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Da qualche tempo alcuni autori italiani attivi nel campo disciplinare della filosofia stanno conoscendo una notevole fortuna all’estero, in special modo nell’area anglosassone. Si è così potuto parlare, addirittura, di una Italian Theory, da affiancare alla French Theory quale risorsa da mobilitare in vista della costruzione di un discorso critico sul presente. Per contro, risulta del tutto caduta nell’oblio, sia in patria che all’estero, una tradizione di pensiero legata al liberalismo la quale, in maniera forse ancor più marcata rispetto all’Italian Theory, ha sempre posto al centro del proprio discorso la necessità di riflettere sul senso della vita associata, sui fondamenti del buon governo, sulla legittimità del potere, sul nesso che lega libertà e giustizia, su ciò che funge da presupposto alla realizzazione di una vita democratica pienamente intesa.
In generale, si potrebbe dire che sin dalle proprie origini il discorso filosofico in Italia - potremmo, volendo, far cominciare questa storia con il De monarchia dantesco - ha legato le proprie sorti a una riflessione sul politico, e quasi sempre ciò è avvenuto a partire dalla necessità di indagare problemi concreti, strettamente intrecciati alla vita civile e politica della penisola o dei singoli stati che ne costellavano il territorio. Tuttavia, qui si vorrebbe porre l’accento su una peculiare linea di pensiero che, partendo dall’Ottocento, giunge sino alla prima metà del Novecento per poi in qualche modo insabbiarsi, lasciando il campo a dibattiti di tutt’altro genere, che sembrano non poter (o non voler) nemmeno comunicare con essa. Insomma, si tratta di una tradizione che pare non abbia lasciato eredi. I nomi di riferimento potrebbero essere i seguenti: Melchiorre Gioia, Gian Domenico Romagnosi, Carlo Cattaneo, Pietro Gobetti, i fratelli Rosselli, Gaetano Salvemini, Luigi Einaudi, Emilio Lussu, Ernesto Rossi, Bruno Leoni, Guido Calogero, arrivando fino a Norberto Bobbio. Dai nomi appena evocati, risulta chiaro che parlare qui di “tradizione” forse può apparire come una forzatura sul piano storiografico. Di fatto, però, è innegabile come sia riscontrabile la presenza di un legame che permette di accostare tra loro questi autori e di nominarli assieme - fino a formare una sorta di sequenza ideale. Qui di seguito, proviamo a formulare ciò che potrebbe costituire un provvisorio elenco degli elementi portanti del complesso di idee che li accomuna.
Impegno teorico a favore di una “civile filosofia” (l’espressione è del Romagnosi) che sappia interagire con i problemi concreti posti dall’arte di governo. Necessità di partire da un’antropologia di tipo realistico, svincolata dall’eccessivo ottimismo di matrice illuminista, ma nel contempo erede di esso. Tutto ciò vuol dire sia fiducia nell’educabilità degli umani, che si spera possano diventare cittadini responsabili e partecipi, sia consapevolezza del peso che hanno i pregiudizi, l’ignoranza, le conseguenze del malgoverno, assieme a quelle forme di propaganda che diffondono atteggiamenti e concezioni populiste, reazionarie, antidemocratiche. A questo aspetto si collega il tratto che forse davvero accomuna tutti gli autori sopra menzionati: la volontà, cioè, di articolare un discorso teorico mai astratto, mai votato all’edificazione di sistemi di pensiero, ma sempre aderente alla contingenza della fase storica in cui si trova a operare il soggetto chiamato a dar conto degli effetti che la propria teoria può eventualmente produrre. Ed è, questo tratto, ciò che nel contempo permette di convocare sulla scena il termine liberalismo. Si tratta di un liberalismo che potremmo definire “eretico”, se si considera il fatto che esso ha potuto, a un certo punto, dar vita a quello strano ossimoro che è il “liberalsocialismo”; ma è liberalismo autentico in virtù dell’insistenza sulla libertà individuale quale valore fondante della vita associata, una libertà che si riconosce indissolubile dalla giustizia e dalla necessità di porre al centro sia dell’agenda politica, sia dell’agenda teorica che su quella riflette, il problema dell’ineguaglianza sociale e della disparità nell’accesso alle risorse.
