibile protagonista della prima parte del libro, che ammorbidisce il rigorismo morale affermando l’importanza dei rapporti umani e in generale dei beni di fortuna per la conduzione di una vita felice.
A questo punto, bisogna però sottolineare come le implicazioni del discorso non chiamino in causa la sola dimensione individuale, bensì anche quella internazionale, come non deve sorprendere vista la prospettiva cosmopolitica della tradizione, secondo la quale tutti gli esseri umani farebbero già parte di un ordine morale universale. Dovremmo sentirci obbligati nei confronti dei popoli diversi dal nostro, e fino a che punto? Una delle domande centrali del saggio, alla quale l’autrice risponde con un energico sì. Cicerone, per altri versi un modello da seguire, da questo punto di vista non sembra più un interlocutore affidabile, dal momento che ripropone a livello internazionale la distinzione tra doveri di giustizia e di aiuto materiale, sostenendo che nelle relazioni tra stati non si dovrebbe pretendere altro che il rispetto dei primi. Occorre allora richiamarsi ad altri autori, per elaborare una teoria della giustizia globale più comprensiva, ed è proprio quello che l’autrice intende fare rivolgendosi a pensatori come Ugo Grozio e Adam Smith.
Il giurista olandese ha il grande merito di traghettare la tradizione stoica nel mondo moderno, calando la prospettiva cosmopolitica nell’orizzonte della statualità. Ecco allora che la concezione groziana del diritto internazionale, incentrata sul riconoscimento di una legge naturale a fondamento della politica, può rivelarsi di grande ispirazione per Nussbaum, insieme alla sua difesa del principio di sovranità. Il tentativo di conciliare i due aspetti, bisogna ammetterlo, finisce inevitabilmente per alimentare tensioni. Se è vero infatti che la ragione impone al potere politico di rispettare l’umanità, secondo Grozio questo non deve neanche diventare un pretesto per ingerirsi in modo sistematico nelle vicende degli altri stati. Difficile però stabilire un criterio univoco, una regola generale per disciplinare l’intervento umanitario, che viene giustificato solo come extrema ratio. Come viene spiegato, «il mondo delineato da Grozio è quindi tutt’altro che semplice. Pur prevedendo un’evoluzione del diritto internazionale, egli prefigura un mondo in cui continuano a esistere anche norme morali vincolanti ma non sancite dal diritto positivo, a meno che questa o quella nazione non le trasformi in leggi» (p. 98). La speranza è allora che le sovranità esistenti traducano sul piano legislativo i comandi della ragione, e che nel frattempo la comunità internazionale si impegni a intervenire nelle vicende degli altri stati solo di fronte a intollerabili crimini contro l’umanità. Oltre a questo, un altro fondamentale contributo del giurista, che in questo innova rispetto alla posizione di Cicerone, va ricercato nella concezione groziana dei beni comuni, ovvero dei doveri di aiuto materiale su scala internazionale, una dimensione del suo pensiero spesso trascurata. Pur senza prefigurare meccanismi o istituti precisi, Grozio avrebbe infatti sostenuto l’imperativo dei paesi ricchi di venire in aiuto dei popoli in difficoltà, spingendosi ad affermare qualcosa di rivoluzionario, ovvero che la condizione d’indigenza, lo stato di necessità che attanaglia i poveri, darebbe loro pieno diritto alle risorse di cui non dispongono, e che anzi ne sarebbero loro i legittimi proprietari.
Sull’importanza dei beni materiali, questa volta nell’ambito di una riflessione più generale sullo sviluppo della personalità umana, Nussbaum analizza poi la posizione di Adam Smith. Nelle pagine del saggio, il filosofo scozzese smette i panni del liberista appassionato e si scopre teorico della giustizia redistributiva. Il riferimento non va alla Teoria dei sentimenti morali, come ci si potrebbe attendere, giudicata dalla filosofa ancora troppo debitrice del rigorismo stoico, ma proprio alla Ricchezza delle nazioni, il classico dell’economia politica, dove Smith riabilita la dimensione pratica dell’esistenza, emancipandola dal disprezzo che una lunga tradizione le aveva riservato. Sensibile alle rivendicazioni dei lavoratori contro le iniquità, egli auspica che lo stato garantisca a tutti un’istruzione minima, affinché le capacità innate presenti in ogni essere umano non deperiscano. Pur senza auspicare stravolgimenti, ecco forse perché l’autrice lo preferisce a un pensatore come Marx, il filosofo scozzese ci ricorda che «la dignità umana non è simile a una roccia, ma è semmai una tenera pianta che in condizioni inclementi appassirà» (p. 136), e che la collettività ha il dovere d’intervenire a favore degli svantaggiati.
