Nel suo primo libro che non si presenta nella forma di studio monografico su un autore, ma come un’opera di carattere spiccatamente teorico, vale a dire Différence et répétition, Gilles Deleuze introduce un tema significativo: quello dell’incrinatura dell’Io. Egli fa risalire la presa di coscienza di tale fenomeno a Kant, richiamando in particolare una nota, nella Critica della ragione pura, in cui si legge: «L’io penso esprime l’atto del determinare la mia esistenza. Con ciò l’esistenza è quindi già data; tuttavia, con ciò non è ancora dato il modo in cui io debba determinare tale esistenza, cioè porre in me il molteplice che appartiene ad essa. Per questo si richiede l’auto-intuizione, che si fonda su una forma data a priori, cioè il tempo» (Kant 1997: 115) [1]. Da questa breve osservazione derivano, secondo Deleuze, conseguenze radicali. Infatti, se «la mia esistenza indeterminata può essere determinata solo nel tempo», allora «la spontaneità di cui ho coscienza nell’Io penso non può essere intesa come l’attributo di un essere sostanziale e spontaneo, ma soltanto come l’affezione di un io passivo il quale avverte che il proprio pensiero, la propria intelligenza, ciò attraverso cui egli dice io, si esercita in lui e su di lui […]. L’attività del pensiero si applica a un essere ricettivo, a un soggetto passivo, che si rappresenta dunque tale attività piuttosto che attuarla, ne sente l’effetto piuttosto di averne l’iniziativa, e che la vive come un Altro dentro di lui. […] Da parte a parte, l’io è come attraversato da un’incrinatura; è incrinato dalla forma pura e vuota del tempo» (Deleuze 1997: 116-117) [2].
Ma non basta: mentre ancora in Descartes «l’identità supposta dell’Io non ha altro garante che l’unità di Dio stesso», Kant annuncia «la simultanea scomparsa della teologia razionale e della psicologia razionale, il modo in cui la morte speculativa di Dio porta con sé un’incrinatura dell’Io» (Deleuze 1997: 116). Va precisato, però, che quest’audace avanzata teorica kantiana è seguita da un arretramento, per cui «il Dio e l’Io conoscono una resurrezione pratica. E anche nell’ambito speculativo, l’incrinatura è presto colmata da una nuova forma d’identità, l’identità sintetica attiva» (Deleuze 1997: 117). La prospettiva prima dischiusa e poi richiusa da Kant viene, a giudizio di Deleuze, riaperta da un poeta, Hölderlin, «che scopre il vuoto del tempo puro e, in tale vuoto, scopre nel contempo il continuo distogliersi del divino, l’incrinatura prolungata dell’Io e la passione costitutiva del Me. In questa forma del tempo, Hölderlin scorgeva l’essenza del tragico o l’avventura di Edipo, come un istinto di morte» Deleuze 1997: 117).
Il riferimento è ai commenti aggiunti dal poeta alle proprie traduzioni di due tragedie di Sofocle, e in particolare alle Note all’«Edipo» (Hölderlin 2019: 763-773). Qui Hölderlin sostiene che nella tragedia trova espressione il fatto che, «in un’epoca ristagnante, il dio e l’uomo, affinché non vi sia lacuna nel corso del mondo e non si spenga la memoria dei celesti, comunicano nella forma, dimentica di tutto, dell’infedeltà […]. In tale momento l’uomo dimentica sé e il dio, e gli si rivolta – seppur in modo sacro – come un traditore. Al limite estremo della sofferenza, infatti, non esiste più niente, tranne le condizioni del tempo e dello spazio» (Hölderlin 2019: 772-773). Deleuze allude anche a un’altra osservazione hölderliniana, quella secondo cui, essendo «il trasporto tragico […] in sé vuoto», ne consegue che, «nella sequenza ritmica delle figurazioni in cui il trasporto si manifesta, diventa necessaria la parola pura, l’interruzione antiritmica – ciò che nella metrica si chiama cesura» (Hölderlin 2019: 764). Quest’ultima nozione viene rapportata dal filosofo francese non soltanto al tempo, ma anche alla psiche, per cui «sono la cesura, e il prima e il dopo che essa ordina una volta per tutte, a costituire l’incrinatura dell’Io (la cesura è esattamente il punto d’insorgenza dell’incrinatura)» (Deleuze 1997: 119).
