Recensire questa ristampa de L’architettura della città scritta da Aldo Rossi e pubblicata in prima edizione nel 1966, per noi architetti, implica grossomodo lo stesso sentimento misto di timore e noia che potreste provare voi di fronte a Essere e tempo o lo Zarathustra. Cosa si può dire, o meglio aggiungere, a ciò che è già stato detto in molteplici e svariati modi fino a generare una ciclopica orografia di interpretazioni? Cosa si può dire di più? Ci poniamo quindi di fronte al fatto in sé: una ristampa fedele alla prima edizione del libro. Partiamo quindi da qui, dal 1966, anno in cui la casa editrice Marsilio dà alle stampe questo libro che si colloca nella collana "Biblioteca di architettura e di urbanistica".
Uscire per Marsilio aveva già un significato di per sé importante perché questa casa editrice, nel corso degli anni Sessanta e Settanta, si presentava come un importante veicolo di diffusione della cultura architettonica italiana e del suo dibattito avente come protagonista una nuova figura di architetto: intellettuale prima e professionista poi. Architetti quindi che scrivono e progettano allo stesso modo, senza manifestare una prevalenza tra le due attività. Non è che tutto ciò suoni particolarmente nuovo; anche gli architetti che li avevano preceduti scrivevano libri e trattati (l’attuale interesse per il tema ben si riflette nel recente libro di Marco Biraghi L’architetto come intellettuale, Einaudi 2019). Nonostante ciò, se fino a quel momento scrivere riguardava in primis le poetiche dell’architettura, per gli architetti-intellettuali degli anni ’60 l’obiettivo era un altro e aveva come focus la città. Volumi come La Torre di Babele (1967) di Ludovico Quaroni e La costruzione logica dell’architettura (1967) di Grassi, pubblicati entrambi per Marsilio, esprimevano un tentativo che Aldo Rossi, forse meglio di tutti gli altri, era riuscito ad esprimere, ovvero: mettere in scena l’architettura come un carattere della città fisica che non ha nulla a che vedere né con l’amministrazione urbanistica pianificata dai burocrati, né gli standard edilizi sponsorizzati dall’industria delle costruzioni, e nemmeno le intenzioni (‘quasi sempre’ buone ma altrettanto ‘quasi sempre’ ineffettuali) dei maestri dell’architettura.
A poche righe dall’inizio di questa recensione, ci siamo già spinti troppo in là. D’altronde la storia di questo libro è talmente pregna di aneddoti e vicende da aprire una mole notevole di discorsi che si ripresentano come tutti importanti a tal punto da perdere ogni volta il filo della matassa che si vorrebbe dipanare. In ogni caso, questo groviglio di discorsi non ha alcun legame con l’operatività che ci si attende prosaicamente da un libro di architettura, cioè un libro scritto dagli architetti per altri architetti che (di norma) progettano e che vorrebbero trovare nei libri uno spunto per questa attività. In realtà, qualcuno ci aveva provato a dare un taglio manualistico al libro; ci riferiamo all’edizione del 1978, curata da Daniele Vitale per la casa editrice Clup. Dalle 215 pagine a cui ammontava originariamente, si era giunti a ben 350 pagine, di cui 30 di nuove note e altrettante in cui si raccoglievano le varie introduzioni redatte da Rossi in occasione delle edizioni straniere. Canonizzare questo testo nel vocabolario dottrinale dell’accademia non poteva che avere questo effetto collaterale adiposo. Un appesantimento a cui seguiva, già dall’edizione successiva del 1995, un dietrofront con cui si tornava al numero di pagine originario; e così Il Saggiatore ce lo ripresenta oggi con un’immagine di copertina che non ha nulla dell’originale sapore di collage analogico della prima edizione, con la pianta di una città cinquecentesca sovrapposta a una figura astratta, bensì un dettaglio fotografico della facciata dell’edificio residenziale del Quartiere Schützenstraße di Berlino, realizzazione fedele di un progetto di Rossi degli anni ‘90.