Nussbaum prosegue l’itinerario giungendo all’epoca dell’interconnessione globale, dove il cosmopolitismo diviene per ragioni strutturali una prospettiva non solo attraente ma anche necessaria. Bisogna recuperare la tradizione mettendola a confronto con le sfide del presente, nella direzione di un «liberalismo politico globale materialista, basato sulle nozioni di capacità e di funzionamento dell’uomo» (p. 195). Le proposte avanzate dalla filosofa sono molteplici, e appaiono in linea con la sua produzione teorica precedente, come quando – emancipandosi dall’antropocentrismo stoico – afferma l’esigenza di estendere il riconoscimento della dignità a tutti i senzienti. O come quando, arricchendo la lista delle capacità umane che a suo giudizio dovrebbero essere garantite universalmente, confida che sia possibile trovare un consenso per intersezione con qualsiasi cultura. A ogni modo, le pagine più interessanti dell’ultimo lavoro concernono la società internazionale. Considerati i deficit delle organizzazioni sorte in seguito al secondo conflitto mondiale, lungi dall’autrice prospettare soluzioni radicali come la costituzione di un governo planetario, del tutto irrealistico, o auspicare nel breve periodo che i diritti umani vengano riconosciuti e garantiti ovunque allo stesso modo. «La società internazionale rimane soprattutto un ambito di persuasione morale, e solo in rari casi diventa una vera e propria sfera politica. Ma ciò non significa che il processo di creazione e ratifica dei documenti sia inutile: esso genera un senso di solidarietà e di finalità comune, creando le premesse per l’emergere di potenti movimenti transnazionali capaci di influenzare le politiche nazionali» (p. 195). Senza impegnarsi in progetti irrealistici dal punto di vista istituzionale, Nussbaum intende riattualizzare il cosmopolitismo stoico, provando a conciliarlo con il principio della sovranità nazionale. Una prospettiva equilibrata, si direbbe, che ricorda quella di Grozio. Leggendo tra le righe, si viene però a scoprire che è solo la sovranità democratica a meritare considerazione morale, sebbene l’autrice eviti di esplicitarne le conseguenze. Ove si verifichino violazioni dei diritti umani, si deve quindi ritenere legittimo l’intervento umanitario? Nei casi estremi, sembrerebbe di sì. Ma non è affatto chiaro quali soggetti istituzionali dovrebbero farsene carico, se le sole organizzazioni internazionali, che però non sembrano godere dell’autonomia necessaria, o addirittura ogni stato moralmente ispirato. Fatta eccezione per il primo interrogativo, l’autrice non fornisce le doverose spiegazioni, preferendo rimanere sul piano dei principi: inutile rilevare che si tratta però di questioni ineludibili, impossibili da accantonare, e che rappresentano il banco di prova di ogni cosmopolitismo davvero conseguente.
Sulla scorta di Grozio e Smith, Nussbaum insiste poi sulla necessità dell’aiuto materiale alle nazioni sottosviluppate. Ma anche in questo caso, sebbene le dichiarazioni di principio siano più che condivisibili, a colpire è soprattutto l’afflato normativo. Da notare per inciso come l’autrice rifugga da ogni analisi vagamente strutturale del sistema economico mondiale: la prospettiva rimane individualista, incentrata sulla distinzione manichea tra paesi ricchi, i quali avrebbero il dovere morale di condividere parte delle loro risorse, e paesi poveri, bisognosi del soccorso internazionale. Per quanto animato dalle migliori intenzioni, il suo monito presenta almeno due problemi. Da un punto di vista geopolitico, è chiaro che dietro agli aiuti economici si celano molto spesso i disegni imperiali delle grandi potenze, le uniche peraltro a poter elargire risorse significative in mancanza di istituzioni internazionali indipendenti a livello finanziario: la generosità ha valore in quanto tale, certo, ma rappresenta anche una forma particolarmente subdola di esercizio del potere. Nussbaum questo lo sa bene, ma tale consapevolezza non mette capo a una seria problematizzazione degli aiuti all’estero, di cui la filosofa si limita a sostenere l’assoluta necessità morale.[1] Inoltre, per venire al secondo punto, non sembra che la proposta di Nussbaum riesca davvero a emanciparsi dall’accusa di paternalismo, nonostante i molteplici tentativi profusi in tal senso. Ammesso infatti che i paesi ricchi abbiano il dovere d’intervenire a favore di una maggiore eguaglianza planetaria, e che riescano a farlo in modo equamente distribuito, che cosa dovrebbero fare nel frattempo quelli poveri? L’interrogativo è di quelli cruciali, considerando che il saggio ha rivendicato a chiare lettere il diritto universale a un’esistenza dignitosa. Al quietismo, obiettivamente inaccettabile, sembrano profilarsi tre alternative fondamentali. La prima alternativa è rappresentata dalla migrazione economica verso le aree del pianeta più sviluppate, una possibilità che Nussbaum ritiene vada garantita, ed entro certi limiti anche implementata, ma pur sempre nel rispetto delle sovranità nazionali dei paesi ospitanti, che legittimamente pretendono di governare i flussi: il bilanciamento tra accoglienza e protezione, maggiore o minore inclusività delle politiche migratorie, viene quindi rimesso ai singoli governi. Un altro scenario è rappresentato dalla ripresa del conflitto – variamente inteso, anche in senso bellico – contro i paesi ricchi sfruttatori di risorse, uno scenario che però l’autrice neanche prende in considerazione, non fosse altro che per le evidenti difficoltà a ricomprenderlo in una visione morale della politica. Infine, rimane pur sempre aperta la via tracciata dagli stoici, i quali raccomandavano il distacco e l’indifferenza nei confronti dei beni materiali come viatico per la serenità dell’animo: una possibilità che Nussbaum come abbiamo visto rifiuta a livello individuale, e tanto più a livello collettivo. Alle nazioni povere non resta dunque che continuare a fare quello che hanno sempre fatto, tentare cioè di sopravvivere alle dure regole del mercato mondiale varando riforme in grado di stimolare la crescita economica, nella speranza che la comunità internazionale, a cui nello specifico Nussbaum indirizza il suo messaggio, intervenga con politiche di solidarietà.
