Nel libro di Saskia Sassen Espulsioni, recensito qualche settimana fa su questo sito, l'autrice, analizzando alcune forme peculiari delle interazioni economiche e sociali contemporanee, giungeva alla conclusione che il sistema economico attuale si basa sempre più sull'espulsione di una parte, via via più preponderante, della popolazione e sempre meno su quella che viene definita un'inclusione differenziale o una normalizzazione della stessa. Quindi, l'espulsione economica, spaziale e sociale non deve essere tanto immaginata come un effetto collaterale delle dinamiche di sfruttamento quanto, piuttosto, come la relazione strutturale, e analiticamente preponderante, di queste stesse dinamiche. La raccolta di saggi Forme della città. Sociologia dell'urbanizzazione, curata da Massimiliano Guareschi e Federico Rahola e pubblica dalla casa editrice Agenzia X nel 2015, ha proprio il merito di contestualizzare simili considerazioni entro l'ambito delle categorie spaziali e delle coordinate geografiche adatte a esprimerle. È infatti la domanda “Cosa significa l'urbano oggi?” a indirizzare le riflessioni di queste pagine, domanda che si scontra con due considerazioni apparentemente paradossali: la prima, frutto del senso comune, non solo scientifico ma anche politico, secondo cui da alcuni anni a questa parte si assisterebbe a un urban turn di portata globale poiché la gran parte della popolazione mondiale vive oggi in città; la seconda, invece, a partire dalla constatazione della vacuità delle definizioni classiche dell'urbano (siano esse tratte dalla politologia, dall'economia, dall'antropologia o dalla sociologia), riconosce una radicale ristrutturazione delle funzioni e delle caratteristiche fisiche della città tale da inficiare la possibilità stessa di distinguere un urbano da un non-urbano.
Che ne è, difatti, della città come forma chiusa, unitaria e dotata di specificità in un mondo sempre più caratterizzato dalla frammentazione interna degli spazi, esemplificata chiaramente dalla contiguità spaziale tra grattacieli e bidonville? Oppure della città intesa come particolare scala dell'amministrazione degli Stati-nazione in una geografia delle infrastrutture sempre più transnazionale, sempre più disomogenea rispetto ai territori nazionali, o di fronte all'emergere di città globali iperconnesse transnazionalmente e, al tempo stesso, indifferenti al territorio circostante? Ma, soprattutto, ritornando al rimando del libro di Sassen da cui siamo partiti, che ne è della città come forma ottimale della riproduzione della forza-lavoro? Della città intesa come implementazione spaziale delle politiche del welfare, cioè di quelle politiche che, appunto, miravano all'inclusione differenziale e alla normalizzazione della classe lavoratrice in un contesto urbano in cui si assiste a una serie di fenomeni che vanno nella direzione opposta?
Da una parte, si assiste all’esplosione sociale delle periferie, che segnala il sostanziale fallimento delle politiche d'inclusione a cui negli ultimi anni sta seguendo una generale dismissione del patrimonio edilizio pubblico; dall'altra, al prevalere, in determinate zone urbane, di forme di economia informale e di situazioni abitative abusive e precarie. I curatori del libro tentano di rispondere a queste domande, o perlomeno a porle nei termini il più possibile precisi e corretti, assumendo come riferimento alcuni dei più rilevanti autori della sociologia e della geografia critiche ancora poco conosciuti in Italia: in particolare Henry Lefebvre, Neil Brenner, Neil Smith e Stephen Graham.
Se nei testi pioneristici di Henry Lefebvre riscontriamo appunto le prime intuizioni di una diffusa e incontrollabile “esplosione degli spazi”, da cui segue come conseguenza un progressivo svuotamento di senso delle categorie spaziali tradizionali, con Neil Brenner ci confrontiamo, invece, con un attento lavoro metodologico sul concetto di scala geografica volto ad affermare la sua natura relazionale, processuale e, proprio per questo, soggetta a ristrutturazioni e aggiustamenti costanti. Il saggio di Neil Smith ricostruisce alcuni tratti salienti dell'attuale immaginario urbano che caratterizza i centri cittadini come frontiera, come spazio da (ri)conquistare, proponendoci di leggerlo attraverso le lenti del conflitto, ovvero invitandoci a scorgere in ogni discontinuità urbana, in ogni sviluppo diseguale del territorio, la manifestazione, latente o esplicita, della contrapposizione tra le esigenze di valorizzazione del capitale e le esigenze dei residenti. Attraverso casi pratici, il testo di Stephen Graham cerca di demistificare l'ideologia tecnocratica dominante secondo cui le tecnologie delle comunicazioni e le moderne infrastrutture avrebbero “annullato le distanze”, reso “indifferente lo spazio”, mostrandoci come, al contrario, le nuove reti applichino sempre più frequentemente distinzioni rispetto alla velocità e alla possibilità di accesso, tali da rendere lo spazio sempre più disomogeneo.
A partire da queste e altre premesse, in un lungo saggio da loro firmato, corredato da alcune esemplificazioni di carattere sociologico, i curatori propongono di mettere tra parentesi la distinzione tra urbano e non-urbano, di intendere cioè l'urbanizzazione come un continuum processuale atto a definire le nuove forme di accumulazione, accentramento e produzione di valore, e, da qui, di tentare di rendere evidente quel che a tale continuum si contrappone. Si tratta quindi di provare a leggere l'urbano come l'oggetto di una contesa politica sempre più radicale e a definirlo precisamente a partire da un simile conflitto, come afferma Mubi Brighenti nel penultimo saggio della raccolta:
«le tensioni, il loro preciso manifestarsi in un luogo […] nascono dall'interruzione brusca e a mano sovente armata di un processo di creazione di valore, con l'insorgenza di spinte che di quello stesso valore avanzano ora la rivendicazione, la difesa o lo sfruttamento. Fanno frizione, in quella divergenza, non soltanto le prospettive ma anche le diverse modalità di successiva e potenziale valorizzazione legate, alternativamente, allo sviluppo-sfruttamento (scalabile) o all'espressione di modi di vita endogeni (Non-scalabile)» (p. 206).
Ciò significa immaginare uno spazio urbano che non ha più propriamente un “fuori” ma che, all’opposto, possiede al suo interno innumerevoli interstizi, discontinuità, terrains vagues; sono precisamente questi spazi marginali, anche definibili come spazi dell'espulsione, che dovremmo analizzare per comprendere i connotati fondamentali dei conflitti attuali. Forme della città è una raccolta di saggi che propone un approccio inedito, perlomeno nel panorama italiano, al tema della nuova geografia urbana e globale; un ottimo punto di partenza per l'approfondimento di queste tematiche.
di Luigi Giroldo