In relazione a tale peculiarità della tradizione liberale italiana che vorremmo individuare - e, forse, contribuire a “costruire” più che ricostruire storiograficamente, in un modo che non intende essere troppo artificioso - resta infine da chiedersi in che misura il pensiero di questi autori può essere considerato attuale. Certo, a prima vista questa sembra una domanda del tutto illegittima: legato alla contingenza di lotte politiche che non sono più le nostre, il pensiero degli autori sopra menzionati sembra offrirsi al nostro sguardo solo più come oggetto di studio rilevante in sede di storia della filosofia – o di storia del pensiero politico. Tuttavia, se consideriamo il dibattito filosofico contemporaneo, il quale sembra oscillare da un lato in direzione di questioni rilevanti solo sul piano gnoseologico e ontologico, dall’altro in direzione di una mescolanza di temi foucaultiani e temi di ascendenza marxista al fine di produrre un discorso critico la cui radicalità, a volte, è però solo retorica ed è inficiata da una notevole mancanza di rigore teoretico, ecco che dalla tradizione del liberalismo italiano ricaviamo forse delle lezioni ancora utili per definire la cornice critica entro la quale ripensare gli snodi problematici del presente.
A cura di Giovanni Leghissa e Alberto Giustiniano
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DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/8.2018
Pubblicato: marzo 2018
Indice
Editoriale
G. Leghissa, A. Giustiniano - Introduzione [PDF It]
I. La via italiana al liberalismo
S. Veca - Sul liberalismo politico e la giustizia come equità [PDF It]
P. P. Portinaro - Italian Style. La cifra del realismo politico [PDF It]
II. Storia della rivoluzione liberale
M. Lasala - Nel nome della rivoluzione liberale. Da Gobetti a Bobbio [PDF It]
M. Ferrari - Etica, politica, socialismo. Un capitolo del caso italiano [PDF It]
R. Cubeddu - I liberisti della cultura politica italiana [PDF It]
III. Liberali ed eretici
G. Panizza - Giuseppe Ferrari. Un pensatore eterodosso del nostro risorgimento [PDF It]
A. Zarlenga - Ernesto Buonaiuti tra liberalismo modernista e socialismo cristiano [PDF It]
G. Becchio - Luigi Einaudi. Un economista e un liberale a Torino [PDF It]
G. Giorgini - Nicola Matteucci. Un liberale eretico [PDF It]
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Nell’introduzione dei due curatori del numero, Simone Guidi e Alberto Romele, l’infosfera viene presentata come un fatto totale, non soltanto sociale (secondo la nota locuzione di Marcel Mauss, poi ripresa in ambito strutturalista), ma anche etico, antropologico e filosofico. Il modo in cui viene usato il termine “infosfera” e altre parole chiave (come onlife e third order technologies) richiamano il punto di vista di Luciano Floridi sulla quarta rivoluzione in corso nelle società ad informazione matura (Floridi, 2014), ma la prospettiva proposta nella rivista e riassunta dal titolo è diversa: assumendo che gli esseri umani abbiano iniziato ad estendere il proprio dominio sulla natura da quando sono diventati capaci di registrare e leggere tracce, la discontinuità contemporanea viene ricondotta all’invenzione di macchine diverse da quelle classiche e all’emergenza di ambienti automatici in grado di scrivere e leggere tracce autonomamente (pp. 10-11). Questo è il fatto totale che spinge a riconsiderare complessivamente le possibilità dell’essere umano, circondato di dispositivi di cui può disporre e che, al tempo stesso, sembrano poter disporre di lui in modi sempre più pervasivi e per vie complesse da “tracciare”.
