Siamo dei e ci muoviamo nello spazio profondo […] mentre tu, pover'uomo, non sei niente di speciale devi anche lavorare e poi chiedere perdono. (L. Dalla, Siamo dei)
spergiuro e perdono
Con l’uscita nel novembre 2023 del volume edito da Jaca Book per la cura di Vittorio Perego, Lo spergiuro e il perdono. Seminario (1997-1998) continua la meritoria opera di pubblicazione, in traduzione italiana, dei seminari, in corso di edizione anche nell’originale francese, che Jacques Derrida ha tenuto all’EHESS [École des hautes études en science sociales] negli ultimi venti anni della sua vita, tra il 1984 e 2003.
Nell’“Introduzione generale” i membri del comitato editoriale diretto da Katie Chenoweth ci informano che La serie “Les séminaire de Jacques Derrida”, nella collezione “Bibliothèque Derrida”, comprende le seguenti sequenze tematiche: «“Nationalité et nationalisme philosophiques” (1984-1988), Politiques de l’amitié (1988-1991), seguiti dalla grande serie delle “Questions de responsabilité” (1991-2003), che affronterà nell’ordine il segreto (1991-1992), la testimonianza (1992-1995), ostilità e ospitalità (1995-1997), spergiuro e perdono (1997-1999), la pena di morte (1999-2001) e, alla fine, le questioni della sovranità e dell’animalità con il titolo “La bête et le souverain” (2001-2003)» (p. 8).
Il seminario fa dunque parte della lunga sequenza di incontri che Derrida, nel corso di dodici anni, dedica alle questioni della responsabilità. Sono precisamente gli anni in cui l’autore declina la decostruzione in una chiave più direttamente politica. Nello stile distintivo a cui ci ha abituati in tutta la sua produzione filosofica, espressione di una rigorosa strategia argomentativa e di scrittura, più che affrontare tematicamente tali questioni, come se fosse possibile isolarle come un oggetto di studio ben identificabile, dai contorni chiari e distinti, ciò che Derrida mette all’opera in questo seminario è tentare di mostrare ciò che accade quando si a che fare con lo spergiuro e il perdono. Chiariamolo subito, ciò che accade – la decostruzione – è sempre, insieme,evento singolare e sua riproduzione archiviale. «La ricerca – ci dice Derrida a tal riguardo – è impegnata dall’inizio del seminario a proposito di ciò che nel perdono, nelle scuse o nello spergiuro accade, si fa, avviene, succede e dunque di ciò che, in questo evento richiede non soltanto un’operazione, un atto, una performance, una praxis, un’opera, cioè il risultato e insieme la traccia lasciata di una supposta operazione, un’opera che sopravvive alla sua supposta operazione e al suo operatore, e che, sopravvivendogli, essendo destinata a questo sopra-vita, a questo eccesso sulla vita presente, implica fin dall’inizio la struttura di questo sopra-vita, cioè di ciò che taglia l’opera dell’operazione, questo taglio, questa interruzione gli assicura una specie di indipendenza o di autonomia archiviale e quasi meccanica (non dico meccanica, dico quasi meccanica), gli assicura il potere di ripetere di ripetizione, di ripetibilità, di iterabilità, di sostituzione seriale e protetica di sé a sé» (p. 370).
