Era il Maggio 1942, esattamente ottant’anni fa. A New York si tenne il seminario “Cerebral Inhibition”. Organizzato da Frank Fremont-Smith, allora direttore medico della Josiah Macy Jr. Foundation, il seminario vide tra i partecipanti svariati ricercatori provenienti da diversi ambiti del sapere: oltre agli antropologi Margaret Mead e Gregory Bateson, vi presero parte lo psicanalista Lawrence Kubie, lo scienziato sociale Lawrence K. Frank e due neurofisiologi: Warren McCulloch – che un anno dopo avrebbe pubblicato, insieme a Walter Pitts, un testo pioneristico sulle reti neurali artificiali – e Arturo Rosenblueth. Quest’ultimo, per l’occasione, presentò la ricerca, condotta insieme a Norbert Wiener e Julien Bigelow, che portò alla stesura del celebre articolo Behavior, Purpose and Teleology (1943), nel quale si mostrava l’equivalenza funzionale tra il comportamento finalizzato del vivente e quello esibito dalle macchine auto-regolate tramite retroazione.
Fu da questo nucleo di ricercatori che, finita la Seconda Guerra Mondiale, sotto l’egida della Macy Foundation, prese vita un ciclo di conferenze interdisciplinari con cadenza semestrale, che si tennero dal 1946 al 1953. Dapprima intitolate “Feedback Mechanisms and Circular Causal Systems in Biology and the Social Sciences”, dopo il 1948, con l’uscita di Cybernetics, or the Control and Communication in the Animal and in the Machine di Wiener, le conferenze presero il nome di “Cybernetics: Circular Causal, and Feedback Mechanisms in Biological and Social Systems”. Tra i partecipanti, vi furono matematici, psicologi sperimentali e gestaltisti, fisici, ingegneri, sociologi, ecologi, antropologi, biologi e linguisti.
Come ebbe modo di ribadire Fremont-Smith in occasione del sesto incontro, l’obiettivo delle conferenze era quello di fondare un ambiente di ricerca interdisciplinare in cui, a partire dalla costruzione di un linguaggio comune, si potessero affrontare problemi che, sebbene sorgessero in contesti disciplinari differenti, presentavano degli isomorfismi tali da renderli trattabili tramite modelli operativi condivisi. In estrema sintesi, i cibernetici perseguivano un ideale di unificazione delle scienze facendo leva su fenomeni e processi trasversali ai vari saperi. La storia delle conferenze di cibernetica fu, in buona sostanza, una ricerca incessante di mediazioni. Non a caso, le nozioni che si affermarono in quel contesto, e intorno alle quali ruotò buona parte delle conferenze, fungevano da mediatori: 1) l’informazione, concepita come entropia negativa, prometteva di mediare tra processi fisici, biologici, psichici e sociali; 2) i meccanismi circolari, fondamentali per comprendere tutti quei processi nei quali l’interazione tra sistemi o sottosistemi produce una dinamica omeostatica, promettevano di mediare tra l’ambito ingegneristico, quello fisiologico e quello sociologico; 3) il calcolatore elettronico – allora allo stato embrionale – prometteva di mediare tra processi mentali – ragionamento logico, comprensione degli universali, ecc. – e processi materiali – trasmissione di segnali elettrici in un circuito.
«Ce n’est plus d’une libération universalisante que l’homme a besoin, mais d’une médiation», scriverà Gilbert Simondon (1958, 103) a proposito dell’ideale enciclopedico della cibernetica, cogliendone appieno lo spirito. Questo ideale enciclopedico si accompagnava a una dichiarata volontà di rinnovamento delle categorie filosofiche e di superamento di molte dicotomie metafisiche. Nel primo capitolo di Cybernetics, intitolato “Newtonian and Bergsonian Time”, Wiener sosteneva che grazie alla cibernetica «the whole mechanist-vitalist controversy has been relegated to the limbo of badly posed questions» (Wiener 2019, 63). McCulloch e Pitts affermavano che la loro rete neurale era, di fatto, una risoluzione del mind-body problem: «[…] both the formal and the final aspects of that activity which we are wont to call mental are rigorously deducible from present neurophysiology […]. “Mind” no longer “goes more ghostly than a ghost”» (McCulloch 1988, 38). La macchina astratta di William Ross Ashby, come ebbe modo di notare Mauro Nasti nella presentazione della traduzione italiana di Introduzione alla cibernetica, sconvolgeva «tutta un’impostazione filosofica tradizionale […] con cui si contrapponeva irriducibilmente il mondo “materiale”, fisico, delle macchine a quello “immateriale” e “libero” della mente» (Nasti 1970, xvii-xviii).
