“Quando l’Agnello aprì il quarto sigillo, udii la voce del quarto essere vivente che diceva: “Vieni”. Ed ecco, mi apparve un cavallo verdastro. Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli veniva dietro l’Inferno.”
Apocalisse (6, 7-8)
Nell’Apocalisse la fine del mondo è rappresentata come un’epocale resa dei conti tra il bene e il male, tra il dio dei cristiani e il suo acerrimo nemico, Satana, che emerge dal mare sotto forma di immonda bestia cornuta e getta nello scompiglio più totale l’umanità prima di essere sconfitto da un angelo salvatore e rigettato negli abissi dove resterà incatenato per mille anni. L’epico scontro con il quale si conclude la Bibbia inoltre è annunciato dall’avvento di quattro figure misteriose, i quattro cavalieri dell’apocalisse che per millenni hanno infestato gli incubi e l’immaginario occidentale al punto da saturarne l’universo iconografico: dalle xilografie di Dürer alla musica heavy metal (basti pensare al brano The four Horseman dei Metallica) fino al riferimento subliminale presente nelle prime, memorabili scene di Terminator 2: il giorno del giudizio, in cui si vede una giostra sulla quale bruciano quattro cavalli che hanno gli stessi colori di quelli immaginati dall’apostolo Giovanni. Secondo l’interpretazione allegorica del testo invalsa sino ad oggi, infatti, ogni dettaglio numerico, lessicale e cromatico presente nel libro dell’Apocalisse dovrebbe avere un significato esoterico e così il cavallo bianco starebbe a simboleggiare la guerra poiché chi lo cavalca brandisce un arco, quello rosso sangue sarebbe la metafora della violenza umana, quello nero rappresenterebbe la morte ed il cavallo verdastro (spesso raffigurato con tinte che ricordano la carne in putrefazione) sarebbe l’effige della peste e della malattia. E se l’avvento stesso dei quattro cavalieri è da intendersi come un’infausta allegoria dell’incipiente giudizio universale è perché per millenni l’umanità è stata veramente afflitta da guerre, carestie, violenze e pestilenze che hanno lasciato pronosticare la fine imminente di tutte le cose.
Ora, se è vero che grazie allo sviluppo scientifico e alle innovazioni tecnologiche l’umanità è riuscita ad affrancarsi, o quantomeno a mettersi al riparo, dai poderosi colpi sferzati da quei mali che per millenni hanno falcidiato e svilito la vita umana su questo pianeta è anche vero che, se volessimo riscriverlo oggi, al passo dell’Apocalisse in questione dovremmo aggiungere almeno una nuova figura.
All’emblematico corteo di sciagure che l’umanità è destinata a fronteggiare da sempre, e che segnalano come oscuri presagi una catastrofe incombente, manca infatti il riferimento figurativo a quella nuova e nefasta condizione mentale che connota il nostro vissuto quotidiano. Questo si scopre oggi afflitto da una condizione storicamente inedita di assoluto disorientamento cognitivo e di totale mancanza di punti di riferimento, sia simbolici che ideologici, frammista ad una patologica dipendenza da news (vere o fake che siano) e da stimoli percettivi filtrati attraverso gli schermi di tablet e telefonini. Il flagello che ammorba l’epoca contemporanea potremmo allora immaginarlo, in continuità con la lisergica visione giovannea, come un cavallo pixelato montato da un cavaliere che regge in mano un cellulare mentre è intento a twittare un articolo in cui si dimostra, ad esempio, che la terra in realtà è piatta. E se è vero che quest’immagine esula dalle capacità immaginifiche dell’apostolo Giovanni, è altrettanto indubbio che la comparsa di un tale spauracchio oggi si profila come una vera e propria piaga che nulla ha da invidiare alle altre (fame, guerra, pestilenza e malattia) e come il segno inequivocabile di una catastrofe sociale tanto inevitabile quanto imminente.