Che cosa dire, in conclusione? Stimolante per i temi affrontati, indubbiamente di grande attualità, oltre che per l’originale rilettura di Cicerone, Grozio e Smith, il saggio di Nussbaum apre forse più questioni di quante non riesca a risolverne. Se alcune tesi di fondo risultano convincenti, come l’equiparazione tra doveri di giustizia e doveri di aiuto materiale, o il superamento dell’orizzonte antropocentrico nella direzione di un riconoscimento trasversale della dignità, la sua proposta normativa sconta però tutti i limiti della teoria morale, in un certo senso inevitabili. Senza prospettare una futura Cosmopolis, Nussbaum non auspica neanche un ritorno unilaterale alle sovranità nazionali: in quella terra di nessuno, in effetti la sola terra a nostra disposizione, esitiamo tuttavia ad affidarci alla sua bussola.
Note
[1] «Chi sostiene queste tesi è sicuramente ispirato dalle migliori intenzioni, ma rischia di limitarsi a una esibizione di scrupoli morali. Ciò che questi autori sembrano ignorare è che le società moderne sono caratterizzate da una netta differenziazione funzionale fra il codice politico e il codice delle interazioni personali» Zolo D., (1995). Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale. Milano: Feltrinelli, p. 92.
di Michele Gimondo
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Nota di lettura di P. Amoroso, Pensiero terrestre e spazio di gioco, Mimesis, 2019.
Il libro di Prisca Amoroso, Pensiero terrestre e spazio di gioco. L’orizzonte ecologico dell’esperienza a partire da Merleau-Ponty, edito per Mimesis, è un testo che si presta ad almeno due piani di lettura possibili. Per un lato, si tratta di una monografia attenta ad alcuni sviluppi del pensiero di M. Merleau-Ponty che, ad oggi, restano per lo più ai margini dalla critica esegetica (sia detto a titolo indicativo: la centralità dei corsi dedicati all’apprendimento nel bambino, gli influssi di alcuni inediti husserliani, i rapporti laterali con la psicoanalisi di Winnicott, etc.). D’altro lato, ci troviamo di fronte al tentativo di dare consistenza ad un percorso di pensiero originale. Si tratta quindi, tanto di un libro su, quanto di un cammino con Merleau-Ponty. Vorremmo partire da questo particolare intreccio di esegesi critica e costruzione concettuale per restituire alcuni aspetti che ci sembrano maggiormente rilevanti nel tentativo di inserire questo lavoro in contatto con alcuni dibattiti attuali, come quelli dell’ecologia filosofica e del problema della vita (Cfr. Iofrida 2012; Barbaras 2008). A tal fine, vorremmo prendere l’avvio dal capitolo intitolato Vincoli e improvvisazione (pp. 131 - 135), che si situa nel cuore dell’argomentazione dell’autrice. Questi concetti ci offrono uno spaccato interessante del lavoro svolto nel libro e restituiscono alcune cifre della posta in gioco del tentativo di Amoroso. Il particolare interesse di questo capitolo è dato da una sorta di case study, se è lecito esprimersi in questi termini, riportato dall’autrice e citato dal Merleau-Ponty (2010: 46) de La struttura del comportamento: si tratta degli studi del neurologo tedesco Kurt Goldstein (2010, 198 - 199) sullo scarabeo stercoraro. L’interesse per questo case study deriva dal fatto che tanto Goldstein, quanto Merleau-Ponty - e, con loro, Amoroso - considerano questo animaletto come un esempio di adattamento che potremmo definire contingente. Andiamo con ordine.