L’ultima conferenza di cibernetica (tenutasi nel 1953), lungi dal coincidere con il dissolvimento dello spirito cibernetico, sancì di fatto la sua diffusione pressoché illimitata. Non vi fu campo del sapere in cui le idee cibernetiche non penetrarono, a volte accolte con entusiasmo, altre con riserva, altre ancora apertamente criticate. Dalla filosofia (Ruyer 1954, Jonas 1953) all’economia (Lange 1963); dalla fisica (de Broglie 1951) all’ecologia (Odum 1963); dalla politologia (Deutsch 1963) alla biologia (Monod 1970, Atlan 1972); dalla cosmologia (Ducrocq 1964) alla gestione aziendale (Beer 1964); dalla letteratura (Calvino 1967) al diritto (Knapp 1963); dall’architettura (Alexander 1964) all’etologia (Hassenstein 1966). La cibernetica trasformò il linguaggio dei saperi in cui penetrò, contribuendo alla nascita di nuovi ambiti di ricerca.
Nel contesto delle scienze della cognizione, nel 1968 Marvin Minsky ratificava che la cibernetica si era differenziata in tre programmi di ricerca oramai pienamente autonomi: 1) la teoria dei sistemi auto-organizzati, basata sulla simulazione di processi evolutivi e adattativi; 2) la simulazione del comportamento umano tramite modelli computazionali; 3) l’Intelligenza Artificiale propriamente detta, cioè la progettazione di macchine intelligenti non finalizzata alla simulazione di processi biologici e cognitivi.
Se gli ultimi due programmi si concepivano come corpi maturi e completamente emancipati dal loro passato cibernetico, il primo programma non smise di rivendicarne le radici, che trovarono nel Biological Computer Laboratory dell’Università dell’Illinois, diretto da Heinz von Foerster, un terreno fecondo in cui attecchire. È in questo contesto che poté nascere un’epistemologia cibernetica – la cibernetica di second’ordine, o cibernetica dell’osservazione dei sistemi che osservano – che favorì l’emergere della teoria dei sistemi autopoietici (Maturana & Varela 1980), della neurofenomenologia (Varela, Thompson, Rosch 1991), della teoria generale della società (Luhmann 1984), dell’elaborazione delle logiche polivalenti e delle ontologie trans-classiche (Günther 1962), della pragmatica della comunicazione (Watzlawick, Bavelas, Jackson 1967), del costruttivismo radicale (Glasersfeld 1974), ecc.
Con la chiusura del Biological Computer Laboratory nel 1974, la cibernetica entrò in una fase diasporica, che dura tutt’oggi. Una diaspora che, a differenza della prolificità della prima disseminazione, ha assunto le forme di un graduale dissolvimento. La cibernetica appare oggi come un’entità fantasma infestante una moltitudine di discorsi, le cui tracce possono essere scorte un po’ ovunque, spesso e volentieri non riconosciute come tali.
Tuttavia, a dispetto – o forse in virtù – del suo carattere fantasmatico, l’ultimo ventennio ha visto intensificarsi un interesse storiografico per la cibernetica, con la produzione di lavori che hanno ricostruito la storia della cibernetica americana (Kline 2015), britannica (Husbands & Holland 2008), francese (Le Roux 2018), italiana (Cordeschi & Numerico 2013), sovietica (Gerovicht 2002) e cinese (Liu 2019).
Parallelamente al crescente interesse per la sua storia, si è intensificato anche quello per le sue implicazioni teoretiche e politiche – a testimonianza del fatto che non si è smesso di pensare col suo spettro. Un interesse che ha riguardato, tra le altre cose, il rapporto tra la cibernetica e l’ontologia (Pickering 2010), la metafisica(Hui 2019), la filosofia politica (Guilhot 2020; Bates 2020), l’ecologia filosofica (Hörl 2013), la teoria dei media (Hansen & Mitchell 2010), il post/trans-umanesimo (Malapi-Nelson 2017), la french theory (Lafontaine 2007; Geoghegan 2020), ecc.
È il carattere spettrale e disseminato della cibernetica – il suo insistere negli interstizi dell’enciclopedia – che ci spinge a dedicarle il numero #18 di Philosophy Kitchen. L’obiettivo è quello di cartografare i luoghi del sapere in cui possono ravvisarsi le tracce lasciate dalla cibernetica, seguirne le piste, ricostruirne le trame, farne emergere i modi d’essere, interrogarne l’eredità e l’attualità.