Nel suo ultimo saggio dal titolo Apocalypse Cognitive, Gérald Bronner (professore di sociologia all’Université Paris-Diderot e membro del rinomato Institut Universitaire de France) scandaglia con salacia, eclettismo e con grande rigore scientifico le ragioni che hanno condotto la nostra specie a smarrirsi nel vicolo cieco della distrazione permanente, nella palude dell’infotainment e nel baratro cognitivo che, se da una parte non lascia pronosticare nulla di buono per quanto riguarda il futuro della nostra specie, dall’altra offre quantomeno la possibilità di gettare uno sguardo inedito sui moventi ultimi e sugli apriori psicologici della natura umana. Il lavoro di Bronner infatti è da sempre incentrato sullo studio dei fenomeni sociali e culturali a partire dalla prospettiva offerta dalla sociologia cognitiva. Nei suoi libri si analizzano, con una particolare attenzione posta all’analisi statistica e quantitativa dei fenomeni presi in esame, tanto i meccanismi psicologici che presiedono alla formazione delle credenze collettive (Bronner 2006) quanto quelli che inducono a forme di radicalizzazione ideologica (Bronner 2012), tanto la naturale proclività umana a commettere grossolani errori di valutazione (Bronner 2015) quanto il costo sociale e politico, per le democrazie occidentali, della disinformazione e della credulità (Bronner 2016). Apocalypse Cognitive costituisce a tal riguardo una sorta di ricapitolazione e di rilancio dell’intera opera del sociologo francese, è un lavoro figlio di una lunga e ponderata gestazione intellettuale e suscita un particolare interesse per chi si occupa di filosofia. L’autore, infatti, oltre ad esaminare la problematica relazione che sussiste tra lo sviluppo tecnologico e l’evoluzione della mente umana, solleva questioni relative al senso della storia, al ruolo dell’intellettuale nel mondo contemporaneo e al concetto stesso di “verità”, intesa nel suo senso eminente di “disvelamento” e di “rivelazione”.
L’assunto principale dal quale muove Bronner consiste nel prendere atto che «la situazione inedita di cui siamo testimoni è quella relativa all’incontro tra il nostro cervello ancestrale e la concorrenza generalizzata degli oggetti di contemplazione mentale associata ad una liberazione, fino ad ora impensabile, del tempo cerebrale a disposizione» (p. 21). In altre parole secondo l’autore il mondo in cui viviamo sarebbe contraddistinto da una sorta di collisione tra da una parte l’attività psichica (finalmente liberata, grazie allo sviluppo tecnico e all’evoluzione della civiltà, da quegli oneri che per millenni hanno gravato tanto sulla disponibilità quantitativa quanto sulle modalità qualitative d’impiego dell’attenzione) e dall’altra la cornucopia di oggetti virtuali offerti dall’esplosione incontrollata del mercato cognitivo. Con questa formula ci si riferisce a quel bazaar globale di nozioni, idee e concetti le cui origini sono tracciabili all’incirca con l’invenzione della carta stampata, ma rispetto al quale l’impulso più determinante è stato dato, in anni recenti, dall’avvento e dalla diffusione di internet. In Apocalypse Cognitive i meccanismi squisitamente economici sottesi alla ricerca di un equilibrio tra la domanda e l’offerta all’interno del suddetto mercato vengono interpretati, in modo assai originale, come un vero e proprio esperimento sociopsicologico su scala globale. Il punto di equilibrio che ne risulta lascia emergere, come vedremo, uno specifico profilo antropologico.
Ogni secondo vengono prodotti nel mondo ventinovemila Gigabyte di informazione. Nel 2017 sono stati inviati, in media, duecentocinquantatremila messaggi al secondo e nello stesso lasso di tempo su Google venivano effettuate sessantamila ricerche sui temi più disparati. I numeri relativi alla quantità di informazione che la nostra civiltà globale produce e consuma sono sconcertanti (basti pensare, ad esempio, al fatto che il novanta percento delle informazioni disponibili in questo momento al mondo è stato prodotto negli ultimi due anni…) (p. 97) – ma a cosa servono precisamente tutti questi dati?
Anche se Homo Sapiens fosse genuinamente intenzionato a capire il mondo che lo circonda, infatti, dovrebbe comunque fare i conti con quei meccanismi ancestrali che regolano, inibendola e stornandola alla bisogna, la sua attenzione.