Cos’è che accade, dunque, quando abbiamo a che fare con lo spergiuro e il perdono? Il lavoro che qui recensiamo ha precisamente il compito di rispondere a tale quesito. Esso riproduce il testo scritto e letto durante le dieci lezioni che Derrida tiene nel corso del primo anno di seminario. A ragione, i curatori dell’edizione francese Ginette Michaud e Nichols Cotton affermano che «la migliore presentazione del seminario […] è quella che Derrida stesso ha riportato nell’Annuaire de l’EHESS 1997-1998». Per restituire al lettore la vastità del programma, citiamo il brano per intero: «Abbiamo proseguito il ciclo di ricerche sulle attuali sfide (filosofiche, etiche, giuridiche o politiche) del concetto di responsabilità. Dopo aver privilegiato, come filo conduttore, i temi del segreto, della testimonianza e dell’ospitalità, tenteremo di affrontare la tematica dello spergiuro. Essa riguarda una certa esperienza del male, della malignità o della mala fede quando questa negatività assume la forma del rinnegamento. Con riferimento al pegno o all’impegno performativo “davanti alla legge” (promessa, fede giurata, parola data, parola d’onore, giuramento, patto, contratto, alleanza, debito, ecc.) vengono studiate nei differenti campi (etica, antropologia, diritto) e a partire da diversi corpus (esegetico, filosofico o letterario per esempio). Abbiamo tentato di collegare queste questioni del “male” a quelle del perdono. Se il perdono non è la scusa, né l’oblio, né l’amnistia, né la prescrizione, né la “grazia politica”, se la sua possibilità paradossalmente si misura solo in relazione all’imperdonabile,come pensare la “possibilità” di questa “impossibilità”? La traiettoria delineata quest’anno si è sviluppata attraverso letture (le due opere di Jankélévitch sul perdono e sull’imprescrittibilità, i testi di Kant sul diritto di grazia, i testi biblici o greci – platonici in particolare –, le opere apparentemente più letterarie, Shakespeare – Il mercante di Venezia o Amleto –, Kierkegaard, Baudelaire, Kafka), e attraverso l’analisi di alcune scene di “perdono” o di “pentimento” politici che si moltiplicano oggi nel mondo, in Francia o in Sud Africa, ma in verità in tutti i continenti (pp. 13-14)».
Come mette in luce Perego nel saggio introduttivo del volume “Il perdono ovvero la prova dell’impossibile”, l’operazione derridiana si serve di «due movimenti, due livelli di riflessione […]: uno fenomenologico descrittivo finalizzato a portare alla luce l’eidos del perdono con le sue inevitabili e feconde aporie, l’altro che invece attesta l’impossibilità di collocarsi al di fuori dell’esperienza del perdono dal momento stesso in cui Derrida si rivolge agli ascoltatori e assume l’eredità di questa parola “perdono”» (p. 25).
Dopo aver magistralmente così descritto il primo movimento: «l’individuazione di un’eidetica è funzionale a portare alla luce l’identità di un concetto per delimitarlo dal suo opposto, per poi risalire al differire originario che produce queste stesse distinzioni concettuali e che le contamina, rendendole aporeticamente impraticabili, come se pur il necessario concetto sia sempre inadeguato a delimitarne l’esperienza», e con l’intento di mettere dei segnavia su quello che Derrida letteralmente chiama «percorso a zig zag o a slalom» (p. 264), Perego individua tre «feconde aporie», che così analizza.
1) «Il perdono non è la scusa, in quanto di fronte alla colpa il perdono non cerca attenuanti. […] La scusa invece persegue l’obiettivo di spiegare la colpa, […] e quindi di giustificare il colpevole, appunto cerca di discolparlo scusandolo» (p. 29).
2) «Il perdono è la figura dell’ultima parola, ma allo stesso è necessariamente la penultima o forse la prima parola. […] Non può esserci perdono parziale: “ti perdono” significa propriamente “non parliamone più”, “tracciamo una riga”, “voltiamo pagina. […] Allo stesso tempo il perdono è sempre anche la penultima parola o la prima, in quanto è proprio il performativo “perdono” che rende possibile un ri-cominciamento, una rigenerazione, una ricostruzione del legame interrotto» (p. 30).