Già dai pochi passi citati (relativi a Kant e Hölderlin) emergono due tratti caratteristici: la propensione di Deleuze a proporre interpretazioni piuttosto libere dei testi, in funzione di una teoria che egli intende avanzare per interposta persona, e la tendenza ad utilizzare spesso esempi letterari, accanto a quelli filosofici. Questo secondo aspetto del suo modo di procedere trova conferma nel rinvio, nelle stesse pagine, a testi narrativi: «Sul tema di una “incrinatura” dell’Io, in rapporto essenziale con la forma del tempo intesa come istinto di morte, ci si riporterà a tre grandi opere letterarie, benché assai diverse fra loro: La bête humaine di Zola, Il crollo di F. S. Fitzgerald, Sotto il vulcano di M. Lowry» (Deleuze 1997: 117) [3].
Al primo di questi testi, Deleuze ha dedicato un saggio, incluso nel volume Logique du sens (Deleuze 1975: 281-291). Egli ricorda che è stato lo stesso Zola ad usare nel suo romanzo il termine «incrinatura», in riferimento a una specie di tara ereditaria di cui il protagonista, Jacques Lantier, subisce le conseguenze (Zola 2019: 63-64). In effetti è noto che lo scrittore prestava molto credito alle teorie, in voga a quell’epoca, relative all’ereditarietà. Ma Deleuze sostiene che, nel caso specifico di Lantier, le cose sono più complesse: «L’ereditarietà non è ciò che passa attraverso l’incrinatura, ma è l’incrinatura stessa: la frattura o il buco, impercettibili. […] Non trasmette nulla tranne se stessa» (Deleuze 1975: 282). Anche l’istinto (sessuale o omicida) a cui il protagonista cede, con esiti rovinosi per lui e per altri, «non si confonde mai con l’incrinatura, ma intrattiene con essa stretti rapporti variabili: ora la ricopre e rincolla alla meglio, e per un tempo più o meno lungo […]; ora l’allarga, le dà un diverso orientamento che fa esplodere i frammenti» (Deleuze 1975: 282-283). L’incrinatura non opera dunque alla maniera dell’ereditarietà, «non riproduce un “medesimo”, non riproduce nulla, si limita ad avanzare in silenzio, a seguire le linee di minor resistenza, sempre deviando, pronta a cambiare direzione» (Deleuze 1975: 284). Da ultimo, il filosofo ritiene di poter affermare che «l’essenziale di La bête humaine è l’istinto di morte nel personaggio principale, l’incrinatura cerebrale di Jacques Lantier, macchinista di locomotiva» (Deleuze 1975: 286).
Parlare di istinto di morte equivale senza dubbio a chiamare in causa la psicoanalisi. In Différence et répétition, Deleuze ricorda le tesi esposte (o, per meglio dire, prese in esame) da Freud in Al di là del principio del piacere (Freud 1989: 187-249), e tuttavia lo fa soprattutto al fine di contestarle. Così, se il fondatore della psicoanalisi giungeva a ipotizzare un contrasto di fondo tra pulsioni di vita, identificabili con l’eros, e pulsioni di morte, il filosofo nega l’indipendenza di queste ultime: «Non vediamo dunque alcuna ragione per supporre un istinto di morte che si distingua da Eros, sia per una differenza di natura tra due forze, sia per una differenza di ritmo o di ampiezza tra due movimenti. In entrambi i casi, la differenza sarebbe già data, e Thanatos indipendente. Secondo noi, al contrario, Thanatos si confonde interamente con la desessualizzazione di Eros» (Deleuze 1997: 148). Poiché la concezione di Deleuze è di tipo essenzialmente vitalistico, egli non può far altro che arretrare di fronte all’idea che esista un’autonomia delle pulsioni di morte.
Nel contempo, però, egli si rende conto che sarebbe poco corretto pensare all’incrinatura dell’io come se si trattasse unicamente di un fenomeno negativo, di una mera sottrazione di energia, sicché in altri punti del suo libro egli presenta la crepa che si produce nella psiche in maniera del tutto differente, ossia come generatrice di idee: «Per quanto il Cogito rinvii a un Io incrinato, spaccato da parte a parte dalla forma del tempo che lo attraversa, bisogna dire che le Idee formicolano in tale incrinatura, emergono costantemente sui bordi di essa, uscendo e rientrando senza posa, componendosi in mille modi diversi» (Deleuze 1997: 221). Può sembrare contraddittorio conferire all’incrinatura psichica caratteri nel contempo negativi e positivi, ma questa duplicità appartiene alla natura stessa del fenomeno in questione. Chi subisce gli effetti dell’incrinatura si trova suo malgrado a sperimentare qualcosa di eccessivo, che lo destabilizza fin nel profondo. A ciò può reagire in due maniere opposte, o lasciandosi scivolare sulla china della perdita, dell’istinto di morte, oppure trasformando l’incrinatura in uno stimolo, ad esempio per la creazione di concetti filosofici o di opere artistiche.