In special modo, le linee che vorremmo esplorare sono:
- Cibernetica nella storia delle idee e nella storia della scienza
- Storia della storiografia cibernetica
- Epistemologia e ontologia della cibernetica
- Teoria generale delle macchine
- Cibernetica e scienza dei sistemi complessi
- Cibernetica nelle scienze biologiche e sociali
- Cibernetica e scienza della cognizione
- Cibernetica nella filosofia contemporanea
- Cibernetica e governamentalità
- Cibernetica, teorie della pianificazione e del progetto
Procedura: si prega di inviare, all'indirizzo redazione@philosophykitchen.com, entro il 30 aprile 2022, un abstract di massimo 6000 caratteri, indicando il titolo della proposta, le modalità in cui si intende sviluppare il tema e l'argomentazione, una bibliografia essenziale e ragionata nonché una breve biografia dell’autore o dell’autrice. Le proposte verranno valutate dai curatori e dalla redazione. Gli esiti della selezione verranno resi noti, via mail, entro il 7 maggio 2022. I contributi selezionati dovranno poi essere inviati entro il 31 ottobre 2022 e saranno sottoposti a double-blind peer review. La pubblicazione del volume è prevista per marzo 2023.
Il numero 383 di aut aut, Niklas Luhmann. Istruzioni per l'uso, apparso questo settembre e curato da Giovanni Leghissa, esce a distanza di un ventennio dalla morte del sociologo di Lunemburgo; un numero che, come recita il titolo, ambisce a fornire le “istruzioni per l’uso” per chi voglia addentrarsi nel corpus di un autore oramai ai margini di qualsiasi dibattito, estraneo a qualsivoglia wave attualmente in voga e vivo solo dentro gli angusti confini di un risicato manipolo di ricercatori che, a discapito di tutto, prosegue il suo lavoro. L’obiettivo del volume è chiarito nella premessa: «non si è voluto tentare un’operazione monumentalizzante-storicizzante – del tipo: ciò che è vivo e ciò che è morto della teoria di Luhmann. Più modestamente, si sono volute indicare alcune piste di ricerca che mostrino a cosa può servire, oggi, la teoria dei sistemi se usata in un certo modo» (pp. 3-4). Cosa farsene di Luhmann? A cosa (e a chi) potrebbe servire? Perché dovrebbe valere la pena sottoporsi a un vero e proprio tour de force per addentrarsi in un edificio teorico ostico, totalmente arroccato su se stesso e per giunta poggiante su fondamenta instabili, sui cirri del paradosso e sui nembi dell’autoreferenza? Come scrive Andronico nel suo contributo, «leggere Luhmann non è facile, si sa, e per molti è persino noioso. Ma è necessario. Oggi più che mai, verrebbe da dire» (p.111).
A rendere poco agevole la lettura di Luhmann, oltre a una scrittura contratta che richiede di essere districata pazientemente, è l’assenza di punti fissi all’interno della sua teoria dei sistemi: con facilità ci si perde nei suoi meandri e non di rado si è soggetti a spaesamento e vertigine. Si prenda, come esempio, la distinzione tra sistema e ambiente, chiave di volta del suo edificio. I due termini, lungi dal rimandare a referenti stabili, assumono un valore meramente posizionale e funzionale: il sistema S1 è nettamente distinto dal suo ambiente (tutto ciò che non è S1); al contempo, nell’ambiente è possibile selezionare altri sistemi S2, S3,…, Sn, rispetto ai quali S1 costituirà parte dell’ambiente. La distinzione tra sistema e ambiente è dunque in funzione della peculiare selezione operata da un osservatore che circoscrive un sistema intorno al quale permarrà un non-circoscritto (l’ambiente) che costituisce il residuo di un’operazione di selezione, ciò che non è stato (ancora) selezionato.
Un secondo motivo di inciampo risiede nel carattere ricorsivo della teoria dei sistemi: la distinzione tra sistema e ambiente può applicarsi al sistema stesso, nel quale può essere distinto uno spazio circoscritto da uno non-circoscritto. Come per il triangolo di Sierpiński, che può essere diviso in quattro triangoli ognuno dei quali può essere diviso in quattro triangoli e così all’infinito, la teoria dei sistemi produce un frattale in cui una stessa operazione si ripete su di un’infinità di livelli. Ma ogni distinzione prodotta sarà posizionale e funzionale, e in tal modo il sopra e il sotto, l’inizio e la fine, il dentro e il fuori, il centro e la periferia, ecc., non rimanderanno a referenti fissi, ma a una precisa e contingenziale operazione di osservazione.
Come se non bastasse, allo spaesamento va aggiunta una sensazione di claustrofobia, perché se è vero che entrare nella “fortezza” di Luhmann non è facile, ancora meno facile è uscirne una volta dentro. L’auto-referenza che caratterizza la teoria dei sistemi istituisce uno spazio paradossale che ricorda alcune litografie di Escher, come Cascata o Salita e discesa: più si sale e più ci si ritrova in basso, più ci si approssima alla fine e più ci si ritrova in prossimità dell’inizio. In tal modo, più tentiamo di avvicinarci al fuori di quest’inland empire e più ci scopriamo vicini al suo cuore pulsante.