L’obiettivo - del capitolo come delle sue fonti - è quello di criticare le concezioni meccanicistiche del vivente, dell’animale e del corpo. Secondo Amoroso, in linea con lo spirito merleau-pontyano, in tali modi di pensare al vivente «non c’è spazio per l’improvvisazione» (p. 131). A partire da questa constatazione, Amoroso sottolinea che l’animale non è assimilabile ad una macchina meccanica in quanto, a differenza di quest’ultima, «non possiede un dispositivo prestabilito» (p. 131) di gestualità e azioni, cioè di forme a priori di comportamento. L’animale non è un oggetto (ma potremmo dire, altresì, che non è un noema), piuttosto è espressione di una variegata capacità d’azione in riferimento ad una serie di contesti. «In altri termini, la vita è caratterizzata da una certa forma di ambiguità, di apertura di fronte allo stimolo, dunque di capacità di improvvisare di fronte al domandare, continuamente rinnovato, del reale» (p. 131).
Vediamo emergere, in questi passaggi, una relazione ambientale che restituisce, almeno in parte, la cifra ecologica di queste analisi. Ma emerge altresì una presa di posizione specifica in merito alla questione del vivente. La vita, ma come vedremo è più consono dire l’atto del vivere, è qualcosa che si situa nell’intermondo (cfr. Merleau-Ponty 2008, 147-148) tra le istanze problematiche sollevate dall’ambiente e le capacità di risposta del vivente, capacità che sono sempre aperte e allo stesso tempo vincolate da una specifica topologia, ad una situazione. Vivere consiste nell’essere situati in questo spazio di gioco, mondo intermedio (Iacono 2010, 67-87) tra le urgenze dell’ambiente e le capacità (o plasticità) del vivente.
Ora, è in questa doppia cattura, in questo chiasma per riprendere la concettualità di Merleau-Ponty, che si pone la questione della vita, ed è qui che diviene centrale il lavoro di Goldstein. Amoroso mutua dal neurologo tedesco una peculiare nozione di adattamento: «[q]uesta idea è tematizzata da Goldstein come venire a patti (coming to terms) del soggetto con la situazione: l’organismo riorganizza continuamente se stesso e il proprio mondo in funzione delle proprie possibilità e necessità» (p. 133). Questo modo di concepire l’adattamento esprime l’idea che tra l’ambiente (il quale, in riferimento a von Uexküll, viene declinato dall’autrice nei termini di Umwelt) e l’individuo non si diano mai relazioni univoche e che nessuno dei due termini possa avere un privilegio ontologico sull’altro. In quest’ottica, l’idea di adattamento è interpretata in chiave non riduzionistica. Riprendendo alcuni aspetti del pensiero francese novecentesco (ma non solo: molti i richiami nel libro a Huizinga, Winnicott, etc.), Amoroso vuol evidenziare che l’adattamento e il chiasma tra individuo e ambiente mette in risalto che è la relazione ad aver valore d’essere, la quale è irriducibile ad uno solo dei due poli: nessuna priorità ontologica dell’ambiente sull’individuo, né dell’individuo sull’ambiente.
Per un verso, infatti, «l’organismo contrae il mondo per adattarlo alla propria condizione» - nel duplice senso del termine contrarre: ridurlo ai dintorni, ma anche assumerlo come abitudine -, mentre per un altro, «il vivente si adatta esso stesso al proprio ambiente, si riorganizza nel proprio rapporto con esso» (p. 134). Per evidenziare questo chiasma tra attività e passività (dell’organismo come dell’ambiente), Amoroso si richiama allo scarabeo analizzato da Goldstein, il quale «deambula, quando è sano, sempre con un’andatura ambiale, e, nel caso di amputazione di una o più falangi, usa alternativamente l’ambio e il trotto, a seconda dell’ambiente in cui si trova» (p. 135). L’esempio è utilizzato, come detto, anche da Merleau-Ponty (2010, p. 46) il quale sottolinea che tale capacità «non si verifica che sotto la pressione delle condizioni esteriori».
Questo doppio vincolo, questa relazione di continui feedback tra individuo e ambiente, è espressione della capacità dell’organismo «di far valere la propria libertà rispetto ad un limite […]. Rispetto ad un problema cui non era destinato dalla propria natura, l’animale dimostra una capacità quasi inventiva, di riassestarsi. Un vivente così pensato non è macchina almeno quanto esso non si costituisce come libertà assoluta» (p. 135).