Ad esempio, se nel bel mezzo di una festa siamo immersi nel chiacchiericcio che rende indistinguibile ogni conversazione e qualcuno nella sala pronuncia il nostro nome ecco che, come per magia, questo si staglia sullo sfondo del brusio. Certo, è la prova più evidente che il cervello umano è stato plasmato dalla selezione naturale per prediligere ogni stimolo inerente a ciò che che ci riguarda. Ma questo fenomeno, studiato per la prima volta nel 1953 e definito “effetto pop up”, (p. 94) se da una parte ci permette di disporre immediatamente delle informazioni di cui abbiamo più urgentemente bisogno, dall’altra limita inevitabilmente il nostro accesso alla realtà nella misura in cui rigetta tutto ciò che non pertiene al nostro interesse personale. E la perversa alleanza che è venuta a crearsi in anni recenti tra questi meccanismi modellati dall’evoluzione e quella tecnologia che, oltre a facilitare le nostre ricerche su internet anticipa, prevedendole, le nostre preferenze, è tale da suscitare qualche legittimo timore dal retrogusto apocalittico. I “tunnel attenzionali” nei quali l’evoluzione ci ha condotti lungo il tortuoso sentiero dell’adattamento trovano infatti nella struttura algoritmica dei motori di ricerca uno strumento il cui utilizzo spesso amplifica a dismisura le convinzioni degli utenti che se ne servono. In fondo è come se quella preziosa risorsa che è la nostra attenzione confluisse, per ristagnarvi all’infinito, in virtuali casse di risonanza per ogni tipo di credenza, anche per le più ottuse e irragionevoli. Non solo risulta così impossibile fuoriuscire dal loop autocatalitico di superstizioni infondate: il rischio è quello di alimentare forme di ignoranza collettiva, di causare catastrofiche diffusioni di notizie fasulle e di nutrire i bias cognitivi proprio attraverso le modalità dalle quali ci si aspetterebbe il contrario. Ma la nostra attenzione può essere deviata e sussunta in altri modi.
Nella cacofonia informazionale costituita da tutto ciò che circola in modo assolutamente deregolamentato all’interno del mercato cognitivo si stagliano infatti, al di là di questi vicoli ciechi, alcuni elementi dotati di un intrinseco vantaggio concorrenziale. Non a caso l’umanità intera ammira attonita ogni anno centrotrentasei miliardi di video hard che corrispondono a ben un terzo dei filmati attualmente visionabili su internet. La somma totale del tempo immolato da tutti gli utenti del mondo alla visione di materiale pornografico annualmente ammonta a seicentonovantaduemila anni, mentre ne servirebbero solo centosessantanove ad un solo individuo (senza calcolare le pause fisiologiche come dormire e mangiare) per guardare tutti i filmati proposti solo da PornHub, (pp. 103-104) il primo sito al mondo nel settore. Anche in questo caso, certo, è perfettamente comprensibile leggere il fenomeno in questione come una continuazione, magari imprevista da un punto di vista strettamente naturale, degli automatismi comportamentali che presiedono alla riproduzione nella misura in cui la sessualità gioca un ruolo cruciale nella perpetuazione della vita. Quel che stupisce e che merita l’attenzione dell’indagine sociopsicologica di Bronner è semmai la smodata quantità di tempo, energie e risorse che ogni anno letteralmente evapora tra le mani di un’umanità avvinta nelle grinfie della masturbazione compulsiva.
Oltre al sesso, poi, nel cocktail globale di stimoli offerti sul mercato cognitivo c’è almeno un altro ingrediente che risalta in modo deciso: la paura. Ne più né meno dello zucchero o della cocaina, ogni informazione finalizzata ad allertarci riguardo a qualsiasi tipo di pericolo crea in noi dipendenza. È così difficile resistere allo stimolo del terrore che nel 2016 il quaranta per cento degli articoli letti su internet aveva come suo contenuto principale un evento cruento (incidenti stradali, morti improvvise, cataclismi naturali) (p. 116). Nel 2014 il sito d’informazione russo CityReporter è stato addirittura al centro di un involontario esperimento sociopsicologico teso a capire se per un giornale deciso a pubblicare solo notizie positive fosse possibile sopravvivere nel mercato editoriale: dopo poche settimane il crollo del settanta percento dei lettori ha obbligato la redazione ad una repentina retromarcia. Il direttore del giornale ha commentato l’esperienza con questi toni amareggiati: «Noi abbiamo cercato di pubblicare notizie positive, e pensavamo di averle trovate. Ma forse nessuno ne ha bisogno: è questo il problema» (pp. 201-202). E come nel caso della pornografia e dei tunnel attenzionali, anche quando si tratta di spiegare l’appetibilità suscitata dalla paura Bronner ricorre alla teoria dell’evoluzione, ponendo l’accento sugli inaspettati sentieri verso cui è stata condotta la vita nel suo sforzo di adattarsi ad un ambiente sempre meno naturale e via via più virtuale:
