Viviamo, suggeriscono voci diverse, in un’epoca di grande trasformazione. Nulla sarà più come prima e ciò che si trasforma non è “solo” il modo di produrre, ma i modi di vita individuali e collettivi. Questo dato, la trasformazione epocale in corso, accomuna le letture più diverse, scientifiche e non, e si presenta in questa veste come un fatto sociale interessante su cui riflettere. In altre parole, se le prognosi, ovvero ciò che andrebbe fatto per favorire, rallentare o ostacolare la “rivoluzione”, differiscono, le diagnosi che molti autori avanzano circa lo stato delle cose sembrano convergere su alcune questioni cruciali quali lo spazio e il tipo d’uomo (e soprattutto alcune sue qualità), principi della contemporaneità. Si tratta dello spazio urbano che ha sostituito la fabbrica (Florida, 2002; Hardt-Negri, 2009) e del cittadino-imprenditore di se stesso (Foucault, 2015) che ha preso il posto dell’uomo dell’organizzazione in senso lato, sia esso un impiegato o un operaio.
Abbiamo di fronte, come la conoscenza contemporanea ci insegna, un anthropos urbano. Egli (o ella, ma soprattutto, egli), senza chiedere troppo, è in grado di gestirsi e prendersi cura di sé, è fedele al proprio interesse e non prende ordini; al tempo stesso, mostra un genuino interesse verso la comunità politica di appartenenza alla quale intende dare un proprio soggettivo contributo, richiamando alla mente il cittadino della polis di Aristotele, unico vero e possibile spazio di civiltà. Il cittadino-imprenditore si adatta, si trasforma, in virtù del proprio capitale umano e del proprio senso critico e strategico, all’ambiente intorno a lui. Ciò che ha dentro di sé - che lo si pensi innato o socialmente costituito, risiedere nella mente, nel corpo o in entrambi - è una risorsa economica e politica. Egli è agito dal e agisce sul cambiamento, ma sembra disporre, forse a differenza di chi lo ha preceduto, di un certo tipo di potere.
Richard Florida, autore di un testo classico, L’ascesa della nuova classe creativa (2003), che ha, senza esagerare, dato il la a un acceso dibattito lungi dall’essersi esaurito, ha teorizzato l’emergere di una nuova classe sociale: la classe creativa. Essa mostra, tuttavia, scarsa coscienza di classe: in buona sostanza, secondo Florida, non sa, a differenza della classe operaia dell’epoca fordista, ciò che la renderebbe tale, sia in termini di diritti sia di doveri. Ovvero, essa non è consapevole del legame produttivo che accomunerebbe e distinguerebbe i suoi membri dal resto della società: la creatività in una lettura floridiana, ma più in generale, su un piano più astratto, la capacità cognitiva e affettiva che distingue i suoi membri in quanto produttori di beni e servizi e, cosa ben più rilevante, cittadini. Questa seconda e più generale lettura, relativa all’importanza delle skills cognitive in quanto risorse economiche, difficilmente troverebbe smentita nel dibattito scientifico attuale: questa è la cifra dell’anthropos contemporaneo, il suo potere. Ma qui è opportuno segnalare un passaggio importante, già presente nel testo di Florida: se è pur vero che il ricorso quotidiano a queste skills e soprattutto la capitalizzazione economica delle stesse sono ancora circoscritti ad alcune pratiche economiche, la “creatività”, dice Florida, è un attributo umano. La coscienza di classe che va dunque risvegliata non andrà in una direzione oppositiva, di una lotta di classe appunto, ma inclusiva: tutti noi siamo parte di questa classe, disponendo di default, in quanto esseri umani, di un’innata creatività e, mutatis mutandis, la stratificazione sociale risulta così “asciugata”: non ci sono più classi. Questo, credo, sia il nocciolo della straordinaria trasformazione di cui si narra da più parti. Ma dir creatività o capacità cognitiva non dice granché sulle modalità di esercizio di questo nuovo potere. Quest’ultimo si può supporre risieda in un metodo cognitivo, ovvero in un metodo che attiene tanto alle capacità soggettive di conoscere quanto a una singolare consapevolezza di ciò che si può conoscere, e dunque ai limiti della conoscenza acquisibile.
Paradossalmente, sembra affermarsi un soggetto che “può tutto”, come la massima del discorso dell’innovazione “cambiare il mondo” esemplifica bene, ma al tempo stesso riflette un particolare rapporto con la conoscenza: ovvero non solo l’uomo nuovo non ha paura di non sapere, ma non ha paura di dire che non sa e - aspetto importantissimo per le pratiche economiche innovative - di fallire. Quasi che onnipotenza e umiltà si condensassero e confondessero in questo metodo e in questo uomo.
