-
-
Filosofia sociale del pragmatismo
Recensioni / Ottobre 2022La filosofia sociale del pragmatismo di Matteo Santarelli (Clueb 2021) offre uno spaccato sui temi e problemi della filosofia sociale partendo da una impostazione pragmatista; il perno teorico attorno a cui ruota l’argomentazione del testo si identifica nella critica alle dicotomie. Come specifica l’autore, il problema non sta nelle dicotomie in sé ma sorge quando due termini opposti si irrigidiscono fino a cristallizzarsi e ad acquisire lo statuto di sostanze contrapposte. La struttura del testo si articola in sei nodi dicotomici (fatti/valori, concetti e non-concetti, individuale e sociale, ragione e sentimento, abiti e intelligenza, conflitto e integrazione) che, attraverso le prospettive di filosofe e filosofi pragmatiste/i, vengono via via discussi, sciolti e riarticolati.
Innanzitutto, vorrei soffermarmi un poco sulla seconda parte del titolo, che recita appunto Un’introduzione. Solitamente un’introduzione non è né più né meno di un accenno ad alcuni autori che hanno discusso una tematica specifica. Più che di un’introduzione, credo che questo testo si ponga il compito di un vero e proprio inizio, e questo per due motivi. Il primo motivo è di natura storica e riguarda la relativa giovinezza della filosofia sociale all’interno del più generale sapere filosofico. Il secondo motivo concerne invece una questione teoretica: mentre un’introduzione tende spesso a voler risultare neutra per offrire un resoconto in terza persona di un determinato argomento, qui ci sono invece dei presupposti a partire da cui si domanda: “C’è una filosofia sociale? E più nello specifico, si può parlare di una filosofia sociale del pragmatismo?”. E ovviamente la domanda solca già il terreno della risposta: ‹‹la filosofia sociale pragmatista è una filosofia sperimentale e valutativa, che intende proporre una specifica ontologia sociale›› (p. 19).
Il capitolo introduttivo espone i nuclei teorici che intonano – pur nella varietà delle dissonanze – il coro di voci della filosofia pragmatista. In primo luogo l’idea che il processo scientifico sia orientato in senso fallibilista e che dunque ogni nostra teoria o credenza sia infinitamente correggibile e rivedibile. In secondo luogo la formulazione della massima pragmatica, secondo cui il significato di un concetto risiede nei possibili effetti pratici, nelle pratiche concepibili e nella condotta in futuro. Dicevamo un coro di voci, vicine e lontane. Lontane sono infatti le voci che provengono da quel primo mormorio originatosi attorno al Metaphysical Club – così benraccontato da Louis Menand – di cui facevano parte Chauncey Wright (corifeo del Club e collaboratore di Darwin), Charles Sanders Peirce, William James e altri; c’è poi un coro di voci vicine, che, facendo tesoro dei principi elaborati in quelle prime occasioni, si incarna nelle figure di Jane Addams, Mary Parker Follett, William Du Bois – filosofe e filosofi che godono ancora di scarso interesse in Italia e che hanno sviluppato queste tematiche in chiave sociale –, ma anche di George H. Mead e John Dewey (a cui Santerelli dedica un cospicuo numero di pagine), sino ad arrivare alle soglie della contemporaneità con Hilary Putnam e Richard Rorty.
Soffermarsi nel dettaglio su ognuno dei sei capitoli sarebbe un’operazione che richiederebbe ben più dello spazio concesso a
una recensione. Per questo motivo ho deciso di attraversare più agilmente alcuni capitoli, dando più attenzione ad altri. Occorre tenere a mente che i singoli capitoli non trattano uno specifico autore ma che in ognuno di essi risuona la voce di filosofe e filosofi, rendendo complesso e articolato il ventaglio di variazioni sul tema scelto.
Nel primo capitolo, Fatti/valori, si assiste all’elaborazione di un dibattito che comincia con Humee che si alimenta attraverso la riflessione di Dewey, Mead, e Putnam (solo per fare alcuni nomi). Il capitolo inizia sottoponendo al lettore un avvenimento che accade nelle vite di tutti noi: ‹‹Capita a volte di trovarci di fronte a una situazione in cui non è così facile separare nettamente fatti e valori›› (p. 26). Si parte proprio da qui, e cioè da un’attenzione radicale al piano dell’esperienza, per elaborare una vicenda che non coinvolge solo l’esperienza dei singoli nel rapportarsi a valori, valutazioni e desideri, perché anche il procedere della scienza, come fa emergere Santarelli, con le sue pratiche strumentali sedimentate nel corso di una storia, mostra di essere intessuta di valori che le consentono di seguire determinati percorsi e di effettuare scelte specifiche. Come emerge attraverso la lettura della Teoria della valutazione di Dewey e di Come nascono i valori di Joas, Santarelli chiarisce come i valori non vadano intesi né come mere esperienze soggettive né come entità assolute slegate dal controllo razionale – per questo non possono coincidere con le norme – ma vadano situati all’interno di un processo relazionale che si articola a partire dall’interazione con gli altri, con l’ambiente di cui siamo parte e con la specificità della situazione in cui di volta in volta ci troviamo.