Infatti l’insorgenza del pensiero innovativo non dipende, secondo Deleuze, da una predisposizione innata o da uno sforzo volontaristico, bensì da uno choc iniziale che si è subito. Già nel suo libro su Proust egli avvertiva che «il torto della filosofia sta nel presupporre in noi una buona volontà di pensare, un desiderio, un amore naturale del vero. Perciò la filosofia arriva soltanto a verità astratte, che non compromettono nessuno e non sconvolgono nulla. […] Tali idee restano gratuite, perché sono nate dall’intelligenza, che conferisce loro una sola possibilità, e non da un incontro o da una violenza che potrebbero garantirne l’autenticità. […] La verità dipende da un incontro con qualcosa che ci costringe a pensare, e a cercare il vero» (Deleuze 1986: 16-17). Dato che Deleuze sta parlando di Proust, si può scorgere una corrispondenza tra la valorizzazione delle idee filosofiche subite rispetto a quelle elaborate razionalmente e il privilegio (conoscitivo, oltre che emotivo) concesso dall’autore della Recherche alla memoria involontaria in confronto a quella volontaria. Ma anche nel diverso contesto di Différence et répétition Deleuze ribadisce che le idee cui si perviene per semplice ragionamento logico hanno un valore limitato: «Manca ad esse una provocazione, che sarebbe quella della necessità assoluta, cioè di una violenza originaria fatta al pensiero, di un’estraneità, di un’inimicizia che sola lo farebbe uscire dal suo stupore naturale o dalla sua eterna possibilità: […] non c’è pensiero se non involontario, costrizione suscitata nel pensiero» (Deleuze 1997: 182).
Il fatto che la violenza subita dalla psiche non raggiunga necessariamente l’individuo quando si trova nel pieno possesso delle proprie forze fisiche e mentali, ma possa pure esercitarsi su persone in apparenza deboli verrà chiarito in opere successive, a cominciare da Dialogues. In quel libro leggiamo che, «attraverso ogni combinazione fragile, è una potenza di vita ad affermarsi, con una forza, un’ostinazione, una perseveranza nell’essere che sono impareggiabili. È curioso come i grandi pensatori abbiano una vita personale fragile, una salute molto incerta, e al tempo stesso innalzino la vita allo stato di potenza assoluta o di “grande Salute”» (Deleuze & Parnet 1998: 11-12) [4]. Così, parlando dei filosofi a cui si sente più legato, primi fra tutti Spinoza e Nietzsche, Deleuze osserva: «Tutti questi pensatori hanno una costituzione fragile, eppure sono attraversati da una vita insuperabile. Procedono solo per potenza positiva, e di affermazione. Hanno una sorta di culto della vita» (Deleuze & Parnet 1998: 21). È ammirevole la discrezione che induce il pensatore francese a non dire nulla riguardo al proprio stesso caso, che è quello di una persona afflitta, per gran parte dell’esistenza, da seri problemi di salute.
Il discorso non è valido solo per il filosofo, ma anche per l’artista. Quest’ultimo – si legge in un’altra opera – è qualcuno che «ha visto nella vita qualcosa di troppo grande, di troppo intollerabile anche», ed è proprio questa esperienza a renderlo «un veggente, un diveniente» (Deleuze & Guattari 1996: 176). Occorre dunque essersi trovati ad affrontare una dura prova: «Per aver raggiunto il percetto come “la fonte sacra”, per aver visto la Vita nel vivente o il Vivente nel vissuto, il romanziere o il pittore tornano con gli occhi rossi, col fiato corto» (Deleuze & Guattari 1996: 177) [5]. Sotto questo profilo, dunque, non c’è differenza tra il pensatore, che lavora con i concetti, e l’artista, che invece ha a che fare con i percetti. «In tal senso gli artisti sono come i filosofi, hanno spesso una salute troppo fragile; non a causa delle malattie o delle nevrosi, ma perché hanno visto nella vita qualcosa di troppo grande per chiunque, di troppo grande per loro, e che ha impresso su di essi il sigillo discreto della morte. Ma questo è anche la fonte o il respiro che consente loro di vivere, attraverso le malattie del vissuto (è ciò che Nietzsche chiamava salute)» (Deleuze & Guattari 1996: 178).