«C’è qui in ballo una logica preistorica. Questa logica radicata nella nostra biologia ha avuto la sua utilità evolutiva, ma provoca degli effetti collaterali nelle nuove condizioni storiche generate dall’esplosione del mercato cognitivo. Il rischio più evidente nel quale incappiamo è quello di consacrare le nostre risorse per delle lotte contro dei pericoli infondati o di costruire delle gerarchie di pericoli fondamentalmente arbitrarie» (p. 117)
Tutti gli esempi qui riportati indicano anzitutto come «la captazione della nostra attenzione, che è una merce limitata, molto spesso non obbedisce alla qualità dell’informazione scambiata ma piuttosto alla soddisfazione mentale che essa induce» (p. 215) e dimostrano anche come i moventi ultimi di questi mercanteggiamenti facciano capo ad una serie di bisogni innati che non trovano di che soddisfarsi. E se da una parte questo disorientamento rende palese la condizione di fondamentale incompletezza ontologica in cui riversa la psiche umana, dall’altra esprime, al negativo, le preferenze che indicano un particolare, connaturato interesse per alcuni oggetti e non per altri. Se «nel mondo contemporaneo, certi elementi fondamentali della nostra natura mentale sono presi in carica più facilmente dall’offerta» (pp. 164-165) è perché allora, evidentemente, la mano invisibile che regola il mercato cognitivo è mossa da una volontà sulla quale il sesso, la paura e le informazioni riferite al proprio sé esercitano una sorta di fascino irresistibile, e questo è il vero e proprio oggetto di studio di Apocalypse Cognitive.
Bronner presenta infatti un’analisi che si serve delle indagini quantitative offerte dalla statistica, dei dati raccolti dalle rilevazioni informatiche e dei risultati sperimentali in più di un secolo di indagini psicologiche, come di una sorta di setaccio che rileva il peculiare vantaggio concorrenziale di tutti i prodotti offerti dal mercato cognitivo – e questi, come per riflesso, offrono preziosi spunti per inedite ed originali riflessioni antropologiche. Scandagliando le fluttuazioni di questa compravendita dell’attenzione è infatti possibile (seguendo modalità non dissimili da quelle che nel mondo del marketing vengono definite customer profiling) azzardare una sorta di analisi incrociata che a ritroso offre un’immagine piuttosto verace del soggetto economico che agisce dietro a questi scambi. E così, forte di un solido impianto bibliografico che spazia da Bernard Stiegler ad Antonio Damasio, dalle neuroscienze fino alle rilevazioni prodotte da multinazionali come Youtube e Google, e attraverso una fitta rete di riferimenti alla cronaca e agli episodi di Black Mirror, l’autore di Apocalypse Cognitive avanza una tesi solenne, una sorta di diagnosi epocale relativa al nucleo scabroso e abietto che pulsa al cuore della nostra natura.
E il profilo dell’umanità che si intravede tra le pagine del libro è lo stesso, verrebbe da dire, di quel soggetto che vediamo riflesso negli schermi opachi di quei telefonini che assorbono implacabilmente, giorno dopo giorno e sempre di più, il nostro prezioso capitale attenzionale:
