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Il cambiamento del mondo provocato dall'attuale mutazione ecologica solleva domande di dimensioni mitologiche. I miti non sono altro che le storie che ci raccontiamo in continuazione e che costituiscono la materia viva dei nostri modi di abitare il mondo. Nessuna collettività ne è immune. La proliferazione negli ultimi anni di testi delle scienze sociali e umane che invitano a raccontare nuove storie, affermano la necessità di narrazioni originali o descrivono il proprio approccio in questo modo, testimonia questo particolare momento storico. Le critiche rivolte loro per aver abbandonato ogni ambizione scientifica o politica ne fraintendono la natura. Queste proposte narrative vanno probabilmente pensati come tentativi di rinnovare la cornice mitica che ci costituisce di fronte all'implosione della grande narrazione della modernità. L’ambiguità concettuale che circonda questi termini ("narrazione", "storia"), così come il loro statuto epistemologico e la loro scala temporale non ne testimonia l’inconsistenza, esprime piuttosto la difficoltà di parlare nuovamente il linguaggio del mito all'interno di una tradizione occidentale che si è costituita nella sua radicale opposizione a questo regime di verità. Opposizione che da molti punti di vista è solo presunta ed evocata, perché in realtà si tratterebbe anch’essa di una mitologia, anzi, seguendo Baptiste Morizot, si tratterebbe della mitologia “più spinosa” che egli stesso non esita a definire la “maledizione antropocentrica”: finzione tipica della modernità utile a chi ha inteso giustificare la “riduzione del vivente a merce per far circolare i flussi economici mondiali” (Baptiste Morizot, Manières d’être vivants, 2020,). Per autori come Baptiste Morizot o Philippe Descola, ma lo stesso potrebbe valere per Tim Ingold, il mito della modernità si è fondata sull'eccezionalità della specie umana (usiamo qui il termine "specie" in un contesto in cui il discorso biologico ha una forte presa, ma che, a rigore, la Modernità rifiuterebbe parlando invece, come nella tradizione feuerbachiana e poi marxiana, di "razza umana", essendo l'umanità appunto non una specie in senso biologico), la "realtà" moderna sostituisce la "natura", rendendola conforme a un ordine umano, a un "mondo oggettivo" delle potenzialità del genere. Tanto che, per dirla con Heisenberg, "l'uomo incontra ormai solo sé stesso". Ma questa "realtà" non è mai stata reale; essa è il frutto di un'illusione tecnicista, nasconde i veri processi in atto negli organismi viventi. La filosofa Emilie Hache protagonista del pensiero ecofemminista si inserisce in questa corrente di pensatori che attaccano le fondamenta della modernità dalla prospettiva di culture extra-occidentali, sulla scia degli studi pionieristici di Bruno Latour e di Philippe Descola, di cui era allieva, affronta il cambio mitologico in atto e riprendendo Ivan Illich sostiene che non solo ogni società ha bisogno di un passato, ma che non può esistere un 'noi' senza il suo mito di creazione. La "produzione" non è affatto scontata, ma è un paradigma proprio della nostra civiltà moderna che ha sostituito la "generazione". Da un lato, c'è un mondo creato da un principio esterno, Dio onnipotente, dove trionfa un approccio strumentale all'ambiente. Dall'altro, un mondo “vernacolare” dove la (ri)generazione della vita è al centro di pratiche, mitologie e riti. Emilie Hache esplora questa intuizione da diversi anni, senza prevedere che la "storia della cultura" presente in De la génération (La Decouverte, 2024) sarebbe apparsa in un momento in cui la questione della produzione avrebbe polarizzato il controverso dibattito ecologico. Anzi il tentativo che fa la Hache di tracciare la genealogia della scomparsa del paradigma della generazione e della sua sostituzione con quello della produzione nella nostra società industriale è in qualche modo anche la risposta ad una certa galassia critica segnata dalla tradizione marxista che con tono spesso solo polemico più che accademico, ha accusato quella linea di riflessione che include Descola, De Castro, Morizot per citarne alcuni – e che per facilità possiamo definire prospettivista – di annegare in un innocuo esotismo la centralità del capitalismo nella crisi ecologica.