Torneremo a breve su quest’ultimo passaggio. Per il momento è opportuno sottolineare che la capacità inventiva del vivente è espressione di un processo di adattamento basato su una negoziazione continua tra il dentro e il fuori, tra l’individuo e l’ambiente. Insomma, in primissima istanza vivere è una relazione che si basa sul venire a patti con l’ambiente, con un continuo risolvere problemi o, per dirla con Merleau-Ponty (2003, 293-318), rispondere alle avversità dell’esistenza.
In un’ottica di tal fatta viene a cadere l’idea di un ambiente come Natura Originaria, ovvero come principio Naturante (si tratta dunque di una posizione ecologica e non naturalistica, in quanto predilige le relazioni alle cose [Sachen]). Ma viene meno anche l’idea di un individuo isolato, dato che esso è sempre determinato dai processi di individuazione. Quella tra individuo e ambiente, così, è una relazione ambigua e avversativa che mette in atto processi di individuazione vivente.
Trattandosi di una posizione non naturalistica, la relazione vitale non è qualcosa di naturale, ma va sempre giocata e istituita: essa non è data ma è sempre da farsi. Vivere si presenta così come una prassi e non come l’oggetto di un sapere particolare o un noema: più che al Bìos, vivere rimanda ad un piano agonale, a qualcosa da fare piuttosto che a una mera cosa [Blosse Sache]. La vita, insomma, va praticata.
Con quest’ultima considerazione ci spostiamo su un altro riferimento centrale del libro di Amoroso: il biologo olandese Frederik J. Buytendijk, anch’egli tra le fonti di Merleau-Ponty. L’autrice mutua dallo scienziato l’espressione scandalo biologico dell’allegrezza, che dà il titolo ad un capitolo di poco successivo al primo commentato (pp. 151 - 155). Questa formula esprime l’idea che se il vivere è una prassi - attiva quanto passiva - e non un dispositivo prestabilito comportamentale, allora l’atto del vivere si presenta come una molteplice e variegata ricchezza di espressioni vitali, spesso anche del tutto inattese (mostruose, fuori natura e finanche pericolose per il vivente stesso). Proprio in questa multiforme varietà inattesa consiste lo scandalo della vita: essa non è riducibile ad un meccanismo, ma, mediante la doppia cattura, non è neppure uno slancio vitale, pura libertà assoluta, come abbiamo avuto modo di accennare.
Nell’ottica di uno slancio vitale, infatti, la vita non avrebbe altro senso se non se stessa, riproponendo nuovamente un dualismo tra qualcosa che ha un fine in sé e qualcosa che ha un fine fuori di sé. Si tratta di una prospettiva nella quale la vita ha un valore in sé, come un nuovo imperativo categorico e non ci sarebbe spazio per i singoli viventi poiché avrebbero il fine fuori di sé e dunque sarebbero solo mezzi attraverso i quali la vita esprimerebbe se stessa.
Lo scandalo del vivere, al contrario, è che vi sia la possibilità, nonostante tutto, di una vita. Lo scandalo consiste nel fatto che vivere non è che un continuo processo di indeterminazione e individuazione e che non ci si possa rapportare a questo vivere se non, per riprendere il lessico di Mille piani di Deleuze e Guattari (2015, 51), nella modalità della sottrazione, dell’ N-1. Ecco lo scandalo del vivere: si deve sempre strappare una vita dalle avversità, dalle contingenze, dalle istanze problematiche, perché vivere non è qualcosa che è esente dal fare dei singoli viventi. Vi sono infinite vite possibili e non una Vita Infinita: molteplici viventi infinitamente variegati, affetti in infiniti modi.
Un vivente, una vita è situata sempre nel mezzo dell’attivo e del passivo, dell’azione e della passione, è sempre aperta ai rischi e a forme di resistenza che ne ostacolano lo sviluppo: una vita, un vivente è sempre un paradosso esistenziale. Contro l’imperativo categorico della Vita Infinita, Amoroso tenta di giocare la carta della finalità senza scopo del vivente (pp. 195 ss), un finalismo che determina la dimensione contingente e paradossale di una vita. Vivere non è mai dunque un sostantivo, ma, di nuovo, un verbo, un agire, una pragmatica. Una vita non è che un continuo venire a patti con ciò che c’è, con e dentro l’esistente: un continuo attuare equilibri metastabili. Vivere, quindi, non è che creare delle resistenze nell’esistente.
