È ormai diventata constatazione banale che l’epoca moderna e contemporanea palesa un rinnovato interesse per le apocalissi culturali, anche se spesso è ravvisabile molta incertezza nel circoscrivere l'argomento in modo non arbitrario e nel precisare la qualità dell'interesse che vi si porta. Tale rinnovato interesse non è un fenomeno casuale, ma trae alimento in modo decisivo dal fatto che almeno una parte della cultura della società borghese si trova oggi variamente impegnata in una particolare modalità storica di apocalittica, cioè di perdita e di distruzione del mondo: una apocalittica che, come si è già accennato, si riflette nella vita culturale e nella disposizione degli animi e delle menti.
E. De Martino, Apocalissi culturali e psicopatologiche, in Nuovi Argomenti, 69-71 (1964), pp. 105-141
Nel corso di un convegno Antonino Ferro, allora presidente della Società Psicoanalitica Italiana, ironizzava sulla difficoltà della ricerca psicoanalitica italiana nel rendersi attuale. Nel novero dei riferimenti bibliografici della maggior parte degli articoli pubblicati nelle riviste nazionali, si contavano infatti per lo più riferimenti databili alla prima metà del Novecento. I testi freudiani, bioniani, kleiniani, winnicottiani riproposti in una borgesiana combinatoria infinita di ricorsività teorico-concettuali. Vizio di forma italiano o del settore?
Se ci spostiamo dalla penisola italiana alla regione francofona, è attorno a questo tema che comincia l’ultimo lavoro di Jean-Paul Matot dal titolo Le Soi Disséminé. Une perspective écosystemique et métapsychologique (L'harmattan, 2020) Il testo, denso e a tratti involuto, rappresenta un interessante inizio di confronto nel campo psicoanalitico rispetto all’attualità della psicoanalisi e del suo laboratorio concettuale. Che cos’è infatti la psicoanalisi nell’era dell’Antropocene? La dottrina dell’inconscio, che per anni ha arricchito il pensiero occidentale di nuove comprensioni sui modi di agire, pensare ed essere dell’uomo, è divenuta semplicemente anacronistica o è in grado di rinnovarsi all’altezza storica presente?
Scriveva De Martino che le apocalissi culturali sono “manifestazioni di vita culturale che coinvolgono, nell’ambito di una determinata cultura e di un particolare condizionamento storico, il tema della fine del mondo attuale” (De Martino 1964: 105-151). Di pari passo con l’acuirsi e il popolarizzarsi della crisi ecologica in corso, la maggior parte delle discipline “umanistiche” ha cominciato a rinnovare una certa sensibilità attorno al problema dell’“Antropocene”.
In psicoanalisi, differenti autori riflettono da qualche anno attorno al problema della crisi ecologica e ai suoi correlati sociali e clinici (L. Magnenat, A. Lombardozzi C. Schinaia, etc.). Questi lavori rappresentano il punto di avvio del libro di Matot, che, pur ponendosi in continuità con gli autori citati, si pone in discontinuità metodologica nell’organizzazione della sua ricerca. Secondo lo psicoanalista belga infatti, la maggior parte delle opere che si sono candidate fino ad ora a questo intervento, ha ragionato sulla crisi in corso con un classico modello oggettivante. Ovvero, ha fatto ricorso alla classica cassetta degli attrezzi psicoanalitica e ha stabilito, con la giusta flessibilità teorica, un riadattamento concettuale per la realtà presente. A tal proposito, questi psicoanalisti hanno proposto alcune categorie di lettura, come le melanconie ambientali in relazione all’iperoggetto ecosistemico o la nozione di proiezione di zone di disastro nella costruzione di sé rispetto ad un mondo in rovina, etc.. Tuttavia, obietta Matot, questi concetti, sebbene pertinenti, metterebbero poco in discussione i limiti stessi delle teorie psicoanalitiche. E qui il testo comincia ad entrare nel vivo.