«Il mondo contemporaneo, così come viene dispiegato dalla deregolamentazione del mercato cognitivo, offre una rivelazione – ovvero un’apocalisse – fondamentale per comprendere sia la nostra natura che i rischi che ci attendono. Questa deregolamentazione ha come sua conseguenza primaria la fluidificazione generale tra la domanda e l’offerta, in particolare per quanto riguarda il mercato cognitivo, e questa coincidenza tra l’una e l’altra non fa apparire né più né meno che le grandi invarianti specie specifiche dell’umanità. La rivelazione, allora, è relativa a quella che definirei un’antropologia non ingenua. Il fatto che il nostro cervello sia recettivo rispetto ad ogni informazione egoriferita, agonistica, legata in qualche modo alla sessualità o alla paura, per esempio, disegna un profilo piuttosto verace di Homo sapiens. La deregolamentazione del mercato cognitivo attualizza in un certo senso quello che esisteva solo sotto forma di possibilità. Nei tempi lunghi della storia queste potenzialità sono state limitate da ogni sorta di regolamentazioni e di impedimenti: censura, interdetti religiosi, ostacoli geografici, limiti informazionali, forme di paternalismo più o meno permissive…Oggi, grazie alla deregolamentazione del mercato cognitivo, l’offerta e la domanda si accordano al meglio – e al peggio – e ci permettono di scrutare da vicino l’immagine di noi stessi». (pp. 191-192)
Lungi dal configurarsi quale semplice avvisaglia della fine del mondo o come il mero epilogo della plurimillenaria avventura del genere umano, l’apocalisse di cui ci parla Bronner va intesa allora nel senso etimologico più proprio all’etimo greco: ἀποκάλυψις (apokálypsis), ovvero “rivelazione”. Il termine ha un significato drammaticamente prossimo a quello di ἀλήθεια (aletheia), comunemente tradotto con “verità” ma che può essere meglio reso come “lo stato del non essere nascosto; lo stato dell'essere rivelato”, e com’è noto fu Martin Heidegger a dedicare più di una pagina alla questione di quale verità sarebbe stata disvelata all’uomo dallo sviluppo tecnologico (Heidegger 1991). Ma Heidegger, così attento ai movimenti tortuosi del disvelamento, si muoveva a sua volta sul solco teoretico tracciato da Immanuel Kant. Nella sua Critica della ragion pura, (Kant 1997) il titanico filosofo di Köningsberg si era posto come obiettivo proprio l’indagine relativa alle condizioni di possibilità della conoscenza che precedono ogni esperienza empirica e che, non potendo essere raggiunte dai sensi, devono essere descritte da un'analisi critica svolta dalla sola ragione. E siccome lo scopo che accomuna Kant e Bronner sembra proprio essere quello di voler rivelare, seppur con metodi e strumenti concettuali differenti, la verità che in fondo pertiene alle “grandi invarianti specie specifiche dell’umanità”, noi non possiamo che accogliere le recenti osservazioni condotte in Apocalypse Cognitive se non come una sorta di continuazione alla o di compendio della filosofia trascendentale. Il parallelismo, al contrario di come può sembrare a tutta prima e nonostante il fatto che Kant non figuri tra i riferimenti di Bronner, non è affatto forzato. Infatti, se Kant cercava di estrarre per via squisitamente speculativa dalle fonti della ragion pura (in quanto scevra da ogni contaminazione empirica) le forme intellettuali che regolano, limitano e lavorano a priori ogni pensiero, per Bronner al contrario la scommessa della sociologia cognitiva consiste proprio nell’individuare il sostrato impuro dell’animo umano: quella dimensione che plasma a nostra insaputa le nostre performance cognitive ma che può essere approcciata solo a posteriori.
Ma la dialettica tra purezza e impurità, che ci permette di leggere Apocalypse Cognitive come una vera e propria Critica della Ragion Impura, può essere interpretata anche in senso lato, più letterale: se infatti l’analitica trascendentale risultante dalla speculazione filosofica kantiana elicita quanto di più razionale e puro l’animo umano disponga(i concetti, le categorie ed i principi) l’indagine promossa da Apocalypse Cognitive rivela al contrario i funzionamenti atavici che regolano tutto quello spettro della cognizione umana filosoficamente spurio, istintuale e irriducibile all’intelletto. La dipendenza dai vari bias di conferma, la viscosa attrazione esercitata dal sesso e dalla paura, così come la zavorra mentale costituita dalla strutturale incompletezza ontologica della natura umana, sono infatti caratteristiche precipue ed inemendabili di questa natura, vere e proprie strutture trascendentali che fungono da contrappeso a tutto l'equipaggiamento razionale individuato da Kant, e che contribuiscono così a restituire un’immagine di Homo Sapiens più realistica, meno astratta e intellettualistica.