Se il libro è rimasto quello che era all’origine, una montagna di eventi, di pubblicazioni più o meno cerimoniose si sono depositate nella sua immediata periferia. In questi ultimi anni, le occasioni di parlare e pubblicare raccolte di saggi su L’architettura della città non sono mancate. Ci riferiamo per esempio, al collettaneo Aldo Rossi, la storia di un libro: l'architettura della città, dal 1966 ad oggi (2014), curato da Fernanda De Maio, Alberto Ferlenga, Patrizia Montini Zimolo per le edizioni IUAV; o al gruppo di architetti che si è riunito attorno al magazine San Rocco che ha riportato al centro del dibattito una certa fascinazione per l’architetto che scrive oltre a progettare (il volume 14, uscito nel 2018 e intitolato “66”, si ispira proprio a libro di Rossi).
Insomma, di Aldo Rossi se ne è parlato tanto e se ne continua a parlare al punto che sorge spontanea la domanda: non ne avevamo già sentite abbastanza su L’architettura della città? Sì, è evidente, ne abbiamo sentite tante, forse troppe… al punto che lo vediamo come un catino stracolmo che tende a tracimare al solo pensiero di sollevarlo per vedere cosa ci sta sotto.
Quindi, avviandoci a questa recensione abbiamo pensato che fosse meglio lasciar perdere per un attimo tutto ciò che è stato detto sul libro. Altrimenti non avremmo mai iniziato.
Ci siamo posti cioè nell’ottica di guardare al libro con lo stesso spirito con cui Rossi ha guardato alla città e ai luoghi della Pianura Padana, ovvero con una certa simpatia per le cose semplici, un amore spontaneo che accomuna i luoghi fragili alle grandi città. Un approccio che mette da parte per un attimo i pregiudizi e lascia spazio alle intuizioni. D’altronde, dopo tutto quello che altri hanno scritto siamo arrivati a sapere tutto del libro, quali sono stati i suoi riferimenti culturali e le sue ricadute su altre opere. A valle di tutto ciò, ci sembra però di aver perso la ragione della sua lettura; non sappiamo più come usarlo. Davanti a questa ristampa ci siamo fatti qualche domanda e abbiamo provato a rispondere.
1. È un libro di storia della città?
No. L’architettura della città non è un libro di storia della città né dell’architettura. Come ricorda Beatrice Lampariello [cfr. Aldo Rossi e le forme del razionalismo esaltato, Quodlibet 2017], Rossi nella sua introduzione parla del libro come di un «abbozzo di teoria» o uno «schizzo di teoria»; teoria urbana, per inciso. Per formulare questa teoria Rossi si avvale di testi che non sono di architettura ma scritti principalmente da geografi che si sono occupati della città tra cui, in particolare: Federico Chabod, Pierre Lavedan e Jean Tricart. Per Rossi l’obiettivo è quello di conferire una operatività al sapere geografico, caratterizzato da una “ricerca rigorosa ma chiusa”, proiettandone gli effetti sulla realtà urbana tramite l’architettura, o meglio «servirsene per la scienza urbana e l’architettura». Così, constatando la diffusione del libro a livello internazionale (iniziata nel 1971 con la traduzione spagnola per Gustavo Gilli), possiamo notare che nell’introduzione all’edizione portoghese del 1977 Rossi afferma: «ho usato di questi testi come si usa un materiale da costruzione [...], ho cercato di forzare questo materiale fino a renderlo assimilabile alla teoria dell’architettura». Rossi ci dice che porsi come obiettivo la scienza urbana non significa fare una cronistoria della sua evoluzione, bensì tentare di mettere in pratica ciò che si ha a disposizione, quindi i testi e le teorie di coloro che precedentemente si sono posti in questa prospettiva; per esempio, i geografi. Chiaramente in tutto ciò, la storia c’entra e Rossi non economizza nel richiamarsi a questo concetto in molte parti del libro. Si tratta però di una storia che dissolve l’istanza scientifica in quella spiritualistica della memoria, ovvero l’anima dei luoghi (e dei suoi abitanti): «l’ame de la cité diventa la storia, il segno legato alle mura dei municipi, il carattere distintivo e nel contempo definitivo, la memoria». Rossi ci propone quindi un’ermeneutica dei luoghi, un’istanza di mediazione tra i fatti della città, che preesistono e perdurano senza doverlo dimostrare, e le proiezioni valoriali di coloro che vivono la città: la cui esistenza (e permanenza) è tutta da dimostrare.