Radicalizziamo ancora la tesi: vivere significa costringere l’esistenza a trasformarsi. Ciò fa sì che non si vive mai semplicemente contro la morte, vivere non è questione di mera sopravvivenza. Se vivere è un processo di adattamento continuo, questo adattamento non sarà, quanto meno in prima istanza, una lotta per la sopravvivenza (la quale presuppone, come argutamente sottolinea Amoroso, un ultimatum dell’ambiente all’organismo, p. 153), ma una lotta per trasformare l’esistente. Dal venire a patti allo scandalo dell’allegrezza, quindi: riecheggia, nel libro di Amoroso, l’idea che è solo attraverso l’allegrezza che si può vivere, ovvero trasformare l’esistenza. Sono le spinoziane passioni gioiose che aumentano lo spazio di gioco nelle avversità di una vita. Spinoziane, certamente. Ma anche profondamente merleau-pontyane (cfr. Merleau-Ponty 2008, 148 ss; 2003, 277-293): vivere non è la lotta a morte tra rivali, che condurrebbe ad una concezione competitiva della vita, ma la cooperazione tra viventi per trasformare lo stato di cose.
Ecco quindi tre concetti chiave del lavoro di Amoroso: vita, esistenza e trasformazione. Tutti e tre questi concetti necessitano di uno spazio di gioco (Amoroso mutua il termine husserliano Spielraum, pp. 127-130) ove far crescere le relazioni, unico oggetto possibile dell’ontologia (la domanda ontologica, merleau-pontyanamente, non riguarda l’Essere, ma l’atto di creazione delle relazioni). Inevitabile, così, che tali riflessioni approdino al problema della soggettività e, con essa, alla critica di alcuni sviluppi della filosofia cartesiana. Con Merleau-Ponty, Amoroso tenta di delineare un’etica della contingenza (pp. 211 - 215), ovvero concepire la soggettività come potenza d’agire e non come interiorità cosciente e pensante: tentare di sostituire all’Ego Cogito, un Ich Kann, un Io posso. Un soggetto non è altro così da una vita che si pratica nei meandri delle avversità dell’esistenza.
Queste ultime considerazioni ci riportano al capitolo del libro di Amoroso dal quale siamo partiti, Vincoli e improvvisazione. Qui l’autrice connette la già commentata idea di Goldstein al lavoro del poeta Paul Valèry. Strana unione tra Scienza e Poesia, tra Ragione e Sentimento che ci limitiamo a segnalare e che nei lettori più avveduti non può che risuonare con il lavoro di Merleau-Ponty. In particolare, però, Amoroso rilancia l’importanza della nozione di Implexe «che esprime [la] fondamentale eventualità della vita» (p. 132). L’Implexe, infatti, è per il poeta francese «ciò per cui io sono eventuale» (p. 133). Amoroso fa giocare questa nozione contro l’idea di soggetto come cosa pensante, o, per essere più precisi, contro una concezione sostanzialistica della soggettività. L’autrice rilancia l’idea che una soggettività, in quanto qualcosa che può, non è identificabile col pensiero - non nei termini del Cogito, quanto meno - ma con l’eventualità.
Essere viventi, essere al mondo, divenire una vita significa essere sempre in relazione con qualcos’altro che c’è già, un qualcosa che ci precede e che ci supera. Essere una vita, inoltre, non è mai una condizione solipsistica: si vive sempre in una molteplicità, mai per sé. Una vita è pur sempre un’esistenza collettiva e intersoggettiva, mai meramente individuale. Ma ciò implica anche che, mentre la soggettività non è un per sé, il qualcosa non è neppure un in sé: non è un quid meramente indeterminato, ma un piano di esistenza avversativo che richiede la nostra vita, la nostra opera, la nostra incompiutezza. Essere viventi significa essere eventuali. Ma quest’ultima determinazione ci dice anche che vivere non è un pratica tra le altre. Vivere è una vera e propria ars inveniendi. In questa prospettiva si apre uno spiraglio, un cammino possibile verso una noologia di ispirazione merleau-pontyana, con cui vogliamo concludere.
Il pensiero (un pensiero terrestre, nietzscheanamente fatto di carne e nervi), svincolato dalla forma soggettiva, diviene una specie di virtù e in quanto tale occorre imparare a praticarla. Pensare, nella prospettiva di Amoroso, vuol dire apprendere e imparare a costruire insieme agli altri (umani e non) degli spazi di gioco nei quali poter sperimentare l’eventualità di una vita. Ma pensare vuol dire altresì costringere l’esistente a venire a patti con quella scandalosa allegrezza di una vita collettiva, l’unica soggettività capace di resistere alle avversità di ciò che c’è.
di Gianluca De Fazio
Bibliografia
Barbaras, R. (2008). Introduction à une phénoménologie de la vie. Paris: Vrin.
Deleuze, G. & Guttari, F. (2015). Mille piani. Roma: Castelvecchi.
Goldstein, K. (2010). L’organismo. Trad. it. Di L. Corsi. Roma: Fioriti.
Iacono, A.M. (2010). L’illusione e il sostituto, Milano: Mondadori.
Iofrida, M. (2012). Vita natura soggetto, in M. Iofrida (a cura di), Crisi. Condizione e progetto. Modena: Mucchi.