Il secondo capitolo, Concetti e non-concetti, ha come protagonista William James e credo sia la chiave di volta di questo testo. Vorrei dire così almeno per due ragioni. La prima è che qui Santarelli prende sul serio alcuni interrogativi che espandono l’orizzonte riguardo a come debba essere intesa la filosofia sociale in un senso ampio. La seconda è che viene introdotto un concetto, quello di articolazione, che si rivelerà essere uno strumento teoretico fondamentale lungo tutto il percorso del testo. A partire da Some Problems of Philosophy di James, l’autore si chiede quale sia lo spessore e lo statuto dell’attività concettuale e offre due possibili paradigmi con cui interpretare la pratica concettuale. Il paradigma della traduzione ritiene che l’attività concettuale sia slegata dall’esperienza e che ne tradisca, traducendola, la continuità. Accanto a questo vi è poi il paradigma dell’articolazione, secondo cui ‹‹i concetti possono aiutarci ad articolare alcuni aspetti ancora parzialmente indeterminati dell’esperienza e del reale›› (p. 62). Il contenuto dei concetti presenta dunque degli elementi vaghi che ci permettono di articolare, in determinate situazioni, alcune possibilità ancora involute dell’esperienza: ‹‹La teoria pragmatista muove dunque da un atto di onestà politica ed epistemologica: il riconoscimento di un livello ineliminabile di vaghezza, e quindi del carattere contingente dei nostri tentativi di articolazione›› (p. 66). Lungi dall’essere elementi disturbanti e sfavorevoli, l’incompletezza, l’indeterminatezza e la contingenza sono il marchio del nostro essere già da sempre presi in una situazione. La prospettiva pragmatista offre un quadro teorico nel quale, da un lato, si contesta la sacralizzazione dei concetti mentre dall’altro si promuove l’aspetto creativo della pratica concettuale, senza che venga intesa come creazione dal nulla, ma piuttosto come sviluppo e articolazione a partire dall’esperienza stessa.
Con il terzo capitolo, Individuale e sociale, si ritorna sul piano più strettamente sociale con la teoria del Sé di George Herbert Mead. Come nei capitoli precedenti, anche qui si assiste allo sfibrarsi progressivo di una dicotomia: quella tra individuo e comunità. Dire questo non significa né attribuire maggiore importanza alla condotta sociale e condivisa (come invece facevano i comportamentisti) né focalizzarsi esclusivamente sull’esperienza soggettiva e introspettiva. Individuale e sociale sono due fasi dell’esperienza che si costituiscono assieme: non ci sono Sé già formati che solo in un secondo momento entrano in relazione condividendo gesti e pratiche comunitarie. Al contrario, ‹‹il Sé non è qualcosa di dato, ma è qualcosa che emerge e che ci costituisce›› (p. 87) attraverso un processo di interiorizzazione che articola, mediante e all’interno di pratiche sociali, una sfera biologica ancora parzialmente indeterminata.
Ragione e sentimento è il titolo del quarto capitolo che mette a tema la questione delle emozioni e dell’affettività. Ma di che cosa parliamo quando parliamo di emozioni? James, Dewey e Mead, pur con diverse sfumature, offrono degli strumenti per chiarire innanzitutto che le emozioni sono un fatto corporeo (non sono l’effetto di uno stato mentale), hanno una struttura triadica (affect, attitudine, oggetto), sono relazionali, intersoggettive e situate. Dopo aver discusso le posizioni dei tre autori, Santarelli si sofferma sul concetto di interesse, come luogo teorico in cui le emozioni giocano un ruolo fondamentale. Gli interessi non sono un tentativo di dare ordine al caos delle passioni quanto piuttosto un modo di incanalarle e organizzarle. In Dewey ‹‹l’interesse integra noi stessi e il nostro ambiente, e allo stesso tempo integra mezzi e fini›› (p. 126): l’interesse è quello strumento che dà forma alla nostra vita pulsionale e che si articola in una pratica. In questo senso, ogni interesse è nello stesso tempo soggettivo e oggettivo. Anche qui la teoria pragmatista ci consente di tenere assieme la situazione particolare in cui di volta in volta ci troviamo e la tonalità emotiva che ci connota, senza che questi aspetti vengano ridotti a un soggettivismo atrofizzato; il valore della contingenza si misura nell’essere-proprio-qui, ed è solo a partire da questa indeterminata determinatezza che diventa possibile articolare la sfera cognitiva, il processo dell’indagine e della ricerca e insieme un’etica della condotta.