Detto ciò, diventa lecito chiedersi perché mai la teoria dei sistemi dovrebbe essere, oggi più che mai, necessaria. Cosa farsene di una mappa della società così complessa da richiedere di essere mappata da altre mappe? In che maniera la teoria dei sistemi può aiutare a orientarsi nel presente se essa stessa, al suo interno, non garantisce punti di orientamento stabili? Leggendo Luhmann si può provare uno sconforto simile a quello suscitato dalla scena di Stanlio e Ollio nel labirinto, quando Stanlio si imbatte nel cartello segnaletico che indirizza verso l’uscita e ha la bella idea di sradicarlo dal suolo e di muoversi nel labirinto portandoselo appresso: come ritrovare l’uscita se ogni punto di riferimento è andato perduto?
Date queste premesse, il numero di aut-aut non può che presentarsi come una vera e propria sfida: si tratta di rimettere in circolo la teoria dei sistemi e di testare la sua portata rispetto a questioni percepite dagli autori come urgenze (teoriche, politiche ed etiche). Il numero si compone di nove contributi, tra cui la prima traduzione italiana dell’articolo di Luhmann dal titolo Deconstruction as Second-Order Observing (1993), nel quale l’autore mostra le affinità tra l’operazione decostruttiva derridiana e la funzione svolta nella teoria dei sistemi dall’osservazione di second’ordine. Gli altri contributi vertono su: la relazione tra senso e paradosso nella teoria dei sistemi (Alberto Giustiniano) e la messa a fuoco di tale relazione nella produzione poetica (Cary Wolfe); la possibilità di utilizzare la teoria dei sistemi come cornice operativa per una teoria post-umanista della società (Maria Cristina Iuli); la funzione attribuita da Luhmann ai diritti umani e il loro rapporto con la modernità (Edoardo Greblo); le implicazioni politiche della teoria dei sistemi, in special modo rispetto al codice del potere e alla produzione di legittimità (Alberto Andronico); la tensione tra sguardo assoluto e sguardo situato condotta mettendo in risonanza Luhmann con Cusano (Gianluca Cuozzo); la ridefinizione (o meglio, la ricollocazione) del soggetto trascendentale alla luce della teoria dei sistemi (Giovanni Leghissa).
Non potendo, per ragioni di spazio, rendere conto di ogni singolo contributo, ci limiteremo a rapide incursioni con l’obiettivo di sondare alcuni dei tanti sentieri percorribili all’interno del volume. Ci concentreremo essenzialmente sulle implicazioni epistemologiche della teoria dei sistemi messe in luce in alcuni dei contributi, che ci sembrano costituire il nocciolo duro del volume, e proveremo a ricavarne alcune implicazioni etico/politiche.
Prima di iniziare la nostra ricognizione potrebbe essere opportuno fornire un quadro di alcuni postulati fondamentali della teoria dei sistemi, enucleati da Cary Wolfe nella maniera seguente (pp. 52-53): (1) la sostituzione delle dicotomie ontologiche proprie dell’umanesimo (natura/cultura, spirito/materia, mente/corpo, ecc.), le quali rimandano a referenti fissi, con la distinzione funzionale tra sistema e ambiente, i cui referenti sono instabili e contingenti; (2) l’asimmetria tra sistema e ambiente in termini di complessità, data dal fatto che qualsiasi sistema opera in un ambiente che gli è infinitamente più complesso; (3) la conseguente mancanza di varietà necessaria da parte del sistema per potersi rappresentare il mondo punto per punto, che lo costringe a filtrare la complessità dell’ambiente attraverso i propri codici autoreferenziali, cioè tramite operazioni di riduzione selettiva; (4) la coincidenza tra la riduzione della complessità esterna e l’aumento della complessità interna; in altri termini, la riduzione, per opera dell’autoreferenza del codice sistemico, della complessità ambientale è in grado di aumentare la varietà delle irritazioni tollerate dal sistema, dunque di renderlo maggiormente robusto rispetto a perturbazioni ambientali inedite.