Merleau-Ponty, M. (2003). Segni. Trad. it. di G. Alfieri. Milano: Net.
Merleau-Ponty, M. (2008). Le avventure della dialettica. Trad. it. di D. Scarso. Milano-Udine: Mimesis.
Merleau-Ponty, M. (2010). La struttura del comportamento. Trad. it. di M. Ghilardi e L. Taddio. Milano-Udine: Mimesis.
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#philosophers #6-1 – Bernard Stiegler
#philosophers, Serial / Dicembre 2016Nella sesta puntata di #philosophers, divisa in due parti (qui la prima), abbiamo incontrato Bernard Stiegler, filosofo e direttore dell'Institut de recherche et d'innovation (IRI) presso il Centre Georges Pompidou di Parigi. Abbiamo discusso di situazioni che cambiano la vita, di tecnica e del ruolo della filosofia, oggi.
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Freud e il femminile
Lacaniana, Serial / Gennaio 2015La vulgata dice che Freud era maschilista: di questo fu accusato più o meno velatamente, anche nell’ambito della psicoanalisi, e questa accusa ancora oggi ha i suoi echi. Ma che cosa ha apportato Freud intorno alla questione del femminile? Potremmo dire che il lascito maggiore su questo tema è stato aver aperto delle interrogazioni su punti per lui oscuri, e di averle lasciate aperte. Non poco come insegnamento in un mondo dove non c’è più posto per il fallimento, per il dubbio, per la ricerca, ma solo per il risultato e la riuscita performativa. Aveva lasciato queste domande aperte chiedendo esplicitamente alle donne psicoanaliste di provare a trovare delle risposte, perché forse, essendo donne, avrebbero avuto maggiore facilità. Non sono state invece le donne psicoanaliste a far avanzare la faccenda, ma è stato uno psicoanalista francese, Jacques Lacan, colui che ha apportato del nuovo in questo campo.
Tutti sappiamo, dalla nostra stessa esperienza e da quello che ci circonda nel mondo, che l’assunzione dell’identità sessuale non corrisponde all'appartenenza anatomica a un sesso o a un altro. Dunque, Freud si domanda innanzi tutto come si introduce la differenza sessuale. E rileva che questa prende avvio primariamente a partire dall’immagine, dato che è a partire dall’immagine del corpo che un nuovo nato, fin da subito, è inscritto simbolicamente come maschio o femmina. Due corpi differenti, quello maschile e quello femminile, la cui differenza appunto, data da un pezzo di carne presente o assente a livello dell’immagine, si traspone immediatamente su un piano simbolico: maschio o femmina, ce l’ha o non ce l’ha, + o -. E per sottolineare la separazione di ciò di cui si tratta dalla realtà fattuale, cioè dal livello puramente organico, Freud gli ha dato il nome degli antichi misteri: il fallo.
La bambina, dice Freud, manca di qualcosa: manca del fallo. Sarà Lacan, introducendo le categorie di Simbolico, Immaginario e Reale, a permetterci di situare questa mancanza al livello che le è proprio. Infatti, una simile mancanza è tale a livello immaginario e simbolico, ma dato che il nostro mondo è essenzialmente un mondo organizzato dal simbolico, ovvero dal linguaggio, questa mancanza ha la sua incidenza, e la bambina dovrà, volente o nolente, farci i conti. Freud immaginava che la bambina potesse recuperare quella stessa mancanza attraverso un sostituto del fallo (il termine stesso di sostituzione ci dice che siamo in un campo simbolico), ovvero con il bambino che, un giorno, avrebbe potuto avere al posto del fallo. Ne deduceva così che la migliore via d'uscita per la sessualità, dal lato femminile, fosse la maternità. Ma alla fine della sua vita, si è accorto che questa soluzione, la soluzione della sostituzione fallica, non era sufficiente per spiegare completamente la questione del femminile, che per lui resterà “il continente nero”.
Dunque Freud scopre che a livello della rappresentazione simbolica non c’è che un solo simbolo: il fallo. Lacan ci dirà, utilizzando i termini della linguistica, che mentre c’è un significante per rappresentare l’uomo, non ce n’è analogamente uno per la donna. Se c’è l’universale maschile non c’è quello femminile. E non si tratta solo di rappresentazione, ma anche di godimento. La donna può trovare la propria rappresentazione attraverso il fallo, ma non tutta. La donna può godere del fallo (cioè di ciò che ha: il bambino, diceva Freud, ma in quel posto di sostituto si può trovare qualsiasi altro oggetto), ma non tutta. Non tutto del femminile è preso dal versante fallico.