Se De la génération porta il dibattito a un livello di densità superiore, mettendo in discussione i fondamenti del concetto di produzione, il tema di questa "inchiesta" non è nuovo. Nelle pagine finali del suo canonico Par-delà nature et culture (Gallimard, 2005), Philippe Descola lo aveva già affrontato, evidenziandone la mistificazione. Un contadino non "produce" grano, ma dirige un processo biologico; una fabbrica non "produce" automobili, ma trasforma la materia. Descrivere questi processi come "produzione" permette ai loro protagonisti di appropriarsi del frutto della trasformazione. Proponendo una genealogia di questa nozione, Emilie Hache rivela un ingranaggio decisivo della nostra condizione contemporanea. La forza della riflessione di questa docente dell'Università di Nanterre non sta nella critica frontale alla produzione, ma nell'esaminarla da un altro paradigma, quello della (ri)generazione. Il suo pensiero ruota attorno a un'importante tesi cosmologica: pensando al loro mondo come a un perpetuo generare, le società "pagane", come l'antica Grecia, hanno posto al loro centro culti e credenze basati sulla perpetuazione della vita. Il cristianesimo è poi intervenuto come un capovolgimento radicale, perché, considerando il cosmo come già creato e collocando la salvezza in un'eternità fuori dal mondo che di fatto sostituisce la generazione come principio, ha fondato una civiltà in cui avrebbe regnato una nuova mentalità. Il passaggio, o meglio la mutazione, da un mondo increato che ha bisogno di essere curato e rinnovato ogni giorno a un mondo creato ha cambiato radicalmente il nostro rapporto con la dimensione generativa del mondo. In un mondo creato una volta per tutte, non c'è bisogno di preoccuparsi di riprodurlo; la Provvidenza si occupa di tutto. In altre parole la generazione stessa, come paradigma, scompare, coperta da quella della creazione. Scompare anche la dimensione femminile del divino che comincia ad essere denigrata in rivalità con il dio unico maschile che pretendeva di essere responsabile della (vera) rigenerazione del mondo. Per secoli, questa concezione cristiana del mondo ha coesistito (con) piuttosto che sostituire la concezione generativa delle società di sussistenza. La Hache cita un libro in particolare che conferma il ponte tra questo passato dimenticato e il nostro presente, rivelando alcuni dei fili della sua sovrapposizione. È lo studio I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento dello storico Carlo Ginzburg in cui rivisita le pratiche religiose dei contadini Benandanti del Friuli del XVI e XVII secolo, bollati come stregoni dall’Inquisizione. Il ritrovamento negli archivi del Sant'Uffizio di documenti processuali che coprono un arco temporale di oltre mezzo secolo gli ha permesso di osservare la trasformazione delle testimonianze di questi contadini sotto la pressione e i suggerimenti degli inquisitori. Da questo materiale, Ginzburg ha ricostruito il tessuto di rituali di fertilità agraria dietro la narrazione stereotipata del sabba delle streghe che gradualmente è diventata la norma. Questi contadini affermano di viaggiare in spirito mentre dormono, in determinati periodi dell'anno, per proteggere i raccolti della stagione successiva. Sono coinvolti sia uomini che donne e ognuno ha un ruolo da svolgere in queste pratiche che accompagnano il rinnovamento del mondo. In questi racconti non c'è traccia di presenze diaboliche o di profanazioni, ma di rituali pagani di fertilità e di protezione dei raccolti legati all'invisibile, che associano pratiche di sussistenza di genere e legami tra vivi e morti.