Con questo bagaglio di assunzioni possiamo iniziare a tracciare un sentiero attraverso il volume.Pocanzi abbiamo accennato alla topologia paradossale cui i concetti chiave della teoria dei sistemi rimandano, ed è proprio dal paradosso che vogliamo cominciare. Per Luhmann si ha un paradosso quando un’osservazione si rivolge a se stessa. Un sistema che osserva, come abbiamo già accennato, circoscrive uno spazio di osservazione (chiamiamolo A) che in tal modo sarà distinto da uno spazio non-osservato (chiamiamolo non-A). L’osservatore può continuare a operare o sullo spazio di osservazione (applicando ricorsivamente la stessa distinzione) o sullo spazio non ancora osservato (inaugurando una distinzione inedita, dunque circoscrivendo un nuovo spazio di osservazione), ma non potrà operare sui due spazi contemporaneamente. Cosa accade nel momento in cui l’osservazione prova ad applicarsi a se stessa? Cosa succede, in altri termini, se l’osservatore cerca di osservare A e non-A nello stesso momento? Si genererà un cortocircuito paradossale, dato che l’osservatore applicherà la propria distinzione alla distinzione stessa, rendendo problematica un’allocazione di valori: la distinzione tra A e non-A è A o è non-A? Tale questione è per l’osservatore indecidibile: qualsiasi risposta dia i due valori saranno inclusi, in quanto la scelta di A implicherà non-A e la scelta di non-A implicherà A. A questo punto l’osservazione si blocca. Come si esce da questa impasse? Da una parte si può sbarrare completamente la via all’autoreferenza, dall’altra si può introdurre un’asimmetria – aggiungendo un livello di osservazione – capace di rendere l’autoreferenza non paradossale. Ma in questo secondo caso, come scrive Giustiniano nel suo contributo, il paradosso non diventa «un’eventualità da evitare ma indica un salto di livello, l’aggiunta di un osservatore che sarà in grado di osservare la distinzione, la ‘macchia cieca’ dell’osservatore sottostante e che a sua volta potrà essere osservato in quanto operazione a un altro livello» (p. 52).
Delineare il profilo dell’osservatore di second’ordine è forse il centro focale del presente numero di aut-aut. L’osservatore potrebbe essere definito, in maniera minimale, come qualunque sistema (umano, animale, macchinico, sociale) in grado di ridurre l’incertezza del suo ambiente tramite operazioni di selezione e di distinzione. Ogni osservatore può vedere solo ciò che le sue distinzioni gli permettono di vedere. Riprendendo un’espressione di Heinz von Foerster, un osservatore «non vede che non si vede ciò che non si vede» (cit. da Giustiniano, p. 53). In ogni osservazione vi è un punto cieco, che è dato dal non poter vedere, nello stesso momento, ciò che cade dentro e ciò che cade fuori il proprio spazio di osservazione. Il paradosso che risulta dal provarci può essere svolto solo da un osservatore di second’ordine, il quale osserva l’osservatore di prim’ordine (e le operazioni da questi compiute). Tuttavia, lo stesso osservatore di second’ordine non può vedere contemporaneamente i due lati della distinzione che la sua osservazione produce, i quali potranno essere visti solo da un altro osservatore, e così via all’infinito. Per quanto si moltiplichino gli “ordini di osservazione”, non si perverrà mai a una osservazione senza una propria macchia cieca, cioè a un’osservazione in grado di essere fondamento stabile per ogni altra osservazione. È su questa base che Leghissa, nel suo contributo, ricolloca nel mondo il soggetto trascendentale husserliano trasformandolo in un osservatore di second’ordine; ed è sulla stessa base che Cuozzo, mettendo in risonanza Luhmann con Cusano (l’unico riferimento filosofico costante del sociologo), mostra le implicazioni dell’incolmabile asimmetria tra l’absoluta visio di Dio – che può cogliere la verità semplice – e la parzialità, dovuta all’isolamento prospettico, di ogni conoscenza umana. Riprendendo un’efficace immagine di Cusano, quella del poligono tracciato nel circolo (dove il circolo è simbolo della conoscenza divina e il pentagono della conoscenza umana), Cuozzo mostra come tanto per Cusano quanto per Luhmann la possibilità di osservare tutte le osservazioni (quindi la capacità di vedere la propria macchia cieca) pertiene alla sfera teologica: ogni angolo del poligono è un punto di vista sull’assoluto, ma per quanto i punti di vista vengano moltiplicati all’infinito essi non potranno mai essere trasformati in absoluta visio, il poligono non potrà mai diventare circolo.
La teoria dei sistemi, dunque, conduce all’idea che il fondamento del sapere si trovi disperso in una molteplicità di osservatori, i quali possono vedere ciò che gli altri non vedono e possono essere visti da altri osservatori in ciò che essi non vedono. La conseguenza principale è che tutte le descrizioni del mondo diventano contingenti, in quanto qualsiasi descrizione prodotta da un osservatore potrà essere revocata da un altro osservatore. Per tale ragione Luhmann considera isomorfe l’osservazione di second’ordine e l’operazione di decostruzione. All’origine vi è una differenza: l’osservatore risulta da una differenza (quella tra sistema e ambiente) e produce differenze (le varie distinzioni che costruirà a partire da un unmarked space). Ma qualsiasi distinzione prodotta da qualsivoglia sistema che osserva (e ogni sistema in grado di operare una distinzione è, per Luhmann, un sistema che osserva) potrà essere revocata (cioè decostruita) da un altro sistema che osserva, il quale può essere in grado di vedere i due lati della distinzione prodotta dal primo sistema: in tal modo esso potrà scegliere di accettarla o dismetterla (in questo caso Luhmann fa riferimento alleoperazioni transgiuntive di Gotthard Günther, vedi p. 17) ; non potrà però esimersi dal produrre ulteriori distinzioni (come osservatore non può far altro), le quali potranno essere accettate o dismesse da altri osservatori.