Saltando dall’introduzione al contributo conclusivo – un’intervista di Alberto Romele a Luciano Floridi – notiamo peraltro che il secondo non condivide l’utilizzo del concetto di “traccia” e mette in guardia in primis dal suo portato metaforico: «Questa delle tracce e del “materiale esausto”, i residui di ciò che “esce dal tubo di scappamento” sono metafore che a me non piacciono molto. Dal punto di vista retorico sono accattivanti ma dal punto di vista filosofico le trovo preoccupanti» (p. 169); «Certo c’è anche una seconda maniera di pensare alle tracce come alle impronte lasciate sulla strada durante un viaggio. Questo utilizzo lo trovo vagamente preferibile ma anch’esso ha le sue trappole […]. Ci porta infatti a distinguere tra tracciante e tracciato, come se si stesse parlando delle tracce che un animale ha lasciato nel bosco» (pp. 169-170). Più in generale, Floridi sottolinea che lo spazio non euclideo di Internet non va interpretato come uno spazio geografico, ma come uno spazio logico in cui, tra l’altro, ciò che accade dove arriva l’infrastruttura tecnologica alla base della rete influenza pervasivamente anche ciò che accade dove l’infrastruttura non arriva: questo vale in particolare nelle società «in cui la rete Internet è un servizio come la rete idrica ed elettrica» (p. 173), ossia nelle mature information societies a cui si è fatto riferimento.
Riguardo al tema della traccia, i contributi della rivista che lo affrontano in modo esplicito e prioritario spaziano dal soffermarsi su questioni molto specifiche all’analisi teorica generale: del primo caso è esemplare il contributo di Enrico Terrone (Causal Routes to Nowhere. On Digital Photographs as Traces, pp. 61-72), che discutendo la distinzione tra simboli autografici e allografici di Nelson Goodman illustra come le fotografie digitali possano essere considerate tracce; del secondo tipo di analisi è esemplare il contributo di Bruno Bachimont (Traces, Calculation and Interpretation. From the Measure to Data, pp. 13-36), che affronta il problema contemporaneo della raccolta, del trattamento e della visualizzazione dei dati, dopo avere discusso la complessa relazione tra dati e tracce (che non sono la stessa cosa, p. 20), distinte in tipi (involontarie, volontarie, provocate): il nodo sta nel fatto che la gestione tradizionale dei segni – esemplificata dalla sintesi sinottica della scrittura – si accompagnava a forme di comprensione e interpretazione che oggi sembrano venir meno nella sintesi calcolante tecnologicamente assistita, che omogenizza grandi quantità di dati eterogenei e li elabora con procedure astratte. Da tali elaborazioni dovrebbero emergere informazioni significative per gli esseri umani (nonché per qualsiasi dispositivo connesso alla rete), ma a partire dalla distinzione tra modalità di sintesi (sinottica tradizionale e calcolante) emerge la questione dell’intelligibilità non scontata delle informazioni che nel secondo caso diventano visualizzabili.
Un’altra discontinuità è quella indagata da Marcello Vitali-Rosati (Digital Architectures: the Web, Editorialization, and Metaontology, pp. 95-112), che parte da un racconto di Paul Valéry sulle differenze tra scrittura e architettura (Eupalinos ou l’architecte) per sostenere che la scrittura alla base degli spazi digitali e il connesso processo di editorializzazione (éditorialisation) sono concepibili come azioni e progettazioni performative e architettoniche, in quanto il loro compito fondamentale non si traduce nella pretesa di rappresentare la realtà (ripercorrendo per così dire la trama di un’ontologia esterna alla scrittura), ma si realizza piuttosto come produzione di realtà su più livelli. I livelli di realtà prodotti, più specificamente, sono i molteplici piani dello spazio vivente digitale in cui si inseriscono le nostre possibilità di movimento e interazione: uno spazio e al tempo stesso una cultura digitale, in cui si entra trasformandosi come aderendo ad una religione (cfr. Doueihi, 2011, sulle digital cultures).