Il punto di svolta si sarebbe verificato durante il Medioevo, un periodo di gestazione della produzione come versione “secolarizzata ed antropocentrica” della Creazione (Dio è il produttore originale ex nihilo) e della Oikonomia scienza cristiana del governo che partorirà la moderna economia. La Hache riprende esplicitamente Il Regno e la Gloria di Giorgio Agamben che offre una genealogia del fondamento teologico dell'economia, trovando il punto di passaggio tra una concezione del mondo creato e la nostra modernità. Agamben segue la progressiva incarnazione nella storia della prima attraverso l'Oikonomia, cioè lo studio dell'istituzionalizzazione del cristianesimo nel Medioevo europeo. L'obiettivo era quello di rileggere questo capitolo mancante della nostra storia attraverso il prisma della scomparsa del paradigma della generazione: non si trattava più di generare un mondo che c'era già, ma di godere delle infinite risorse che Dio, nella sua infinita bontà, aveva messo a nostra disposizione, imparando a decifrare l'ordine provvidenziale del mondo. Non è solo la nascente disciplina dell'economia che si traduce prima nel progetto della fisiocrazia (il protoliberalismo agrario francese) a rivelarsi una traduzione secolarizzata dell'Oikonomia cristiana, ma il concetto di produzione che emerge contemporaneamente non è altro che una versione di quello di creazione. Nello stesso modo in cui il dio cristiano crea il mondo intero invece di prendere posto in un mondo vivente, noi non accompagniamo più la (ri)generazione del mondo con rituali e immense attenzioni, lo produciamo e lo riproduciamo, senza limiti. D'ora in poi, si tratta di liberarsi dalla natura – o di dominarla – poiché pretendiamo di entrare in un mondo decisamente maschile. A questa colonna portante della riflessione si aggancia una altra tesi che lega questo “metabolismo” al patriarcato e che Hache attinge da Le Genre vernaculaire di Ivan Illich, guida inattesa proprio attraverso un’opera per molti versi accusata di essenzialismo e di essere vittima di un’illusione retrospettiva. La tesi principale che sta alla base del testo di Illich è che il mondo vernacolare che sta in parte scomparendo all'alba della modernità è un mondo di genere, cioè organizzato intorno a una rigida distinzione tra una sfera maschile e una sfera femminile, entrambe interdipendenti e incommensurabili. "I luoghi, i tempi, gli strumenti, i compiti, i modi di parlare, i gesti e le percezioni associati agli uomini differiscono da quelli associati alle donne". Questa organizzazione sociale sembra prevalere nella maggior parte, se non in tutte, le culture vernacolari. Sebbene riguardi tutti gli aspetti della vita, è in quella che oggi chiamiamo sfera del lavoro che è più facile da cogliere, poiché è molto ben documentata nella letteratura antropologica. Illich fornisce numerosi esempi che ne mostrano tutta la materialità. La divisione dei compiti, degli strumenti e dei gesti varia da una società all'altra, e persino da un villaggio all'altro, ma il principio di un mondo strutturato attorno a questi due poli sembra in gran parte invariabile. La scomparsa di questo sistema di genere in Europa nel XIX e XX secolo è stata alla base della sostituzione dell'economia di mercato alle economie di sussistenza che strutturavano le società vernacolari. La dislocazione del mondo di genere e la sua graduale sostituzione con il mondo "unisex" in cui viviamo tuttora può essere vista come il culmine di attacchi secolari alle donne e al mondo vivente. Questi attacchi hanno assunto la forma della distruzione della sfera femminile distinta, attraverso la scomparsa degli spazi femminili riservati (dove si lava, si tesse, si partorisce, si parla, si raccoglie, si accudiscono i morti, ecc.), la denigrazione delle competenze specificamente femminili e l'appropriazione di questi stessi spazi e attività femminili da parte degli uomini. Poiché l'economia che caratterizza il nuovo mondo che sta emergendo si basa sulla premessa della competizione tra tutti gli uomini e le donne, e non sulla complementarietà tra uomini e donne che è caratteristica delle economie di sussistenza, essa ha bisogno di un mondo "unisex" - cioè un mondo in cui uomini e donne sono commensurabili – per poter competere tra loro. Se da un lato si può avere fiducia nella forza probante del suo metodo e del quadro storico che propone, dall'altro la stessa Emilie Hache procede con una sorta di modestia, scrivendo in prima persona e non nascondendo le sue riserve; l'essenziale è altrove, nella natura che porta con sé il genere del saggio: portare alla luce, attraverso connessioni inaspettate e talvolta estemporanee una griglia di lettura per il presente. Combinando la sua indagine sulla produzione con questioni ecologiche, femministe e