Questa rete di osservatori non produce gerarchie lineari e fisse ma eterarchie o “gerarchie ingarbugliate” (si veda il contributo di Andronico, pp. 124-126). Sebbene le espressioni “osservatore di prim’ordine” e “osservatore di second’ordine” rimandino a un’asimmetria di livelli, la distinzione tra un primo e un secondo ordine è sempre posizionale e funzionale, rimanda a un ruolo che è possibile occupare solo in maniera transitoria. Può infatti darsi il caso che l’osservatore A sia di second’ordine rispetto all’osservatore B, che l’osservatore B sia di second’ordine rispetto all’osservatore C, e che l’osservatore C sia di second’ordine rispetto all’osservatore A. Nessuno dei tre osservatori potrebbe occupare la cima di una scala gerarchica.
A questo numero di aut-aut bisogna dare il merito di mettere a fuoco tali questioni (non è cosa da poco, specie in una stagione filosofica segnata dalle waves realiste, nella quale prendere sul serio il più radicale tra tutti i costruttivisti radicali espone al rischio di attirare su di sé risate di scherno). La teoria dei sistemi ci costringe a pensarci come sistemi che osservano tra sistemi che osservano, ognuno dei quali ha uno spettro di osservazione limitato e può operare su una ristretta porzione di mondo. Sul piano sociale essa ci invita a intendere la società, venuta a profilarsi con la modernità, come una rete eterarchica, dove ogni organizzazione o sottosistema sociale, essendo operativamente chiuso, riproduce le sue operazioni in maniera autopoietica e autoreferenziale, istituendo partizioni d’ordine funzionali alla propria sopravvivenza. In quest’ottica nessun sistema sociale gode di un privilegio sugli altri: la società non si compone di un livello strutturale e di uno sovrastrutturale e in essa diventa impossibile ravvisare un unico centro di integrazione tra sottosistemi.
Ciò, da una parte, può gettarci nello sconforto, producendo un senso di impotenza e schiacciamento rispetto a sistemi sociali che, portando avanti la loro autopoiesi, fanno il loro corso indifferenti alla volontà degli individui: dinnanzi alle crisi che il presente ci pone (in primis la crisi ecologica) l’individuo non può che sentirsi impotente e per giunta sbigottito dal fatto che chi dovrebbe occuparsene non se ne occupa, provando l’amara sensazione, sempre tanto lesiva del nostro narcisismo, di non avere il controllo su niente. D’altronde, chi dovrebbe occuparsene? Quale sottosistema sociale dovrebbe farsi carico della crisi ecologica? Il sistema politico, naturalmente. Ma il sistema politico, che per Luhmann è un sottosistema sociale tra tanti e non gode di nessun privilegio, ha i suoi problemi, dati dall’esigenza di riprodurre le proprie operazioni specifiche, e la crisi ecologica solo adesso si affaccia in maniera seria nella sua agenda. In ogni caso, il sistema politico, pur auspicando al suo interno una green turn, non potrebbe imporre le sue operazioni agli altri sistemi sociali, potrebbe solamente “irritarli”: ma il modo in cui qualsiasi sistema sociale reagisce a un’irritazione ambientale non può essere previsto e dunque controllato.
Dall’altra parte, l’individuo alle prese con la tossicità del contesto in cui vive, potrebbe volgere in positivo questa impossibilità di controllare le cose e di poterle rivoluzionare. Accettare che non esiste un osservatore in grado di esercitare un controllo assoluto, dischiude un vero e proprio spazio etico. Si potrebbe allora imparare dalle strategie adottate da chi vuole assolutamente liberarsi dalla tossicità vissuta sulla propria pelle per continuare a vivere (la pletora degli addicted di ogni tipo – rispetto a questo tema, non si smetterà mai di imparare dallo scritto di Gregory Bateson La cibernetica dell’“io”: per una teoria dell’alcolismo). Non ci possiamo liberare da una dipendenza senza prendere coscienza che la “sostanza” di cui siamo dipendenti è più forte di noi. In tal senso l’auto-controllo serve a poco (in quale sottosistema di quel sistema che chiamiamo “persona” risiederebbe il centro di controllo?). Accettare di non avere il controllo assoluto, che il corso delle cose non dipende da noi, può permettere di spostare l’attenzione su ciò che veramente possiamo fare, qui e ora, nei nostri angusti limiti. La teoria dei sistemi invita a questo, e in essa ci sembra riecheggiare la Preghiera della Felicità che i membri degli Alcolisti Anonimi recitano quotidianamente: “Mio dio, concedici la serenità per poter accettare le cose che non possiamo cambiare, il coraggio di cambiare le cose che possiamo cambiare, e la saggezza per riconoscere la differenza”.