Un’immagine più respingente e scabrosa di quella tanto in voga presso quegli ambienti intellettuali nei quali fermentano teorie critiche alla moda e vengono prodotte analisi sociali intellettualmente seducenti, ma in cui è diffuso, nelle parole dell’autore, un approccio “antropologicamente ingenuo”. Quando Bronner afferma, ad esempio, che «non ci sono forze sociali misteriose e potenti che orientano il comportamento degli individui, come si crede quando si pratica della sociologia ingenua, ma micro-anticipazioni che producono effetti collettivi involontari, benché prevedibili» (p. 214), sembra allora riferirsi alla disinvoltura con cui molti degli intellettuali di oggi sono portati ad accanirsi contro il saracino dell’assoggettamento sistemico – sia esso incarnato dal capitalismo, dal neoliberalismo o da quella cangiante chimera dalla discutibile credibilità che è l’eterocispatriarcato…
Gli strali polemici del libro sono infatti indirizzati a tutti quegli autori stregati dalla militanza e inebriati dall’attivismo che, anteponendo le loro schematiche concezioni del mondo all’esperienza diretta dei fatti più elementari, rimangono vittima di una concezione parziale, romantica e idealista tanto delle scienze sociali quanto della politica:
«Piuttosto che degli esseri eteronomi sballottati dalle malvage intenzioni di un misterioso sistema di dominazione, gli individui sono spesso degli attori che tentano strategicamente di conciliare i loro interessi materiali e simbolici. A volte dissimulano nei loro discorsi delle virtù che sono disposti a sottoscrivere a giorni alterni. Alcuni tra loro, certo, lo fanno solo per ipocrisia ma non è il caso di generalizzare sposando una tesi così misantropa. Basta ricordarsi dell’esistenza di quei conflitti che risiedono al cuore stesso del nostro cervello. La soluzione a questi conflitti, spesso, è tributaria di quelle soddisfazioni a breve termine rispetto alle quali siamo disposti ad indulgere e che ci illudono di risolvere problemi a lungo termine» (pp. 291-292).
L’invito a valutare la portata di “quei conflitti che risiedono al cuore stesso del nostro cervello” quindi va letto come un’esortazione di stringente attualità indirizzata tanto ai fruitori quanto ai produttori dei manufatti virtuali in vendita sugli scaffali del mercato dell’informazione. E la rivelazione cognitiva epocale che descrive Bronner, come sarà ormai chiaro, riguarda proprio la carsica rilevanza culturale e politica dei funzionamenti inconsci che governano il rapporto tra informazione, consumo e soddisfazione e che allignano nel profondo della psiche umana, da dove preferiremmo distogliere lo sguardo. Apocalypse Cognitive costringe al contrario il lettore a scrutare nei meandri di questa rivelazione come se si trattasse di fissare gli occhi della testa di Medusa (la stessa che, dipinta dal Caravaggio, campeggia non a caso sulla copertina del libro…) il cui potere, secondo il mito, era quello di pietrificare chiunque l’avesse guardata.
È infatti solo vincendo le resistenze mentali nei confronti di quelle verità scomode che fanno capo ad una “antropologia non ingenua” che è possibile oggi assolvere seriamente al ruolo dell’intellettuale. E al contrario di quanto affermato da Thomas Jefferson, secondo cui “solo l’errore necessita di un aiuto da parte del governo, la verità si difende da sola” (p. 216), Bronner sostiene che la verità nel mondo in cui viviamo non si difenderà affatto da sola ma, anzi, avrà bisogno dello sforzo di studiosi, giornalisti e ricercatori capaci di discernere il vero dal falso, e il plausibile dall'irragionevole, in un contesto di assoluta anarchia informazionale. Il lavoro intellettuale, oggi, non può dunque prescindere dal dovere di riconoscere l’ombra lunga che le strutture psichiche ancestrali proiettano nel bailamme indifferenziato del mercato cognitivo. E al fine di scongiurare la deriva identitaria del dibattito politico, per limitare la circolazione incontrollata di idee ingannevoli e per imparare a muoversi con disinvoltura in quella “battaglia di narrazioni” (p. 312ss) che imperversa nell’agone multimediale della società globale informatizzata, l’autore di Apocalypse Cognitive consiglia saggiamente che imparare a resistere allo sguardo pietrificante della verità, prima ancora che a difenderla, è un compito duro ma inevitabile.