coloniali, Emilie Hache ha creato un'architettura che permette di capire perché "ci manca la terra". È il programma dell’ecofemminismo di cui Hache con questo testo ed il precedente Ce à quoi nous tenons: Propositions pour une écologie pragmatique si pone alla testa: proporre una narrazione politica che metta in relazione la distruzione della natura alle differenti forme di oppressione femminile e cercare di scongiurare gli effetti di una modernità “estrattivista e virilista”. Emilie Hache intende contribuire a ripensare le condizioni di abitabilità della terra. In un mondo in cui “il paradigma della generazione” è stato rimpiazzato da quello “della produzione”, lo sfruttamento senza limiti si accompagna con la devalorizzazione del femminino e della sua “potenza generativa”. Pur correndo il rischio di essenzializzare la natura femminile, Hache delinea una genealogia complessa di questo cambio di paradigma e per adempiere a questo intendimento convoca anche autrici poco conosciute della teoria femminista da Silvia Federici a Carolyn Merchant, da Starhawk a Val Plumwood tutte impegnate a stabilire il parallelo tra la trasformazione della natura in risorsa sfruttabile all’infinito e la degradazione della condizione femminile. Da parte sua la Hache si propone di considerare il cambiamento ecologico alla luce di questa tradizione per farne il crogiolo di un rovesciamento politico vivo che abbia al centro l’obiettivo “di riarticolare la questione delle relazioni di genere e quella della rigenerazione del mondo, nel tentativo di arrestare il disastro in corso e di uscire dalla nostra società estrattivista” (De la generation trad. mia). L’autrice osserva che “il legame che si aperto tra la distruzione del mondo vivente e la violenza della società moderna nei confronti delle donne sembra essere diventato intuitivo per i giovani impegnati nella lotta per un clima” come è ricordato da uno slogan alle manifestazioni del 2019 “la struttura patriarcale non può sopportare il peso del cambiamento climatico”. L’ansia di Emilie Hache è quella che chiede di trasformare in profondità il modo di abitare la terra e di riappropriarsi della dimensione femminile dei nostri legami con il mondo vivente, trovare dunque una modalità di emancipazione che faccia pace con Gaia.
Massimo Fiorio
Bibliografia
Giorgio Agamben Il regno e la gloria Neri Pozzi, 2009
Philippe Descola Par-delà nature et culture Gallimard, 2005, trad.it. Oltre natura e cultura, Raffaello Cortina editore, 2021
Carlo Ginzburg I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Torino, Einaudi, 1966; nuova ed., Adelphi, 2020
Ivan Illich Le Genre vernaculaire Edition de Seuil, 1983
Baptiste Morizot, Manières d’être vivants, Éditions Actes Sud, 2020
Val Plumwood Feminism and the Mastery of Nature Routledge, 1993
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Il riconoscimento naturalizzato di Lucio Cortella
Recensioni / Settembre 2023Pochi concetti nel pensiero sociale e politico contemporaneo hanno suscitato un interesse così diffuso come il concetto di riconoscimento. Gran parte del suo fascino sembra derivare dal fatto che si basa su un'esperienza famigliare a tutti, vale a dire l'esperienza di dipendere dagli altri nella propria relazione con sé stessi, nel bene e nel male. Questa esperienza può assumere molte forme. Essere ignorati ad una festa da chi ci ha visto ci mette a disagio, ricevere elogi da un collega per un lavoro ci fa sentire orgogliosi, essere sottoposti a controlli approfonditi ad una frontiera ci fa dubitare di quanto siamo benvenuti nel paese dove andiamo. Esempi come questi illustrano che gli altri sono coinvolti nel plasmare le nostre vite e le nostre percezioni attraverso il modo in cui ci vedono e ci trattano. È proprio su questa connessione tra sé e altro che si è aperta una profonda riflessione. L'attuale interesse per il riconoscimento - un concetto che può essere trovato nelle opere di una varietà di pensatori, ma che è, almeno nella tradizione della filosofia europea, più comunemente associato a Hegel è in gran parte dovuto agli interventi teorici di Charles Taylor e Axel Honneth all'inizio degli anni '90. Taylor coniò l'espressione “la politica del riconoscimento” nel contesto dei dibattiti sul multiculturalismo come strumento per affrontare il tema della valorizzazione della differenza culturale, ma fu soprattutto Honneth che con Lotta per il riconoscimento (1992) fece un lavoro di recuperò dell'idea della lotta per il riconoscimento come concetto centrale per una rinnovata teoria critica post-adorniana che fosse in grado di dare un senso alle motivazioni morali della lotta sociale. Il concetto di riconoscimento rapidamente acquisì importanza nella filosofia sociale e politica, lo testimonia un corpus letterario in continua crescita.