Il numero monografico della rivista dà conto di punti di vista differenti sui fenomeni osservabili nell’infosfera e sulle loro implicazioni per il futuro, dal breve al lungo termine. Quanto possano differenziarsi tali punti di vista lo si coglie confrontando con i contributi fin qui richiamati la conversazione tra Francesco Monico e Derrick De Kerckhove (Cybersorveglianza, guerra e religione, il mondo a una dimensione, pp. 159-168) e il contributo di Pierre Lévy (The Data-Centric Society, pp. 129-140). Nel confronto tra Monico e De Kerckhove ci si chiede a che punto siamo arrivati con la cybersorveglianza, tra Marcuse e Minority Report: mentre De Kerckhove richiama la tesi secondo cui Internet sta «diventando un Panopticon molto inquisivo e, peggio, un ‘non-opticon’, come lo chiama Siva Vaidhyanathan, sottolineando il fatto che, a differenza del prigioniero di Jeremy Bentham, il soggetto della rete non sa mai se è veramente spiato, né perché, né quando» (p. 162), Monico si riferisce ad un processo tecnocratico irrazionale e riprovevole, capace di sostenere nuove «antropotecniche basate su meri punta-e-clicca» in cui la cybersorveglianza potrà essere percepita (e perciò richiesta) anche come «vantaggio personale» (p. 167). La stessa domanda sugli usi delle tecnologie e delle macchine – con l’alternativa, se siamo ancora noi a usare le macchine o se le macchine usino noi – sembra saltare, nel momento in cui si sottolinea che le macchine sono già con noi e dentro di noi. Eppure resta uno spiraglio, nel passaggio dalle diagnosi sul presente alle prognosi sul futuro, per inattese prospettive di trasparenza che potrebbero riguardare sia noi, sia il Governo, sia «le istituzioni digitali che stanno cercando di irretirci» (p. 166). Come interpretare il seguente paragrafo di De Kerckhove? «La trasparenza va in entrambe le direzioni. Sì, siamo trasparenti, ma così è anche per il Governo, lo sono le istituzioni digitali che stanno cercando di irretirci; solo una volta che avremo firmato un contratto sociale di reciproca trasparenza, beni comuni e di mutuo rispetto arriveremo in una situazione sana, e risolveremo i veri problemi del pianeta» (p. 166). Quale Governo sarà davvero trasparente? Chi e come deciderà quali siano i veri problemi del pianeta da risolvere grazie alla trasparenza? Il futuro contratto sociale di reciproca trasparenza non sarà altrettanto mitico e fittizio di quello che taluni hanno immaginato all’origine della società? Domande come queste, peraltro, possono nascere e restare in sospeso quando la rivoluzione in corso viene proposta secondo le chiavi di lettura dell’apocalisse o della palingenesi sociale. Pierre Lévy introduce il lettore ad un paesaggio concettuale e metaforico ancora diverso. La società centrata sui dati (Data-Centric), infatti, viene declinata al futuro come una civiltà in cui gli esseri umani vivranno in una sorta di sensorium aumentato (augmented sensorium), che permetterà loro di modellare le soggettività grazie a software che li mettono in relazione con dati, algoritmi e social networks. Nel sensorium espanso dell’intelligenza algoritmica ipotizzato da Lévy sarà possibile ragionare ed agire su di sé attraverso avatars semantici (semantic avatars) o in uno «specchio universale (universal mirror) osservabile da chiunque» (p. 138), su cui gli attori sociali del futuro potranno proiettare ciò che vorranno della propria attività software. Il passaggio richiede l’elaborazione di nuovi diritti, tra cui quello di accesso alla rete. Ma non è soltanto questione di accesso alla rete: questo contributo più di altri mette in evidenza che le ICTs attese potranno dare (a noi e ad altri) una serie di inediti accessi a noi stessi.