L'obiettivo principale di questa rubrica, in quanto rubrica, è quello di compiacere e sollazzare il lettore, conducendolo astutamente e subdolamente all'assuefazione.
A parte questo tratto che essa condivide con la grandissima parte della scrittura su internet, tuttavia, bisogna avvertire che questa subdola rubrica ha anche un altro obiettivo che (vedi sopra) verrà enunciato alla fine di questo primo articolo.
Quanto al tema della rubrica, anche se è legittimo aspettarsi una certa varietà, essa tratterà di filosofia e di altre cose, e specificatamente della relazione fra la filosofia e le altre cose. Benché questo punto di partenza possa sembrare non solo banale, ma tale da ridefinire il concetto di banalità, a guardarlo più da vicino esso è spaventosamente ambizioso. Come articolare la relazione fra la filosofia e il suo altro senza disporre di una preliminare definizione di filosofia, e in particolare una capace di distinguere la filosofia dal suo “altro”? Osserviamo che ciò che dovremmo risolvere “in via preliminare” è nientedimeno che la questione del “che cos'è la filosofia”, questione quantomai aperta, e che nessun filosofo serio si azzarderebbe a chiudere, non senza consapevolezza di scommettere su una tale mossa il destino del proprio pensiero e della propria carriera.
Non c'è in questo nulla di male: il gesto con il quale le scienze si separano dalla filosofia, d'altra parte, è in genere anche il medesimo gesto con il quale esse si danno un metodo, una serie di procedure, un oggetto, un obiettivo condiviso. La filosofia, in quanto “resto”, resta polisemica, polimorfa e polemica. Tanto più difficile resta il lavoro di stabilire il suo “altro”. Non semplifica le cose il fatto che, molto probabilmente, a guardarlo abbastanza da vicino questo altro diverrà a sua volta l'occasione per fare della filosofia.
In questo spazio collaterale, abbastanza vicini al corpo della rivista Philosophy Kitchen da assorbirne in parte l'originalità e il percorso teoretico, abbastanza lontano da schivarne l'inevitabile serietà e i problemi metodologici connessi, vorremmo contribuire allo sforzo di esplorazione dello spazio tormentato della filosofia contemporanea a partire da due assunti:
La filosofia non può rendersi autonoma (da nulla)
Questa prima interdizione torna a esprimere una verità banale, che proprio per la sua banalità risulta raramente tematizzata dalla riflessione filosofica. L'unico modo di farla valere infatti, è rifiutarsi di rispondere alla domanda: “a cosa serve la filosofia? Qual è il suo compito specifico?” A tali domande non si può che rispondere evasivamente (i migliori esempi di letteratura filosofica che si incaricano di rispondere a tali domande sono infatti esempi altissimi di letteratura “d'evasione”). Bisogna tuttavia motivare tale rifiuto, che pare a tutta prima molto poco filosofico, e specificatamente in contrasto con la necessità filosofica di rendere conto dello scopo e della significatività del proprio pensiero. Proponiamo in questa sede due spunti per la futura elaborazione di una tale mossa. In primo luogo il fatto che la filosofia si costituisce come residuo di una serie di “separazioni” o “scissioni” che fondano le scienze particolari, scissioni effettuate proprio a partire da una specificazione preliminare di un campo oggettuale, un metodo, una serie di procedure e assunti teorici (la cui modificabilità e discutibilità nulla toglie alla necessità che essi esistano in forma esplicita perché una scienza possa dirsi tale). In secondo luogo, e forse più importante, il fatto che la filosofia non può che esercitarsi a partire da particolari fratture epistemiche. Adattando il vecchio adagio aristotelico secondo il quale si comincia a filosofare dalla meraviglia, occorre dire che si comincia a filosofare intorno a quelle aporie capaci di mobilitare il pensiero altrimenti fermo. Né è in alcun modo prevedibile da che lato lo stupore ci costringerà a uscire dalla stupidità. Il filosofo non può – in buona fede – figurarsi di avere un “campo” o un “ambito” specifico, proprio perché a lui spetta (e nel corso delle varie scissioni tale onere non è ancora stato reclamato da nessuno, restando perciò squisitamente filosofico) intervenire laddove la definizione degli ambiti si rende imprecisa, laddove esiste un problema in forma di enigma, che non si lascia esaurire all'interno di un singolo campo e quindi ci obbliga a rimettere in discussione – una discussione razionale – l'articolazione e il diritto di ciascuna delle razionalità specifiche che il nostro problema travaglia e destabilizza.