La grande sfida affidata a quelle riflessioni consisteva nel tentativo di uscire dalle secche della dissoluzione del soggetto che il linguistic turn, in tutte le varianti novecentesche, aveva imposto e che conducevano a forme di decostruzione e a teorie del potere che avevano trasformato il soggetto nella marionetta eterodiretta da discorsi o poteri impersonali. Axel Honneth senza ricadere nel monismo soggettivista che da Cartesio a Kant aveva caratterizzato la modernità, si mantiene fedele al paradigma intersoggettivo postmetafisico riportando i temi della costituzione del soggetto al centro della filosofia contemporanea. Non trascurando, anzi assumendo le critiche al soggetto che si sono sviluppate da molteplici tradizioni filosofiche contemporanee, Honneth ritiene si possa ripensare l’autonomia stessa del soggetto a partire dalla sua costituzione intersoggettiva. A differenza del tema del “dono” che nei medesimi anni veniva utilizzato per svolgere lo stesso ruolo anti-liquidatorio del soggetto, il riconoscimento è stato un principio assolutamente più efficace e longevo che ha avuto varianti ed applicazioni differenti. In questa prospettiva va letto l’ultimo testo di Lucio Cortella Ethos del riconoscimento (Laterza, 2023): certamente non, semplicemente, la ricostruzione di un dibattito che dalla pubblicazione del testo di Honneth ha preso il via, quanto il rilancio e l’oltrepassamento di quella prospettiva in una chiave più radicale. Il passo oltre Honneth parte dal confronto con lo stesso Hegel che è l’ispiratore della teoria del riconoscimento honnethiano. Cortella, come Honneth, considera il merito filosofico principale di Hegel nell’aver compreso che il rapporto con sè stessi che si esprime nell’autocoscienza è possibile solo in quanto si costituisce come rapporto ad altri, rapporto che va inteso come un’interazione mediata da un processo di reciproco riconoscimento. Questo recupero di Hegel è in sintonia con una serie di riflessioni che, a partire dagli anni ’70, hanno consentito l’abbandono definitivo delle tesi riflessiviste dell’autocoscienza che da Cartesio a venire in avanti hanno rappresentato l’identità come il prodotto di un soggetto che si identifica come oggetto del proprio pensiero. Che il soggetto che si pone davanti a sé stesso in una sorta di auto-endoscopia possa costituire il significato dell’autocoscienza era già stato profondamente contestato per esempio da pensatori come Ernst Tugendath o Dieter Henrich i quali mostravano la contraddizione di un io che rivolgendosi a se stesso in un atto di autoriflessione deve presupporre ciò che costituisce il risultato di quest’atto.
Secondo Cortella, Hegel pensa il riconoscimento come condizione inaggirabile dell’autocoscienza e quindi dell’identità individuale, ma forzando Hegel stesso, Cortella definisce il riconoscimento come condizione trascendentale – in senso kantiano – dell’autocoscienza. “Originario non è dunque il soggetto, ma la relazione. Ora essendo tale relazione condizione di possibilità della nostra autocoscienza e della nostra conoscenza degli oggetti in esso si ripresenta il senso e la funzione del trascendentale” (Ethos del riconoscimento p.56). Si tratta di un trascendentale depurato dal carattere soggettivistico di Kant, per cui tale presupposto non risulta più interno al soggetto, ma fuori di esso. Come noto l’assolutizzazione che ne farà Hegel, comprometterà fino alla seconda metà del ‘900 la nozione di trascendentale che sarà recuperato sul piano del linguaggio e della sua dimensione pragmatica in modo decisivo da Karl-Otto Apel e da Jurgen Habermas. Se Honneth, nella propria teoria del riconoscimento si tiene lontano da questa soluzione, Lucio Cortella si colloca decisamente su questo terreno, un terreno in cui la caratterizzazione dei soggetti empirici costituiti naturalmente e posti in contesti storici ne impedisce la definizione nel senso di un apriori trascendente l’empirico. È una impostazione di trascendentale che Cortella definisce “minimale” e che indica l’impossibilità di aggiramento. Risuona in questa argomentazione del filosofo veneziano la lezione di un suo maestro, Emanuele Severino, che si rifaceva all’elenchos aristotelico per chiarire la forma dell’inaggirabilità del principio di non contraddizione. Tuttavia la radicalità di Cortella pare andare oltre nel senso che nonostante il fastidio e il