Filippo Zambonini
Bibliografia:
Bronner G, Vie et mort des croyances collectives, Hermann Editeurs des sciences et des arts, Paris 2006
Bronner G, Il pensiero estremo. Come si diventa fanatici, Il Mulino, Bologna 2012
Bronner G., L’empire de l’erreur. Éléments de sociologie cognitive, PUF, Paris 2015
Bronner G, La democrazia dei creduloni, Aracne, Roma 2016
Bronner G, Apocalypse Cognitive, PUF, Paris 2021
Heidegger M., La questione della tecnica, in Saggi e Discorsi, a cura di Gianni Vattimo, Mursia, Milano 1991
La psicologia è ibrida. O tale dovrebbe essere. Da sempre il suo status è meticcio, frutto di una sintesi che miscela elementi filosofici, religiosi, scientifici e occultistici. La deriva presa dal suo insegnamento e dalla relativa pratica terapeutica nel corso del Novecento ne ha però messo in crisi alcuni aspetti basilari: primo fra tutti la commistione col sapere scientifico finalizzata a custodire un insieme di conoscenze che, però, il passare degli anni ha reso sempre più datato. Sembra infatti essersi verificato un progressivo isolamento, che ha reso il sancta sanctorum della psicologia, lo studio terapeutico, un luogo refrattario alle influenze esterne, impermeabile alle contaminazioni disciplinari e, soprattutto, poco avvezzo ad aprirsi alla scienza che, nella Vienna di fin de siècle, aveva non poco influenzato i primi studi dei maestri Freud e Jung. Con il libro Biologia dell’anima (Bollati Boringhieri, 2015), Maurilio Orbecchi si propone di restituire alla psicologia il suo tratto distintivo, la tendenza alla fusione dei saperi, auspicando che tale disciplina si apra a nuovi campi d’indagine di matrice scientifica. Per farlo, l’autore si affida a un riposizionamento concettuale proprio del postumano: riconsiderare l’animalità dell’uomo e abolire ogni pretesa di eccezionalità umana, obsoleto retaggio di secoli di umanesimo. Da dove ripartire dunque, se non da Darwin? La teoria dell’evoluzione – sia nella forma originale ottocentesca sia in quella che il Novecento ha prodotto con la sintesi moderna, conosciuta come neodarwinismo – diventa quindi la bilancia critica dell’opera di Orbecchi, grazie alla quale è possibile tarare la presunta scientificità delle principali scuole psicologiche e al tempo stesso costruire un’architettura di matrice biologica sulla quale innestare altri saperi. L’edificio ottenuto dovrebbe, dopo questa fondamentale operazione di riassestamento e aggiornamento, azzerare gli ultimi ma ancora piuttosto vivi afflati di matrice dualistica presenti nel pensiero e nella terapia odierni.
Non c’è traccia di naturalismo nel procedere critico del saggio: l’autore, non appellandosi esclusivamente alla genetica, evita lo spauracchio del determinismo proprio di alcune scuole di pensiero post-darwiniane (dall’ultradarwinismo di Dawkins alla sociobiologia di Wilson), e propone una definizione di Homo sapiens come «insieme complesso di sistemi psicobiologici egoisti e altruisti sulla cui espressione influisce largamente l’ambiente di sviluppo» (p. 161). Appare chiaro che, in tale cornice, non possono trovare posto il determinismo psichico freudiano e il finalismo junghiano, così come tutti quegli aspetti teorici invalidati da una scorretta lettura della teoria evolutiva, apertamente lamarckiani oppure ampiamente superati dal punto di vista scientifico – come il ricorso alla legge biogenetica di Haeckel, il cui principio (l’ontogenesi riepiloga la filogenesi) non è più considerato valido al giorno d’oggi. In aggiunta ai riferimenti continui a studi contemporanei nel campo delle neuroscienze cognitive e affettive, Orbecchi ricorre alle ricerche effettuate da numerosi etologi, come Frans de Waal, nel campo della psicologia animale e di quella comparata. Alla luce delle recenti scoperte scientifiche relative a questo settore, appare chiaro che la divisione del vivente operata da Freud in esseri umani (animati da pulsioni, Triebe) e animali (schiavi dell’istinto, Instinkt) è quanto mai scorretta e approssimativa. Nonostante ciò, ancora oggi, nelle parole di psicanalisti come Massimo Recalcati riecheggiano superati ritornelli antropocentrici: «Il corpo animale appare governato integralmente e infallibilmente dalle meccaniche naturali dell’istinto; è un corpo totalmente asservito alle esigenze della riproduzione della specie e determinato dalla necessità della propria autoconservazione» (2012, pp. 126-127). Le specie non umane – dalla medusa al gorilla – sono raggruppate in una categoria indistinta, l’Animale, i cui tratti distintivi sono un’infallibile meccanicità di cartesiana memoria e un principio causale che fa invidia ai deterministi più ortodossi. Non c’è spazio alcuno per ciò che sta oltre l’umano, per ciò che gli scienziati osservano ogni anno in numerose specie, dal delfino ai grandi felini, passando per il bonobo (Pan paniscus), specie che sta al centro delle grandi ricerche sulle scimmie antropomorfe odierne, la cui complessa vita sessuale presenta omologie con quella umana tali per cui parlare di “binari istintuali” appare quantomeno riduttivo. Risulta dunque evidente quanto ancora non sia stata assimilata né compresa un’importante lezione darwiniana: le differenze che separano l’uomo dagli animali non umani, siano esse evolutive, strutturali o cognitive, non sono di qualità ma di grado.
