Era sera ed ero in coda da qualche parte. Poi, a un tratto, ho letto:
È il 15 dicembre 2022, ed è morta bell hooks.
Non immaginavo che la scomparsa di un’autrice, incontrata soltanto un anno prima, potesse lasciarmi addosso una sensazione analoga a quella che avevo già provato nel perdere dei punti di riferimento.
Mi sono allora chiesta perché e in che modo, senza accorgermene, avesse assunto un simile ruolo; per cui ho deciso di provare in parte a mettere nero su bianco ciò che bell hooks mi ha trasmesso.
Il femminismo è per tutti – scriveva nel 2015 all’interno dell’omonimo libretto che ho scelto di attraversare, tradotto in italiano da Maria Nadotti e pubblicato da Tamu Edizioni nel 2021 – evitando di nascondere il proprio io dietro a terze persone tanto impersonali quanto inesistenti, dietro a giri di parole tanto impeccabili quanto incomprensibili. Non è infatti – il femminismo – un mero stile di vita: non è possibile approcciarsi ad esso senza esporsi personalmente, dal momento che riguarda innanzitutto la capacità di fare i conti con il sessismo che ognuno trascina dentro di sé.
Del resto, «per capire il femminismo è necessario capire il sessismo» (p. 31), nelle cui insidie cadono tanto gli uomini quanto le donne: questo è il presupposto da cui parte bell hooks nel dire che, appunto, il femminismo dev’essere per tutti: deve assumersi la missione di includere. Il sessismo diventa allora l’elemento che le consente – nel primo capitolo – di stendere innanzitutto un itinerario degli sviluppi storici del movimento femminista e, poi, di distinguere tra femminismo riformista e rivoluzionario. Il primo (quello con maggiore risonanza mediatica), ponendosi come obiettivo principale il raggiungimento della parità di genere e della mobilità sociale, considera l’impegno verso la lotta al sessismo un elemento quasi accessorio; mentre il secondo, ponendosi come scopo la trasformazione radicale del sistema patriarcale (e quindi non la sua semplice modifica), vede nella lotta al sessismo una delle sue principali missioni.
Mettere fine all’oppressione sessista è infatti ciò a cui ci richiama con ostinazione la rivoluzionaria bell hooks. È possibile indirizzarsi verso questa meta attraverso numerose vie e quella teorica è sicuramente un buon punto di partenza. Del resto, come bell hooks, in tanti siamo approdati alla lotta femminista all’università, entrando in contatto soprattutto con la teoria femminista più che con la sua pratica; tuttavia, a differenza sua, molti di noi si sono fermati e continuano a fermarsi semplicemente alla teoria. Purtroppo, però, solo con questa non si può riuscire nell’impresa di mettere fine all’oppressione sessista: a un certo punto, occorre chiudersi alle spalle la porta del proprio studiolo comodo e confortante per calarsi nel mondo – correndo il rischio di sporcarsi –, incontrando la voce, i gesti, la carne e gli abissi degli altri.
A questo proposto, nelle sue opere, la femminista afroamericana evoca spesso la potenza liberatoria che hanno avuto, durante il secolo scorso, i gruppi di autocoscienza. Ce li descrive come veri e propri siti di conversione, in cui donne tra loro molto diverse per età ed estrazione sociale riuscivano a trovare a turno una “camera tutta per sé”, in cui rivelare e mostrare «apertamente la profondità delle loro ferite intime» (p. 41). In quelle camere, nessuna aveva più diritto delle altre di essere ascoltata, nessuna aveva il dovere di rimanere in silenzio, bensì tutte condividevano la possibilità di dire ciò che pensavano realmente, di discutere e far valere le proprie ragioni: in quelle camere, nessuna voce era strozzata, perché ognuna veniva così preparata a «sfidare le forze patriarcali sul posto di lavoro e in casa» (ibidem).
Con il tempo, purtroppo o per fortuna, le cose sono cambiate: i Women’s Studies hanno cominciato a configurarsi come una disciplina accademica riconosciuta e l’aula universitaria – che «era e rimane un luogo di privilegio di classe» (p. 44) – ha progressivamente spazzato via quelle camere, che invece consentivano una trasmissione ampia e orizzontale del pensiero femminista e delle strategie rivolte al cambiamento sociale, prescindendo da distinzioni di classa e di razza. Tale cambiamento oltre a depoliticizzare il movimento femminista e a renderlo, per certi versi, più elitario, ha soprattutto contribuito al graduale allentamento della solidarietà politica tra le donne – forza che precedentemente aveva saputo mettere in atto un cambiamento positivo. Tutto ciò ha prodotto delle stratificazioni all’interno del movimento femminista, che, talvolta, ha finito per perdere di vista il fatto che «finché le donne usano il loro potere di classe o di razza per dominare altre donne, la sorellanza femminista non può realizzarsi appieno» (p. 53).
A partire da tali rilievi, Il femminismo è per tutti. Una politica appassionata si fa promotore della necessità di ripercorre la storia del movimento femminista, di esplorarne criticamente tanto i punti deboli, quanto quelli forti. Attraverso uno stile schietto, semplice, asciutto, bell hooks reclama la creazione di «un movimento di massa che offra un’educazione femminista a tutti» (p. 65), in grado di spiegare, in forme iper-accessibili, alle donne e agli uomini come opera il pensiero sessista, in che modo è possibile metterlo in discussione e cambiarlo e come, nel corso del tempo, il femminismo abbia inciso sulle vite di tutti noi. Si tratta di una sorta di testamento intellettuale, in cui vengono affrontati acutamente, seppur in poche pagine, tanti temi essenziali. Uno di questi – quello su cui mi capita di arrovellarmi più spesso – è il corpo: perno introno al quale ruotano, in particolare, il quinto capitolo, il sesto e l’undicesimo.