fatto che Lucio Cortella si premuri di non menzionarlo, quello che si delinea in Ethos del riconoscimento è una sorta di definizione ontologica del riconoscimento: quando sostiene che la relazione di riconoscimento precede i soggetti e di fatto li costituisce è facile dire che si tratta di questo tipo di argomentazione. Di fatto Cortella cercando di smarcarsi da questo tipo di vocabolario sostiene che è presente all’origine una logica del riconoscimento la quale analogamente alla fenomenologia del dialogo illustrata da Gadamer “gioca” i partner della relazione conducendoli nel rapporto reciproco. Il riconoscimento non è dunque un prodotto che si forma tra un io e un altro io, ma si impone tra i due dall’esterno come un terzo che conduce alla relazione, è una struttura oggettiva che si palesa nel logos che determina il funzionamento del rapporto tra soggetti. Le pagine che illustrano questa dinamica sono di assoluto spessore e in fondo sebbene mai esplicitate nei testi hegeliani, quando Cortella mostra che si tratta di una sorta di “medio” che si impone tra le parti che le conduce al riconoscimento reciproco, esse ben si confanno all’autore della Fenomenologia dello spirito. Questa logica che ha un carattere trascendentale tuttavia per Cortella possiede – ecco un'altra variante decisiva rispetto alla versione honnethiana di riconoscimento – una base naturale. C’è già stato, in tempi recenti, un altro filosofo italiano che ha accostato la logica del riconoscimento alle basi naturali dell’individuo: Paolo Virno. In Saggio sulla negazione (2013) Virno mette alla prova la figura del riconoscimento hegeliano con la scoperta dei cosiddetti “neuroni-specchio” avvenuta anni dopo la pubblicazione del testo di Honneth. Virno si pone la domanda di come si possa parlare di attribuzione o negazione di riconoscimento fra soggetti se esiste, come dimostra la scoperta dei neuroni-specchio, un riconoscimento fra umani che precede qualsiasi processo di consapevole riconoscimento. La soluzione di Virno non compromette la dinamica hegeliana, ma la rimette in gioco ad un secondo livello. Secondo Virno esiste un “livello base” della socialità ancorato alla neurofisiologia. Egli afferma che il linguaggio può retroagire distruttivamente sullo “spazio noi-centrico” minandone la compattezza. Cosa significa non riconoscere il proprio simile? L’esempio è quello del vecchio ebreo consumato dalla fame e dell’ufficiale nazista che pur sapendo cosa prova il suo simile grazie alla “simulazione incarnata”, è in grado di disattivare quell’empatia generata dai neuroni-specchio. L’ufficiale può arrivare a trattare il vecchio ebreo come un non-uomo. Imputare il mancato riconoscimento tra umani a ragioni storiche, culturali, politiche appare troppo comodo e deresponsabilizzante, la situazione è più tragica. Nessuno nega il peso della dimensione politico-culturale: è importante però mettere a fuoco le basi biologiche di questa dimensione. L’ufficiale nazista può non riconoscere il vecchio ebreo perché la socialità dei sapiens non è fornita soltanto dai neuroni a specchio, ma anche dal linguaggio che ammette la negazione degli stati di fatto. “Se i neuroni-specchio agiscono nel suddetto modo, gli atteggiamenti proposizionali autorizzano invece a mettere da parte e a contraddire la rappresentazione dell’altro come persona simile a noi. La sospensione del consentire neurale è legata alla più rilavante prerogativa del linguaggio”. A questo punto vale la pena chiedersi se questa urgenza di verificare la tenuta del riconoscimento alle sollecitazioni provenienti dalle scienze naturali in qualche modo non costituisca uno dei tratti di una ipotetica variante italiana della teoria del riconoscimento. Cortella fa riferimento agli studi di George Herbert Mead e a quelli più recenti dello psicologo e neuroscienziato americano Michael Tomasello i quali, in maniera diversa, condividono lo sforzo di mostrare la genesi e la filogenesi intrecciata di comportamento comunicativo e comportamento cooperativo in direzione di un apprendimento reciproco delle altre persone e della posizione altrui. Il tentativo inedito di coniugare il quadro trascendentale ad una base naturale è la vera scommessa messa in campo da Cortella per gettare le basi di un recupero della soggettività in un quadro di intersoggettività originaria salvandola dalla deriva decostruzionista.