2. È un libro che insegna a progettare la città?
Se si pensa di trovare nel libro indirizzi per la progettazione architettonica si rimane delusi; al contrario, se si ricercano spunti poetici il libro straripa di suggerimenti… Partiamo da una considerazione sulla continuità tra teoria e progettazione, una questione epistemologica annosa in architettura. Se ci concentriamo sui progetti di Aldo Rossi constatiamo che essi non esprimono alcuna continuità evidente e logicamente determinata (sottolineiamo bene questi due concetti: continuità evidente e logicamente determinata) con le proposte teoriche che egli avanza nel libro. Non si tratta di assumere questa discontinuità come constatazione di un fallimento teorico o di una incapacità progettuale dell’autore; al contrario, questa condizione ci aiuta a chiarire che la scienza urbana, nella prospettiva di Rossi, non ha il significato di una ricetta per fare edifici. Il libro è ben lontano da esprimere questo genere di determinismo. E a questo scopo vorremmo sottolineare che la copertina scelta per questa ristampa del Saggiatore sembrerebbe proprio spingerci in questa direzione (sbagliata), che vede nelle parole di Rossi i suoi progetti; progetti, che sottolineiamo essere successivi al libro ma non conseguenti ad esso in senso teorico. Questa scelta, alquanto superficiale in effetti, contribuisce forse a demistificare qualsiasi morbosità bibliofila verso il libro come oggetto, investendo invece proprio sulla spontaneità e contingenza della sua sostanza.
In effetti, la vera priorità per Rossi era un’altra e stava proprio nella premessa al libro, uno studio giovanile intitolato Manuale di urbanistica (1963) dove individuava l’obiettivo essenziale del suo lavoro futuro in cui «studio e progetto si dovranno fondere in un’unità inscindibile». Nell’ottica di Rossi, il ‘manuale’ perdeva il suo significato convenzionale di indirizzo pratico per la progettazione e si riallacciava piuttosto alla tradizione del trattato, ovvero a un genere misto tecnico-letterario in cui il pensiero e l’esperienza dell’architetto fanno tutt’uno; in cui non c’è una priorità tra il fare e il pensare, tra progettare e studiare, poiché entrambe partecipano alla stessa costruzione. L’architettura della città va letta quindi come espressione di un atteggiamento verso l’architettura, che è grossomodo questo: progettare vuol dire porsi nella prospettiva di studio di un luogo. Studiare l’architettura significa porsi nella prospettiva del progetto.
3. Cosa ci dice di nuovo?
Fin qui abbiamo parlato di temi con cui il libro tende a rispecchiare il buon senso di un progettista; temi che per manifestarsi non avrebbero avuto davvero bisogno di L’architettura della città di Aldo Rossi. Ne abbiamo invece bisogno per un altro motivo, che è poi l’apporto suo personale e preziosissimo all’architettura, che consiste nell’individuazione di un vocabolario con cui affrontare la città, da architetto e con quella che egli definisce una «impostazione aristotelica». Il libro invita il lettore a entrare nel dominio ontologico della città attraverso alcune parole tra cui, in particolare: locus, elementi primari, tipo, area, monumento, memoria collettiva. Il lettore ci scuserà se non ci addentreremo sul significato di ciascuno dei termini elencati; ciò che possiamo affermare è che essi hanno il compito di conferire alle cose che si incontrano nella città e che di per sé resterebbero mute, il valore di fatti urbani che si consolidano nella memoria dei luoghi. Il lettore non si aspetti che questi concetti conducano alla scoperta di una prassi progettuale innovativa o alla scoperta di spazi inediti. Leggendo egli potrà constatare che Rossi non parla di una realtà altra rispetto a quella che si dà nel quotidiano; egli non ci dice nulla di veramente nuovo, semplicemente ci mostra come la quotidianità dei luoghi possa diventare dominio di una narrazione. Questa mossa, che può apparire un escamotage narrativo, un intellettualismo gratuito, ha in realtà una ricaduta decisiva nello svelare un moto latente del libro che «riporta [i problemi della] scienza urbana al complesso delle scienze umane»; una scienza urbana di difficile delimitazione di cui Rossi intende delineare la specificità, mostrando come la sua sfera di azione riguardi il dato ultimo di un’elaborazione complessa: l’architettura come fatto costruito. Solo a partire da questo ‘dato ultimo’ emerge chiaramente la portata politica implicita alla proposta di Rossi che trova un timido abbozzo nel capitolo che chiude il libro intitolato La politica come scelta.