A ben pensarci, questa attitudine riflette un mutato rapporto con tre elementi intimamente legati gli uni con gli altri: il rischio, l’incertezza e il futuro. Partendo da quest’ultimo per avviare il ragionamento, il futuro non è pianificabile poiché è ragionevolmente impensabile esercitare un controllo totalizzante su tutte le variabili che concorreranno a determinare il reale che verrà. Tale metodo mette da parte l’assioma del soggetto razionale, inteso come colui che ha il pieno controllo e si muove coerentemente rispetto a un fine noto e solo se conosce la direzione, per accogliere un uomo che si adatta ragionevolmente e intenzionalmente alla situazione rispetto un ventaglio di obiettivi, ma si muove nel non-noto e nell’incerto: ciò che l’economista Armen Alchian in un suo articolo seminale (1950) chiamò «purpusive behaviour in the presence of uncertainty and incomplete information». Fortuna o design, secondo Alchian, illuminano gli esiti del comportamento di uomo ragionevole. Si giustappongono qui una conoscenza totale a una conoscenza situata; la massimizzazione del profitto alla ricerca di profitto, la razionalità alla ragione.
Il metodo sta dunque nella “riflessione in azione”, concetto coniato da Donald Schön nel testo seminale Il professionista riflessivo pubblicato nel 1983. Si conosce agendo e auto-osservandosi nell’azione: il soggetto che descrive (e prescrive) l’autore, in buona sostanza, accoglie l’incertezza del proprio agire e da questo atto di consapevolezza si mette nelle condizioni di generare nuova conoscenza.
Facciamo un esempio pratico. Dal 2012 esiste una curiosa iniziativa che prende il nome di FuckUp Nights che si descrive come un movimento globale nato a Città del Messico da un’idea avuta da un gruppo di amici il cui intento è quello di celebrare le storie di fallimento imprenditoriale. Si tratta di una serata informale che si svolge in diverse città nel mondo, in cui personalità che “ce l’hanno fatta” raccontano i propri fallimenti e si può dire impersonino la celebre frase di Samuel Beckett: “ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio”. Se nomen omen, FuckUp Night combina insieme e su di sé le due pulsioni fondamentali, l’eros e la pulsione di distruzione (Freud, 1938) in un processo di distruzione creatrice schumpeteriana. Vedere per credere.
Febbraio 2016, Milano - La sala è gremita di gente, le luci sono basse, lo stile è casual, l’atmosfera è piacevole, la birra è servita. Tutto è pronto per la prima FuckUp Night milanese del nuovo anno. «Ciao, sono Lucia, sono una ricercatrice di falliti». Così introduce la serata l’organizzatrice dell’evento e prosegue: «L’obiettivo è sfatare un taboo e mostrare come il filo che unisce le storie di successo di questa sera, dei nostri fuckuppers, sia il fallimento. Per meglio dire, il coraggio di fallire e di ripartire». Si susseguono una serie di “falliti”, parlano di sé, di ciò che è andato storto, delle lezioni indispensabili imparate “facendo” e fallendo. Knowing-in-action appunto, come diceva Donald Schön rispetto all’apprendimento riflessivo: sbaglio, rifletto, imparo osservandomi, riprovo. A ben pensarci (e credo il lettore concorderà), la legittimità del proprio errare è una fonte notevole di piacere, se non altro per il sollievo che comporta dalla vergogna sociale. Ma c’è di più: errare, riconoscere i propri errori e imparare da essi è in questo caso indispensabile per l’imprenditore/innovatore. Gli stessi programmi di incubazione, la nuova frontiera formativa dell’imprenditore di se stesso, riflettono e esemplificano bene questo metodo: durante gli stessi vi è un continuo e serrato riesame del progetto imprenditoriale.
Sappiamo che dal punto di vista della storia della conoscenza, non si scopre mai davvero nulla, ma si impostano nuovi modi di conoscere, si “illuminano le cose diversamente” così da poter dire “Ah, ora ho capito come stanno veramente le cose”. Questa verità acquisita riflette la coscienza che un governo ha di sé in un dato momento storico e si traduce in pratiche. Rispetto a questa impostazione e alle riflessioni qui avanzate, emerge come siamo ben lontani oggi da un’arte di governo secondo una verità assoluta. Se così fosse, tuttavia, l’interrogativo che si apre è il seguente: secondo quale verità si articola l’arte di governo contemporanea? Prima ancora, c’è una verità che orienta, struttura la pratica di governo e l’uomo contemporaneo? Se, supponiamo, la verità è che non c’è una verità, qual potrà mai essere la portata trasformativa di una tale arte? Questo è un nodo politico importante da sciogliere, sul quale lo stesso Foucault lascia molto a intendere.
di Anna Paola Quaglia
Alchian A. (1950). Uncertainty, Evolution, and Economic Theory, The Journal of Political Economy, 58, 3, 211-221.
Florida R. (2003). L’ascesa della nuova classe creativa. Stile di vita, valori e professioni. Milano: Mondadori.
Foucault M. (2015), La Nascita della Biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979). Milano: Feltrinelli.
Hardt M.-Negri T. (2009). Commonwealth. Cambridge (MA): The Belknap Press of Harvard University Press.
Schön D. (1999). Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica professionale. Bari: Dedalo.