Uno studio sulla filosofia sociale del pragmatismo non poteva certo lasciare fuori dalla sua trattazione il concetto di habit, concetto cardine nel pragmatismo e che negli ultimi tempi è diventato un crocevia tra scienze cognitive, filosofia della mente, semiotica, filosofia politica e sociale. Il quinto capitolo, Abiti e intelligenza, mostra come per i pragmatisti, ‹‹mettere gli abiti al centro della nostra concezione dell’essere umano significa sottolineare l’importanza della dimensione pre-riflessiva del nostro comportamento, senza con ciò sminuire l’importanza della nostra intelligenza e della nostra capacità riflessiva›› (p. 148). Santarelli riprende le pagine di James dedicate al carattere plastico e dinamico degli abiti e le sviluppa integrandole con la prospettiva deweyana. L’abito, come ha detto Peirce, è un general e proprio per questo non può rappresentare un’azione singola ma piuttosto un modo di fare generale. Dewey approfondisce il quadro teorico, aggiungendo che ‹‹l’abito è una modalità relativamente stabile di relazione tra organismo e ambiente, che in alcune specifiche situazioni si articola in un’azione specifica›› (p. 153). Non mancano in questo capitolo alcune note critiche che Santarelli fa emergere in relazione alla dimensione inerziale e conservatrice degli abiti, con le conseguenti ricadute sul piano politico e sociale: accade infatti che alcuni abiti sopravvivano in condizioni in cui siano però sfavorevoli ai nostri attuali bisogni e interessi.
L’ultimo capitolo, intitolato Conflitto e integrazione, sviluppa una possibile critica che si potrebbe rivolgere all’approccio anti-dicotomico pragmatista, nel momento in cui ‹‹sembra mancare il ruolo costitutivo del conflitto all’interno delle nostre vite sociali›› (p. 177). Se così fosse, scrive Santarelli, il progetto di una filosofia sociale del pragmatismo sarebbe destinato a collassare. Per questo motivo, l’autore si sofferma su tre “faglie di conflitto”: la razza, la classe e il genere. La questione della razza e della classe è affidata alle riflessioni di William Du Bois, intellettuale afro-americano, che, nelle Anime del popolo nero, articola il concetto di “doppia coscienza”. Con doppia coscienza Du Bois intende l’interiorizzazione di rotture e contrasti sociali che ‹‹toccano e plasmano l’individuo dall’interno›› (p. 181). La figura di Jane Addams viene ripresa per quanto riguarda l’identità sessuale e di genere, nella consapevolezza che l’attività di Addams non si è limitata a questo. Come sottolinea l’autore, Addams viene spesso identificata con la nascita della Hull House, dove si riunivano le attiviste per dar vita a numerose attività sociali e politiche, sminuendo però in questo modo la portata teorica del pensiero di Addams e il suo rapporto con Dewey e Mead. L’ultima parte del sesto capitolo ha come voce principale Mary Parker Follett. Follett è una teorica sociale che si è occupata di questioni legate all’educazione, al lavoro, al salario minimo e al management ed è proprio qui che nasce il suo interesse per il conflitto. Il conflitto, dice Follett, può attuarsi in tre modalità: dominazione, compromesso e integrazione. Dominazione e compromesso sono polarità opposte che non riescono a risolvere il conflitto se non a un livello superficiale; entrambe presuppongono una logica a somma zero: se guadagno una cosa, la sto togliendo a un altro. L’integrazione ‹‹chiama in causa una soluzione creativa e innovativa, all’interno della quale le due parti non devono necessariamente rinunciare ai propri interessi›› (p. 188). Attraverso l’integrazione, gli interessi e i desideri vengono riorganizzati per farne emergere di nuovi. Questi nuovi interessi non nascono dal nulla, ma vengono articolati a partire da quelli presenti nella situazione di partenza. Gestire il conflitto in maniera integrativa non è una riflessione astratta ma una pratica collettiva ed è solo nel fare assieme, nel fare comune, che vi può essere quell’aggiustamento qualitativo che permette l’articolarsi di nuovi desideri, interessi e valori.