La principale accusa mossa agli impianti teorici costruiti da Freud e da Jung (e successivamente ampliati da numerosi epigoni) consiste nell’identificare tutti gli aspetti che promuovono una “psicologia culturalista” all’interno della quale l’uomo, forte delle sue doti eccezionali di natura esclusivamente culturale, si trova a essere fulcro del mondo, entità priva di connessioni con l’Altro non umano e mancante di strutture psicobiologiche condivise con altri mammiferi. Orbecchi smonta pezzo dopo pezzo i fondamenti della psicologia freudiana e junghiana – dall’inconscio alla sincronicità, passando per la sublimazione e il transfert – al fine di rileggerne alcuni da un punto di vista per così dire moderno, interdisciplinare ed evolutivo, e di proporre una psicoterapia libera da scuole dogmatiche, votata all’accrescimento della consapevolezza evoluzionistica in ogni sua corrente, orientata dal racconto e fondata sul buon rapporto (il rapport di Pierre Janet) fra analista e paziente. Obiettivo ultimo è dunque demolire il “muro di Vienna”, restituendo al tempo stesso importanza ad alcuni precursori ormai sprofondati nell’oblio, come William James e Pierre Janet, i cui studi sono forti di intuizioni e teorie ben più valide, in particolare per quanto concerne la scientificità, rispetto a quelle proposte dai mostri sacri del sapere psicologico definiti, in un affondo provocatorio dell’autore, “morti viventi”. Biologia dell’anima non è un pamphlet scientista il cui intento consiste nel distruggere un secolo di sapere, bensì un lavoro che sostiene la creazione di una psicologia multilivello e che pone alla base di tale operazione contaminante il contributo della biologia, non tanto perché senza biologia non si possa comprendere alcunché, ma perché, come scrive Roberto Marchesini in Post-human: «L’uomo non può essere compreso al di fuori del contesto biologico, non perché le leggi della biologia possano da sole spiegare la sua natura, ma perché è proprio la natura biologica a rendere la sua ontogenesi ricorsiva – anche in quella mirabile costruzione che è la cultura – ovvero inspiegabile assumendo un solo punto di vista» (2002, p. 52).
Bibliografia
Marchesini, R. (2002). Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza. Torino: Bollati Boringhieri
Recalcati, M. (2012). Ritratti del desiderio. Milano: Raffaello Cortina Editore
Nel suo saggio Postumani per scelta. Verso un’ecosofia dei collettivi, ospite della collana “Spiritualità senza Dio?” diretta da Luigi Berzano, Giovanni Leghissa dà unitarietà a un tema che ormai lo vede occupato da alcuni anni (La fondazione, la fondazione dell’umano, il post-umano, 2013; Il postumano: un nuovo paradigma?, 2013; curatela di aut aut, La condizione postumana, 2014). Nonostante la brevità del saggio, l’autore si propone di soddisfare la duplice esigenza teorica di inquadrare da più vicino lo sfuggente dibattito sulla questione postumana e, insieme, di estrarne una possibile interpretazione critica. Così, alla messa in ordine di linee guida di una discussione spesso frammentaria, si affianca l’argomentazione di una tesi, frutto dell’incontro di assi di ricerca eterogenei ma convergenti. Le fonti e le questioni interpellate sono infatti numerose e provenienti dalle più disparate aree del sapere filosofico. Tra i “maestri” e le tradizioni di pensiero che vediamo avvicendarsi figurano l’illuminismo, l’evoluzionismo, la filosofia francese del dopoguerra, l’epistemologia, la fenomenologia husserliana, l’idea di un sapere enciclopedico alla Enzo Paci, la decostruzione e l’antropologia filosofica di Hans Blumenberg. Come dichiara l’autore, si tratterà allora di seguire questi molteplici stimoli nell’intento di definire la condizione postumana in termini filosofici, individuando e descrivendo schematicamente gli atteggiamenti caratteristici del suo approccio.