Così, Cléo Collomb (Pour un concept technologique de trace numérique, pp. 37-60) sottolinea che le tracce digitali introducono ad «un nuovo paradigma che invita a ripensare l’umano» (p. 60) e la «composizione del nostro “noi”», accompagnandoci non alla fine del mondo, ma alla fine di una certa avventura antropologica, fondata sull’«eccezionalismo antropologico». La nuova sfida consiste nel comprendere cosa significhi avere a che fare con macchine computazioni che funzionano raccogliendo, elaborando e mettendo in circolazione – come noi, per noi, per alcuni anziché per altri ecc. – tracce digitali. Così, Simone Guidi e Alberto Romele (Deforming the Subject. Digital Traces and the Post- of Humanism, pp. 73-94) invitano a comprendere se stessi al di fuori di ogni «ontologia statica» (p. 93), suggerendo che il tema delle tracce digitali e delle tecnologie connesse svelano all’essere umano (nuovamente, si potrebbe dire, e tuttavia in un modo che appare rivoluzionario) la sua essenza mediologica (likewise-mediological essence, p. 93): assumere finalmente la propria etero-costituzione tecnologica, comprendendone l’inedita articolazione contemporanea, diventa in questa prospettiva il primo passo per poter rinegoziare le frontiere dei poteri bio-tecnologici (p. 94) senza presumere di attingere ad un’umanità sussistente in sé e per sé. Al contrario, le migliori possibilità di rinegoziazione di cui disponiamo non passano dall’appello ad una fantomatica umanità pura dalla tecnologia, ma dal riconoscimento della multistabilità tecnologica (technological multistability), che ci permette di sperimentare molteplici accoppiamenti strutturali con i dispositivi di cui disponiamo e che progettiamo.
Un’indicazione simile la si ritrova anche in Maurizio Ferraris (Dalla mobilitazione totale all’azione esemplare, pp. 141-158), quando scrive che «non c’è un in sé della natura umana, c’è un divenire storico, in cui la tecnica gioca un ruolo costitutivo: capiamo che cosa vogliamo e chi siamo dalle tecniche che adoperiamo» (p. 143). Non diversamente da quanto accaduto in altre epoche, secondo Ferraris Internet ci mostra (e conferma) che la nostra specie è incline alla mobilitazione e alla sottomissione e che proprio attraverso la mobilitazione accediamo alla socialità e alla razionalità. Più precisamente ancora, con la sua capacità di mobilitare la nostra intenzionalità (p. 146) – paragonabile a quella attribuita classicamente al Capitale – il Web ci palesa il nostro essere animali costitutivamente mobilitabili e mobilitati, sottomessi e documentalmente dipendenti. Se una volta ci si sottometteva agli dèi, ai sacerdoti oppure a pochi potenti, oggi ci si sottomette alle «imposizioni che ci vengono dal web», esemplificate dalla «coazione a rispondere» (p. 145). Per comprendere lo scenario attuale e per tracciare qualche via praticabile di emancipazione, secondo Ferraris dovremmo lasciar perdere concetti come “alienazione” e “sfruttamento”, in quanto rimandano a un’immagine idealizzata dell’essere umano e quindi ad un insieme di possibilità che non esistono; si tratta invece di leggere meglio il reale inemendabile del terreno su cui camminiamo (facendoci attrito) e di noi stessi, in versione non idealizzata, perché l’emancipazione può nascere «solo se avremo riconosciuto la sottomissione come il carattere fondamentale dell’umano, invece di fare di quest’ultimo un polo di autonomia, libertà, potenza e virtù» (p. 149).
Bibliografia
Doueihi, M. (2011). Digital Cultures. Cambridge: Harvard University Press.
Floridi, L. (2014). The Fourth Revolution: How the Infosphere is Reshaping Human Reality. Oxford: Oxford University Press.
Valéry, P. (1980), Eupalinos ou l’architecte. In Id. Oeuvres II (pp. 79-147). Paris: Gallimard.
a cura di Luca Mori