La costitutiva originarietà dell’Annerkennung non si ferma alla dimensione della soggettività, ma significa l’anteriorità dello stesso anche all’Erkennen. Così come non è immaginabile una soggettività che preceda il riconoscimento, allo stesso modo l’oggettività del mondo è irraggiungibile al di fuori di un rapporto tra soggetti che si riconoscono e che si riferiscono collettivamente a quel mondo. Questa ipotesi assolutamente fuori dalla teoria del riconoscimento di Honneth è dovuta, a detta di Cortella, al fatto che l’impostazione del successore di Habermas alla direzione della Scuola di Francoforte rimane troppo concentrata sulle opere jenesi di Hegel non approfondendo sufficientemente la logica del riconoscimento che si evolve lungo tutta la Fenomenologia dello Spirito a partire dalla dialettica servitore/padrone nel capitolo IV dell’opera del 1807. Le pagine della dialettica servitore/padrone delineano in modo “aurorale” la dinamica che percorrerà il testo, ma trovano in quella figura il loro fallimento che invece raggiungerà un esito positivo soltanto a partire dal capitolo VI. Come scrive Cortella, in quel confronto i due soggetti non pervengono ad un riconoscimento reciproco, per raggiungere quello stadio si dovrà passare attraverso una serie di esperienze che metterà la coscienza a confronto con il mondo esterno e con altri soggetti e che gli permetterà di uscire dal particolarismo in cui è collocata. È la nuova forma di oggettività che si raggiunge a partire dalla fine del V capitolo della Fenomenologia e che si espliciterà nella prima parte del VI capitolo. “L’oggettività delle nostre conoscenze è il risultato di un processo di riconoscimento nel quale una prospettiva soggettiva – passata attraverso il vaglio degli altri soggetti coinvolti e completata dal contributo di tutti – è stata riconosciuta come oggettiva”— (Ethos del riconoscimento pag 41). Il valore trascendentale del riconoscimento intersoggettivo assume la valenza delle categorie dell’analitica trascendentale della Critica della Ragion Pura per la conoscenza oggettiva che nella proposta kantiana consentivano l’upgrading delle sensazioni soggettive.
La principale differenza rispetto alla proposta honnethiana è che quest’ultima rimane collocata su di un piano genetico-descrittivo nella misura in cui pur mostrando come si vadano a formare le aspettative morali e il senso morale attraverso il riconoscimento e le sfere del riconoscimento storicamente determinate, manca, a detta di Cortella, il fondamento della normatività del riconoscimento ovvero perché il mancato riconoscimento costituisca un atto immorale. Per Cortella il merito di Honneth di mostrare la ricca articolazione delle forme del riconoscimento gli consente di uscire dalle secche del formalismo astratto di tanta etica contemporanea, tuttavia esplicitarne il funzionamento nei termini di una piena costituzione soggettiva non risolve la necessità – che è evidentemente estraneo ad Honneth – di una argomentazione giustificativa. Il tentativo di Cortella è di muoversi tra la Scilla della deriva assolutizzante del riconoscimento che compie Hegel nel corso della Fenomenologia dello Spirito e la Cariddi del proceduralismo di Habermas costituito da un ipotetico confronto di argomentanti il cui esito è una morale separata da qualsiasi dimensione etica relegata a collezione di “vite buone” e concetti di bene. Se per quanto riguarda Hegel si tratta di fare salva la figura del riconoscimento prima della sua assolutizzazione nello Spirito Assoluto, per quanto riguarda Habermas significa mostrare che in realtà l’autore dell’Etica del discorso nell’ipotizzare “la situazione discorsiva ideale” ha bisogno di fare implicitamente riferimento ad una normatività pre-morale fatta di rapporti vitali, “entro i quali ha la sua fissa dimora” (Etica del Discorso pag 111). Cortella intende Ethos al di là degli usi e costumi, la intende come “dimora”, dimensione originaria in cui gli umani vivono e in cui sono collocati. È il terreno in cui crescono le nostre relazioni che come tali precedono qualsiasi “dover essere”. Il riferimento ad Aristotele è chiaro, così come è chiara la presenza di Aristotele in tutta la riflessione di