4. Perché ha avuto successo?
Questa domanda ha chiaramente tante risposte. Ci interessa solamente una risposta possibile che implica la riformulazione della domanda. A nostro avviso le considerazioni sul libro come bestseller hanno pochissima utilità. È ovvio che il suo successo in termini di vendite sia esito di una congiuntura e che il libro sia figlio del suo tempo, ecc.. Tutto ciò riguarda l’industria culturale e la politica di marketing delle case editrici che ci compete fino a un certo punto. Fatichiamo a pensare ad Aldo Rossi come a un influencer dei nostri giorni, che scrive un libro nella prospettiva della sua diffusione mediatica; e se anche ciò avvenisse sarebbe al limite un effetto e non una causa. Il progetto editoriale del Saggiatore quindi, che come abbiamo detto appare essenzialmente estraneo dai pesi di una importante tradizione scolastica rossiana, può semmai offrire l’opportunità di acquisire il testo per ciò che è, senza giustificarne limiti o contraddizioni.
L’obiettivo di Rossi in effetti non era scrivere un libro, bensì proporre un atteggiamento nei confronti della progettazione architettonica diverso da quello del professionista tradizionale. Pertanto, il successo del libro andrebbe valutato negli effetti che esso ha avuto nell’ambito della professione architettonica. Come abbiamo detto, Rossi ci presenta una figura di architetto che studia e progetta a un tempo e L’architettura della città è un libro che non può essere compreso al di fuori di questa dimensione duplice. Una proposta intellettuale che trova un riscontro personale in un libro successivo intitolato Autobiografia scientifica (1990) in cui, dal confronto con altre figure come Ignazio di Loyola, emerge una dimensione biografica profondamente intrisa da un progetto intellettuale (per approfondimento ci permettiamo di rimandare A.A. Dutto, “The Saint and the Architect”, LOBBY (Bartlett School of Architecture magazine), n. 05 ‘Faith’, pp. 116-119, Aldgate Press: Londra). Il successo della proposta di Rossi non si misura tanto con le vendite ma con la capacità di conferire alla lettura un riorientamento dell’apparato concettuale con cui si guarda la città; città non solo come fatto ma anche come progetto. Un riorientamento quindi del soggetto che legge e non della città, oggetto del libro, che resta lì ferma dov’era.
5. Chi lo leggerà?
Tutte le osservazioni fatte fin qui ci portano inevitabilmente a questa domanda, a cui tuttavia non abbiamo una risposta. In linea di massima, gli architetti che si interessano di architettura (che costituiscono una parte minima degli architetti abilitati con licenza di uccidere) lo conoscono già, o almeno ne hanno sentito parlare e per quella che è la nostra esperienza lo odiano o lo adorano come fazioni avverse di uno scontro che ha tutti i caratteri di una guerra di religione. Lo leggeranno gli studenti di architettura di alcune università in cui la presenza carismatica di Aldo Rossi si è protratta a suon di conferenze e seminari più o meno celebrativi. Forse, grazie a questa recensione, qualche non architetto ne sarà incuriosito perché ci avrà trovato qualche legame con i filosofi citati o implicitamente richiamati. Sicuramente, il miglior supporto a una futura ristampa lo daranno i profondi odiatori, che a suon di critiche e veti costituiscono di fatto la più autentica e produttiva risorsa pubblicitaria del libro.
Un libro che anche i veri fans devono ammettere che non possa essere che amato e odiato a un tempo. D’altronde chi lo ama solo o chi si ostina a odiarlo non si godrà mai un vero classico.
di Andrea Dutto e Gregorio Astengo