Matot evita di entrare in polemica coi suoi colleghi e con agilità teorica porta l’attenzione a monte del problema. Lo sforzo collettivo della comunità psicoanalitica non dovrebbe consistere in un riadattamento posticcio dei propri capisaldi, ma dovrebbe tendere a ripensare i limiti che la disciplina mostra nella lettura del presente. Per addentrarsi in questa impresa teorica, lo psicoanalista belga raccoglie suggestioni teoriche di alcuni suoi contemporanei, primo fra tutti l’antropologo Philippe Descola. In risonanza con Par-delà nature et culture (2005) Matot prova a convincere il lettore che gran parte del fallimento psicoanalitico oggigiorno risiede nel lasciare impensata l’ontologia naturalista entro cui la disciplina è stata fondata. Detto altrimenti, anche la psicoanalisi, come qualsiasi disciplina sviluppatasi come eredità delle filosofie illuministiche, si fonderebbe sulla separazione soggetto/oggetto, producendo come unica autorappresentazione degli individui delle monadi autosufficienti e autoregolanti. Recuperando la lezione di Maturana, Varela, Bateson e dei pensatori della cibernetica, nonché proponendo alcune suggestive esemplificazioni tratte dalla medicina contemporanea [Ameisen, 1999], Matot insiste sulla necessità di ricalibrare la storica nozione psicoanalitica dell’Io secondo un modello di funzione in rapporto di co-dipendenza e co-evoluzione con il sistema-ambiente: di qui l’idea di un “Sé disseminato”. La proposta è quella di congedare il concetto di Io in favore di funzioni plurime di involucri psichici, in continuità teorica con psicoanalisti come Houzel e Berger. L’attenzione ai legami e alla co-dipendenza dei sistemi porta in luce l’importanza di uno psicoanalista francese come Kaës, il quale ha dedicato la maggior parte della sua produzione teorica allo sviluppo della cosiddetta “topica dell’intersoggettività” e della fondazione dello psichismo in una rete complessa di rapporti.
Il testo incede ritmicamente organizzando un’ampia mole di riferimenti filosofici (Simondon, Stiegler), antropologici (Bateson, Leroi-Gurhan) e psicoanalitici (Winnicott, Bion, Anzieu, Bick, Kaës, Bleger), proseguendo la riflessione a cavallo tra ecosistemi e psicoanalisi propria delle due opere precedenti dell’autore: L’enjeu adolescent (2012) e L’Homme décontenancé (2019).
La sostanziale revisione metapsicologica proposta, che consiste nel passaggio da una topica dell’Io intesa in una diade interno/esterno a un Sé Disseminato di involucri psichici, è una proposta di sintesi dei lavori dei grandi psicanalisti del Novecento in tema di topologia, come Winnicott e i suoi lavori sull’informe e la transizionalità, Bleger con i concetti di ambiguità e involucri, le topiche lacaniane dei nodi borromei e il concetto di Reale, nonché la nozione bioniana di O. Secondo Matot questa operazione risponderebbe addirittura maggiormente alle rappresentazioni che neuroscienze e biologia elaborano del rapporto tra coscienza e cervello in legame con gli altri organi corporei.
Il testo rappresenta senza dubbio una sfida provocatoria e affascinante, ossia un tentativo di portare il pensiero psicoanalitico all’altezza storica presente. Tuttavia chiudendo l’ultima pagina, pare legittimo chiedersi se ciò che si è letto rappresenti un grande esercizio di erudizione o indichi veramente delle piste di ricerca per l’episteme psicoanalitica.
Uno stimolo senza dubbio suggestivo offerto dalla topica del Sé disseminato e plurimo viene dall’invito a pensare lo psichismo non tanto come qualcosa che c’è, ma qualcosa che va prodotto e appropriato. In questo senso dice Matot, potremo guardare il rapido sviluppo della genomica, dell’intelligenza artificiale, lo sviluppo del digitale e le crisi ambientali come qualcosa che influenza e perturba il nostro psichismo e nei cui confronti dovremo costruire informazione, e legame. Muovendo così, dal disorientamento di “una certa sensibilità per la fine” verso la fine di una certa sensibilità.
di Irene Ferialdi