Cortella. Il suo testo si apre citando la celebre definizione dell’uomo come animale politico, Zoon Politikon ed in fondo si può dire che tutto il lavoro è percorso dall’ aspirazioni di ridefinire quel concetto aristotelico nel quadro della contemporaneità. Il tentativo di coniugare la naturalità del legame fra gli umani e l’inaggirabilità del carattere normativo di quel legame va in quella direzione. Detto in altri termini si tratta per Cortella di superare la necessità kantiana di postulare due regni distinti per stabilire da una parte la verità delle proposizioni oggettive e dall’altra la giustezza delle norme morali. Ciò è possibile mostrando la compatibilità della nostra esperienza morale e della nostra natura biologica. Se ha ragione Kant nel mostrare che non è rinvenibile la libertà nel campo della necessità oggettiva, si tratta allora, anziché rivendicare un regno sovrasensibile della libertà, mostrare come essa sia il “risultato di un processo intersoggettivo e sociale che muove da basi e facoltà naturali. La soggettività non è qualcosa di innato, ma il risultato di un processo costitutivo. Allo stesso modo dobbiamo trattare il problema della libertà”. Sono fatte fuori, in questo modo, tutte le teorie della liberta originaria ovvero quelle impostazioni che ritengono che l’essere umana nasca dotato di libertà e che il rapporto con gli altri, nelle forme politiche che le società si danno, significa quanta libertà venga ceduta, quanta tutelata, quanta negoziata. È l’altro che mi mette in condizione di essere libero. La logica del riconoscimento è quello di una reciproca dipendenza che consente ad un io di essere autonomo nella misura in cui l’altro soggetto che lo riconosce come autonomo conferisce ad esso il medesimo statuto di autonomia. Riconoscimento e riconoscenza si richiamano vicendevolmente perché io sono in debito con l’altro per ciò che egli mi attribuisce nello stesso modo in cui questo altro è in debito con me perché lo riconosco. Quest’economia di riconoscimento/riconoscenza è la base su cui nasce un senso morale, ma anche un principio di “vulnerabilità normativa” perché qualora non si realizzi questo scambio ovvero non venga attribuito un riconoscimento, si genera verso chi è misconosciuto un sentimento di sofferenza, umiliazione e disistima verso sé stessi. Il riconoscimento ovvero la condizione di reciproca attribuzione di autonomia vale per gli individui, ma anche per i gruppi sociali; spesso sono il frutto di conflitto e lotta per raggiungere una parità di posizione al di là delle forme di sopruso o paternalismo. La novità di Ethos del riconoscimento di Cortella, che lo rende un testo che spicca tra quelli della vasta produzione filosofica sul tema del riconoscimento, è il tentativo, riuscito, di mostrare come i contenuti morali di libertà e responsabilità abbiano una base naturale senza bisogno di far ricorso a nessun ordine sovrasensibile, ma anche di mostrare come questa naturalità produca un ordine più che naturale, perché in grado di superare gli impulsi di mera conservazione ed utilità, fino a prodursi in cultura. Da questo punto di vista, Cortella, come altri studiosi della scuola veneziana, pensiamo ad Italo Testa, ipotizzano una sorta di ‘riconoscimento naturale’ che diventa elemento chiave dell’epistemologia e dell’ontologia sociale. Ciò in forte sintonia con quella Koiné contemporanea delle scienze umane e sociali che da fronti disciplinari molto diversi guarda oltre la stretta separazione naturale/culturale. La peculiarità del testo di Lucio Cortella è quello di mostrare il superamento di questa dicotomia utilizzando gli strumenti concettuali della tradizione filosofica e tratteggiando un modello teorico che può offrire soluzioni ai problemi in cui incorrono altri pensatori del riconoscimento da Honneth a Ricoeur, da Taylor a Brandom.
Massimo Fiorio
Bibliografia
L. Cortella Ethos del riconoscimento, Laterza, Bari-Roma, 2023
J. Habermas Etica del Discorso Laterza, Bari-Roma 1985
G.W. F. Hegel La Fenomenologia dello spirito, Bompiani, Milano, 2000
A. Honneth Lotta per il riconoscimento Il Saggiatore, Milano, 2002
C. Taylor Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento. Feltrinelli, Milano, 1998