Lungo il suo itinerario, La filosofia sociale del pragmatismo, mostra come per il pragmatismo, ‹‹la verità non sta nel mezzo, ma al di là della stessa rappresentazione dicotomica›› (p. 196).Per concludere, vorrei aggiungere che oltre a essere un testo utile agli studi specialistici – che intendano conoscere e dialogare con il punto di vista pragmatista sul tema del sociale – e a offrire un contributo italiano alla storia del pragmatismo, riesce a non rimanere vincolato a un settore specifico. Santarelli, pur appoggiandosi alle analisi dei pragmatisti classici e contemporanei, scavalca la particolarità dei testi, introducendo concetti come quelli di situazione, novità, articolazione, vaghezza, emergenza, continuità che sono e continuano a essere il punto di forza della filosofia pragmatista.
di Rocco Monti
-
Breve introduzione alla lettura di Tim Ingold
La conversazione che segue si è svolta il 27 maggio 2017 a Aberdeen, al termine di una settimana di incontri della piattaforma europea Knowing from the inside, animata da attori tanto della pratica quanto della teoria attorno alla questione di una conoscenza viva e immanente. Una questione che Tim Ingold elabora da diversi anni, per lo più in maniera collettiva. All’incrocio tra arte e ricerca, questo gathering ha tentato di praticare e pensare un paradigma epistemologico e deontologico che, insieme a varie di letture dei suoi scritti, ha suscitato in noi una serie di domande relative al comune, alla democrazia e all’attenzione. Tali domande sono emerse nel corso di tale settimana dall’osservazione del percorso verso una « conoscenza dall’interno » intrapreso da Tim e da chi lo accompagnava. Ecco ricapitolati alcuni punti di riferimento preliminari affinché chi non conoscesse l’universo ingoldiano, assai singolare, possa orientarvisi.
Corrispondenze con il mondo
« Gli uomini di scienza non s’interessano semplicemente alle forme finali delle cose », scrive l’antropologo scozzese, « Essi cercano di penetrare al cuore dei processi della loro formazione ». Per cogliere la fabbricazione di un cesto, la costruzione d’un nido d’uccello, l’interpretazione di continuo rinnovata di uno spartito al violoncello, Ingold ha scelto la via dello studio della percezione incarnata dell’ambiente. A partire dal presupposto che ogni gesto emerge in corrispondenza con il mondo, che non può esser il prodotto d’una vuota astrazione impressa su una materia inerte, Ingold ha fatto di un certo paradigma ecologico la colonna vertebrale di un pensiero le cui ramificazioni raggiungono gli ambiti del fare (making), dell’educare, dell’abitare. Fare con (un mondo di materiali-in-divenire), fare lungo (delle linee), tramarsi in (un mondo-metereologico).
Attizzare l’aria immobile
La lettura di Ingold fornisce l’impressione di assistere ad un corpo a corpo ontologico: la trasmissione delle rappresentazioni contro l’educazione dell’attenzione, l’occupazione contro l’abitazione, il trasporto contro l’itineranza, l’hylemorfismo contro la morfogenesi. Nei suoi scritti l’antropologo si scaglia (non senza una certa ostinazione) contro le posizioni concettuali che tenderebbero ad alienare, ovvero a non prestare attenzione all’implicazione d’un organismo nel suo ambiente, a reificare, ovvero a non prestare attenzione al continuo divenire del mondo, a imporre, ovvero a considerare il mondo come un dato, inerte e impassibile, una « superficie di letteralità opaca, piatta e gelata». Ingold invita ad attizzare e nel contempo abbracciare il medium attraverso il quale siamo in divenire, e pensare le continuità che spezziamo piuttosto che sognare cocci da ricomporre.
Controllo e prensilità
Poiché separare gli organismi dal loro ambiente — come abbiamo separato lo spirito dal corpo per poter sovrastare il reale — non ha soltanto implicato un’illusione di controllo delle cose, ma ci ha anche trascinato in un processo opposto di perdita della presa rispetto alle cose, processo che costituisce un perquisito ad ogni ex-powerment radicale. Questa perdita prensile pare esattamente costituire una dei tormenti di Ingold: alimentati da un’interrogazione circa le possibilità e le forme del fare, dell’abitare e dell’educare, i suoi testi rappresentano degli inviti a offrire una presa, a esporsi alle forze e ai materiali che strutturano i nostri ambienti per meglio situarvisi e intesservi le nostre stesse forze e energie.
Ecologie politiche
È qui, sul terreno della percezione ecologica e incarnata dell’ambiente, che sembra prodursi il lavoro propriamente estetico-politico di Tim Ingold. Spesso implicito, poiché inscritto all’interno di scontri epistemologici, esso è divenuto la materia della conversazione che abbiamo avuto con l’antropologo. Come pensa le lotte di potere l’ecologia delle linee? Quali rapporti la poetica dell’abitazione del mondo intrattiene con il pensiero democratico così caro a Ingold? Quali sono le forme d’impegno e le possibilità d’azione dell’antropologia e delle arti in questa lotta?
di Martin Givors e Jacopo Rasmi