Anche nell’ultimo libro pubblicato in vita, Critique et clinique, il filosofo tornerà a ribadire la propria convinzione, parlando stavolta in maniera più specifica degli autori di opere letterarie: «Non si scrive con le proprie nevrosi. La nevrosi, la psicosi non sono passaggi di vita, ma stati in cui si cade quando il processo è interrotto, impedito, chiuso. […] Perciò lo scrittore in quanto tale non è malato, ma piuttosto medico, medico di se stesso e del mondo. Il mondo è l’insieme dei sintomi di una malattia che si confonde con l’uomo. La letteratura appare allora come un’impresa di salute: non che lo scrittore abbia necessariamente una salute vigorosa […], ma gode di un’irresistibile salute precaria che deriva dall’aver visto e sentito cose troppo grandi, troppo forti per lui, irrespirabili, il cui passaggio lo sfinisce, e tuttavia gli dischiude dei divenire che una buona salute dominante renderebbe impossibili» (Deleuze 1996: 16).
In queste stesse frasi non mancano gli echi letterari. Così la formula «cose troppo grandi, troppo forti per lui», presuppone forse, da parte di Deleuze, la reminiscenza di una lettura di Proust: infatti, nel romanzo giovanile incompiuto Jean Santeuil, il protagonista manifestava le proprie incertezze e paure pensando: «Il mondo è troppo complicato per me, la vita è troppo forte per me» (Proust 1976: 63). Quanto poi all’idea secondo cui lo scrittore non va considerato come malato bensì come terapeuta, era già stata formulata da un altro scrittore caro al filosofo, ossia Artaud, che parlando a nome degli alienati (categoria a cui sentiva di appartenere) dichiarava: «Noi che il dolore ha fatto viaggiare nella nostra anima alla ricerca di un luogo di calma a cui aggrapparci, alla ricerca della stabilità nel male come gli altri nel bene. Noi non siamo folli, siamo dei medici meravigliosi» (Artaud 2004: 128). Un terzo riferimento, stavolta reso esplicito da Deleuze, è al testo in cui Michaux, riferendosi alla propria raccolta di brani narrativi e poetici dal titolo Mes propriétés, dichiara di averla composta «per la mia salute. Senza dubbio non si scrive per un motivo diverso. Non si pensa in altro modo. […] Questo libro, quest’esperienza che pare dunque provenire tutta dall’egoismo, mi spingerei fino a dire che è sociale, a tal punto si tratta di un’operazione alla portata di tutti e che sembra dover essere così vantaggiosa per i deboli, i malati e malaticci, i bambini, gli oppressi e i disadattati di ogni genere. In tal modo, vorrei essere stato utile almeno a quei sofferenti immaginosi, involontari, perpetui» (Michaux 1998: 511-512) [6].
Si può dire pertanto che aver subito una certa incrinatura a livello psichico, o comunque l’aver fatto esperienza di qualcosa che destabilizza il soggetto percipiente, sottoponendolo a un eccesso di dolore (o magari di gioia), se può in certi casi indebolirne le difese, così da indurlo a cedere a pulsioni mortifere, in altri e più fortunati casi può conferirgli delle capacità di pensiero e di creazione che in precedenza erano per lui inaccessibili. Deleuze elogia ad esempio scrittori americani come Fitzgerald e Lowry perché, a suo dire, hanno colto appieno la potenza della vita e, per poterla sopportare, hanno fatto ricorso all’alcol. Questo ha consentito ad essi di trasmettere, nella scrittura letteraria, la loro particolare visione, ma evidentemente ha comportato anche dei rischi, poiché in effetti occorrerebbe sempre «fare in modo che la linea di fuga non si confonda con un puro e semplice movimento di autodistruzione» (Deleuze & Parnet 1998: 44). Infatti, quando la linea di fuga si volge in linea di morte, l’esistenza, e con essa la scrittura, divengono impraticabili. «Perché si scrive? Il fatto è che non si tratta di scrittura. Può darsi che lo scrittore abbia una salute fragile, una costituzione debole. Ciò non toglie che sia proprio l’opposto del nevrotico: una sorta di grande Vivente (alla maniera di Spinoza, di Nietzsche o di Lawrence), anche se è soltanto troppo debole per la vita che lo attraversa o gli affetti che passano in lui» (Deleuze & Parnet 1998: 55). Occorre dunque saper trasformare l’incrinatura iniziale in una creativa linea di fuga, ma occorre anche, mentre si è impegnati a tracciare tale linea, imparare a conoscere «i pericoli che vi si corrono, la pazienza e le precauzioni che bisogna impiegare, le correzioni che bisogna apportare di continuo» (Deleuze & Parnet 1998: 44). Solo così, secondo Deleuze, l’atto di creazione giungerà a buon fine, e il pensatore o lo scrittore potranno dire di essere riusciti a esprimere la potenza, nel contempo terribile ed esaltante, della vita.
di Giuseppe Zuccarino
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Bibliografia
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