Essere il proprio corpo per una donna è un gesto rivoluzionario, che comincia con la scoperta della propria sessualità, con la ricerca del proprio piacere (e in questo tutti gli strumenti di controllo delle nascite hanno aiutato un bel po’), che passa attraverso la possibilità di rimanere incinta. Misurarsi con tale eventualità ha prodotto innumerevoli discorsi nel corso del tempo, alcuni dei quali elogiano la maternità, restituendola come un ineluttabile destino; altri sottolineano invece come quest’esperienza possa finire per costituire un intralcio alla realizzazione personale di una donna. L’intrecciarsi e lo scontrarsi di questi innumerevoli discorsi hanno contribuito a generare quel rumore che da anni avvolge il dibattito intorno all’aborto.
La posizione di bell hooks al riguardo – che mi sento di sottoscrivere in pieno – è molto semplice e parte dal presupposto che «se noi donne non abbiamo il diritto di decidere che cosa succede al nostro corpo, rischiamo di rinunciare ai nostri diritti in ogni altra sfera della nostra vita» (p. 72): essere pro aborto significa essere pro scelta, cioè sostenere «il diritto delle donne che hanno bisogno di abortire, di scegliere se farlo o no» (p. 73); ecco perché occorre lottare affinché non si torni «a un mondo in cui gli aborti sono accessibili solo alle donne che hanno un sacco di soldi» (p. 70), essendo questo un primo passo verso il ritorno a una politica che mira a rendere illegale l’aborto. Essere pro scelta, dunque, vuol dire battersi tanto affinché donne sole e senza mezzi possano permettersi di scegliere di essere madri, tanto affinché donne che vogliano abortire possano farlo in sicurezza.
Il femminismo ha il merito di aver contribuito a puntare i riflettori sull’incapacità di molte donne di scoprire «che la nostra carne è degna d’amore e di adorazione al naturale» (p. 75), dal momento che «tutte le donne, indipendentemente dalla loro età, vengono consciamente o inconsciamente educate a essere assillate dal pensiero del proprio corpo, a considerare problematica la carne» (pp. 80-81). Tale assillo si fa sempre più incombente durante la pubertà, quando una giovane donna percepisce più che mai il suo corpo come sfuggente, arrivando talvolta a sentirlo a lei estraneo. Allo stesso tempo, gli occhi maschili, che seguono sempre più frequentemente il ritmo dei suoi fianchi per strada, comunicano giudizi sulla sua anatomia, inducendola a viversi come un oggetto per gli altri.
A tutto questo si può reagire in vari modi: mettendo più o meno radicalmente in mostra la propria carne, traendo piacere dal forte desiderio che suscita negli altri; oppure – provando per essa paura o disgusto – ricercando l’invisibilità. Oggi, in un numero sempre crescente di giovani, il disgusto per la propria carne degenera in maniera patologica. Disturbi del comportamento alimentare come l’anoressia nervosa sono infatti una vera e propria piaga per il mondo occidentalizzato: si tratta di una patologia estremamente fatale, che, nello specifico, colpisce prevalentemente le giovani donne e che ogni anno miete un numero sempre maggiore di morti. Uno dei tanti aspetti che la caratterizzano è dato dal fatto che – come ben nota bell hooks – «non c’è monito, per quanto terribile, che riesca a dissuadere le donne convinte che il loro valore, la loro bellezza, il loro merito intrinseco sono determinati dal fatto di essere magre o no» (p. 79). Un disturbo come l’anoressia nervosa porrebbe allora il mondo femminista di fronte a un’urgenza: «anche se oggi le donne sono più coscienti delle insidie e dei pericoli insiti nell’accettazione di una visione sessista della bellezza femminile, non stiamo facendo abbastanza per eliminare, per creare un’alternativa […]. Finché le femministe non torneranno a misurarsi con l’industria della bellezza e con la moda, provocando una rivoluzione costante e di lunga durata, non saremo libere. Non sapremo come fare ad amare il nostro corpo e noi stesse» (pp. 81-82).
Il corpo di una donna è sempre attraversato dalla possibilità di esser ferito, cioè di subire in esso la volontà di un altro; tuttavia, questo non deve trarci in inganno su quella che dovrebbe essere una delle missioni principali del femminismo. Secondo bell hooks, quest’ultimo deve puntare, non tanto a contrastare esclusivamente la violenza degli uomini verso le donne, bensì a far cessare ogni forma di violenza. Alla base di ogni forma di violenza, compresa quella patriarcale, c’è sempre l’idea secondo cui è accettabile che un individuo dotato di maggiore potere controlli gli altri tramite varie forme di forza coercitiva. Ecco perché, mirando in fondo a minare la libertà che ciascuno ha di disporre del proprio corpo, la violenza patriarcale, oltre a poter essere perpetuata tanto dagli uomini quanto dalle donne, si rivela come un fatto che riguarda l’umanità intera.
Per quanto breve, il libro di bell hooks è talmente pieno di spunti che sarebbe davvero difficile diffondersi qui su ognuno di essi. Ho scelto di ricordarla parlando proprio di questo volume, non solo perché, di recente, è comparsa la sua traduzione italiana, ma anche perché trovo che esso racchiuda perfettamente alcuni dei punti essenziali del pensiero che bell hooks ha sviluppato per una vita intera: nel leggere, mi è piaciuto pensare di star conservando il suo testamento tra le mani…
di Giulia Castagliuolo