La filosofia non può bastare a se stessa
La seconda interdizione deve valere, più che da condizione fondamentale relativa alla possibilità della filosofia in generale, allo spirito con il quale affrontare lo sforzo filosofico. Non sarebbe scorretto dire che non c'è nulla nella filosofia che le imponga di assumere come compito la trasformazione del reale, e sarebbe invece piuttosto corretto affermare che resta a tutt'oggi un’illusione mitica, anche piuttosto datata, l'idea che la razionalità agisca direttamente come forza trasformativa delle nostre forme di vita concrete. I problemi di cui la filosofia si occupa non hanno la forma dell'errore, ma quello dell'aporia, e proprio per questo non si è affatto sicuri di ricavare dall'analisi un qualche strumento che consenta di trasformare la realtà problematica, né tanto meno di “risolvere” con mezzi esclusivamente teorici il problema. Un po' per la frustrazione che questo stato di cose induce nei filosofi, un po' per la nostra giovanile esuberanza, tuttavia, ci sentiamo di sfidare questo stato di cose, e precisamente a partire dalla continuità che abbiamo già rimarcato, la caratteristica di quella superficie membranosa che oppone e mette in contatto il pensiero filosofico e il suo oggetto – che forse sarebbe meglio chiamare tema, per non riproporre una vecchia dicotomia che ci resta, almeno nelle fasi preliminari, d'intralcio. Il modo di questa operazione non può che riportarci al concetto di “teoria”.
La teoria, secondo uno dei suoi utilizzi più antichi e universalmente riconosciuti, raddoppia la prassi, vale a dire opera razionalizzando ciò che la precede – ciò che ci porta a dire che essa è sempre “in ritardo” sulla realtà, occupata a spiegare come e perché facciamo cose (parlare, pensare, vedere, amare, vivere) che in realtà facevamo anche prima che la filosofia cominciasse a spiegarcele. Che ce ne facciamo, dunque, delle spiegazioni della filosofia? Esse sono necessarie? Utili? La risposta è duplice: da un lato come abbiamo detto, la filosofia inizia proprio laddove si possa ritrovare, profondamente imbricata nelle forme dell'attività umana, una struttura aporetica. Il fatto che si parla, si muore, si pensa e si conosce da migliaia di anni non può metterci al sicuro dal fatto che una o più di queste attività potrebbero divenire problematiche da un momento all'altro, ed anzi nel momento in cui se ne fa filosofia – o almeno, se ne fa significativamente filosofia – esse sono già divenute problematiche (e quindi si trasformeranno, filosofia o no). Dall'altro lato, nella reduplicazione teorica della prassi, ciò che era dato “per scontato” e non si manifestava che nell'uniformità di un comportamento appreso e successivamente riprodotto (secondo lo schema dell'habitus) entra in una struttura differenziale, in un calcolo razionale destinato ad enunciarne il senso. La comprensione si determina dunque come opposizione, confronto, correlazione capace di rendere conto del reale a partire dal trascendentale, con l'effetto secondario tutt'altro che trascurabile dell'aprire, attraverso la discussione filosofica del reale, la possibilità di una seconda “messa in discussione”, appartenente a linguaggi diversi da quello filosofico, che si specifica nell'assunzione di responsabilità nei confronti del reale, che dovrà ormai fare i conti con la virtualità dei “possibili” che gli si oppongono.
A partire da queste interdizioni, alle quali affidiamo il compito di delimitare lo spettro delle nostre possibilità filosofiche e la portata dell'intenzione che ci muove, possiamo infine dichiarare l'argomento di Take Away, vale a dire la messe di realtà contraddittorie ed irriflesse che si muovono al di fuori della corrente pratica filosofica, fuori dalle aule universitarie e altre sedi istituzionali, e per i più svariati motivi risultano invisibili o insignificanti a chi si interessa perlopiù di forme già raffinate di teoria. Intendiamo andare di volta in volta a caccia di realtà concrete o virtuali, di particolari trascurabili o di assi portanti, praticando una forma nobile di bracconaggio che conduca, nella migliore delle ipotesi, a un arricchimento dello strumentario filosofico e a una ulteriore dimostrazione dell'irrinunciabile ruolo della riflessione, anche in una società segmentata e postindustriale, convinta come quella che ci circonda di poter fare a meno della consapevolezza dei suoi meccanismi fondamentali. Nella peggiore delle ipotesi, come spesso accade, arriveremo in ritardo, consegnando tuttavia alla memoria la traccia irrisolta delle nostre migliori aspirazioni.
Nota di stile: operazioni del genere possono valersi profittevolmente della forma del “metalogo” batesoniano, che è di per sé una forma di dialogo filosofico, oltre che di quella del micro-saggio. Non essendo propriamente materiale di “alta cucina” filosofica, quanto trattazione e ricerca di filosofemi impliciti (secondo la lezione gramsciana), take away si presenta come rubrica parafilosofica, con la speranza di essere stimolo, contorno e contrappunto della più seria attività teoretica della rivista.