Freud aveva presentito questo, e si domandava infatti: che cosa vuole una donna? Sarà con Lacan che la questione potrà avanzare: se non c’è un universale femminile, le donne si contano solo una per una. Se la donna non gode solo del fallo, c’è un godimento femminile che eccede, che non è dicibile proprio in quanto non rappresentabile e non universalizzabile. Questioni accademiche? Non tanto, se pensiamo alle difficoltà della relazione fra i sessi, che toccano tutti gli esseri parlanti ma che oggi, forse più che un tempo, sfociano nella violenza: violenza che mira ad annientare quella differenza, a rigettarla, di cui non si vuole sapere nulla.
Bibliografia:
S. Freud (1978). Alcune conseguenze psichiche della differenza anatomica fra i sessi. In Id., Opere. Vol. 10. Torino: Bollati Boringhieri.
Id. (1979). Sessualità femminile. In Id., Opere. Vol. 11. Torino: Bollati Boringhieri
J. Lacan (1974). Appunti direttivi per un congresso sulla sessualità femminile. In Id., Scritti. Torino: Einaudi
Id. (2011). Il seminario, Libro XX, Ancora. Torino: Einaudi
di Paola Bolgiani
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PK#1 \ Il prisma trascendentale. I colori del reale
Rivista / Settembre 2014Non occorre un grande impegno teorico per mostrare come si possa fare filosofia senza ricorrere alla nozione di “trascendentale” ‒ oppure, in maniera più profonda, senza assumere la posizione trascendentale. Lo mostra, banalmente, la storia del pensiero filosofico novecentesco. Dalla filosofia analitica alla filosofia ermeneutica, non si contano le tradizioni filosofiche che hanno reso persuasiva l’idea secondo cui l’interrogazione filosofica potesse ‒ e, anzi, dovesse ‒ articolarsi senza ripetere il gesto fondativo, ovvero senza declinare la domanda sulla fondazione in modo tale da dover passare attraverso la questione trascendentale.
Si fa prima se si interrogano i saperi che descrivono ‒ o spiegano ‒ l’esperienza. Si fa prima se si imposta il discorso filosofico immettendolo nell’alveo del discorso scientifico, il quale parla direttamente dell’esperienza. Un po’ come quando si deve insegnare a qualcuno come si nuota. Gli si mostrano i gesti del nuoto stando sulla riva? No, lo si butta in acqua, magari in acque poco profonde, e gli si insegna, dentro l’acqua, a nuotare. Così, appunto, si fa prima. Assumere la posizione trascendentale, in tale prospettiva, non risulta essere altro che un’inutile perdita di tempo.
Tuttavia, è lecito almeno sollevare un dubbio: si può davvero accordare alla filosofia il ruolo di sapere critico, che interroga i propri fondamenti, quelli degli altri saperi e, più in generale, il fondamento del rapporto tra sapere ed esperienza, senza passare attraverso la nozione di trascendentale? Si può davvero fare a meno di chiedersi sia come è fatto, in generale, il soggetto che fa esperienza del mondo, sia come sono fatti quei mondi ai quali si rapporta ogni esperienza possibile?
Se tale domanda, tale dubbio, risulta anche solo vagamente plausibile, allora si vede bene che perseguire l’obiettivo di praticare una filosofia in qualche modo definibile come “trascendentale” non si configura più come una semplice perdita di tempo.
Tutta la difficoltà sta, ora, nel mettersi d’accordo su ciò che l’espressione “in qualche modo” indica. Lo scopo di questo primo numero consiste nel mettere alla prova alcune possibili letture e declinazioni di tale espressione
A cura di Philosophy Kitchen
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DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/1.2014
Pubblicato: settembre 2014
Indice
Lato I
Giovanni Leghissa - Il trascendentale, ovvero il rimosso della filosofia. Proposte per una terapia [PDF It]
Rocco Ronchi - Puro apparire [PDF It]
Jean-Christophe Goddard - La Wissenschaftslehre. Une contribution décisive à l'anthropologie de la modernité [PDF Fr]
Lato II
Claudio Tarditi - Oltre il trascendentale, il trascendentale. In dialogo con Husserl [PDF It]
Paolo Vignola - La stupida genesi del pensiero. Trascendentale e sintomatologia in G. Deleuze [PDF It]
Lato III
Alberto Andronico - Custodire il vuoto. Uno studio sul fondamento del sistema giuridico [PDF It]
Emanuela Magno - Dal pensiero alla vacuità. La critica nāgārjuniana e il trascendentale [PDF It]
Carlo Molinar Min - Il ritmo della decostruzione. Un'esperienza quasi-trascendentale [PDF It]
Lato IV
Alessandro Salice, Genki Uemura - Naturalizzare la fenomenologia senza naturalismo [PDF It]
Traduzioni
Bernard Stiegler - Tempo e individuazione tecnica, psichica e collettiva nell’opera di Simondon [PDF It]
Claude Romano - Il problema del mondo e l'olismo dell'esperienza [PDF It]