3) «Il perdono non è la giustizia. Chi perdona non giudica, non applica un codice, vuole appunto porsi al di fuori del regime della giustizia […]. Eppure il perdono non può esimersi dal giudicare, in quanto si costituisce attraverso un giudizio inequivocabile: quello sul male compiuto»(p. 31). Nello spazio di questa recensione, per quel che riguarda le prime due aporie ci limitiamo a quanto scritto da Perego, sulla terza aporia, certamente in maniera inscindibile connessa alla prime due, invece, ci soffermiamo, con l’obiettivo di rispondere al quesito che, con Derrida, ancora ripetiamo: «Se il perdono non è la scusa, né l’oblio, né l’amnistia, né la prescrizione, né la “grazia politica”, se la sua possibilità paradossalmente si misura solo in relazione all’imperdonabile,come pensare la “possibilità” di questa “impossibilità”?»O, detto altrimenti, qual è il rapporto che passa tra lo spergiuro, il perdono, il diritto, la giustizia e il suo impossibile al di là?
Tentiamo una risposta immaginando, con le risorse offerteci dal seminario, una scena in quella che proponiamo di chiamare la cucina filosofica di Jacques Derrida. Una cucina filosofica, sì, proprio come quella che ospita il nostro scritto. Una cucina perché tutto qui ha a che fare con un certo gusto e con un certo ingrediente segreto. «Mercy seasons justice» [Il perdono (la clemenza, la misericordia) mitiga la giustizia]: sono le parole che Shakespeare, ne Il mercante di Venezia, mette in bocca a Porzia, la cristiana, la quale, mascherata da avvocato, sta cercando, con un’arringa pronunciata di fronte al doge, di salvare il mercante Antonio, il quale, per un’obbligazione con l’ebreo Shylock circa un prestito che non può più corrispondere, deve a lui cedere una libbra della sua carne, andando dunque incontro a morte certa. Con una mossa geniale, che è, come vedremo, una riproposizione della sua traduzione del termine hegeliano Aufhebung, Derrida traduce mercy seasons justice con «il perdono rileva la giustizia», fornendo tre giustificazioni:
«Prima giustificazione, giustificazione immediata con il gioco dell’idioma. “Relever” innanzitutto ha il senso qui della cucina, […] si tratta di dare gusto, un altro gusto che si sposa con il primo gusto, restando lo stesso alterandosi, cambiandolo, ma dandogli più gusto, dandogli ancora più gusto del suo gusto; è ciò che si chiama “relever” nella cucina francese. Ed è proprio ciò che dice Porzia: il perdono rileva la giustizia, la qualità del perdono rileva il gusto della giustizia. […] 2) La seconda giustificazione, è che “relever” esprime bene l’elevazione: il perdono eleva la giustizia […]. Il perdono è un’ascensione della giustizia, una trascendenza, un movimento della giustizia che si trascende elevandosi così essa stessa al di sopra di se stessa. […] 3) La terza giustificazione di questa traduzione con “relever”, è che me ne sono servito trent’anni fa […] per tradurre una parola intraducibile di Hegel, “aufheben”, “Aufhebung” (ciò che nega conservando, ciò che eleva sopprimendo, ecc.) (pp. 109-110).
Il mercante di Venezia, insieme «trattato teologico-politico del perdono» e «opera sul giuramento e sullo spergiuro» (p. 93) rappresenta una delle vette di quella che Derrida chiama la «tradizione abramitica, del perdono cosiddetto infinito» (p. 313). Essa si contrapporrebbe – i condizionali sono qui d’obbligo perché Derrida in tutto il seminario revoca continuamente in dubbio la nettezza di queste distinzioni – a una certa tradizione greca e finanche a una certa tradizione ebraica, le quali sarebbero prive dell’esperienza del perdono. Tutto è come se, senza l’ingrediente segreto che «dà ancora più gusto», ovvero la clemenza o la misericordia, non fosse possibile alcun autentico perdono. La misericordia e la clemenza, elementi specificamente cristiani – nelle Confessioni di Agostino, sottolinea Derrida, la misericordia è «l’essenza stessa di Dio» (p. 194), – di cui sarebbero prive sia la tradizione greca sia quella ebraica, sono gli ingredienti segreti della ricetta del perdono, vale a dire ciò che permette al perdono di varcare l’orizzonte del diritto, della giustizia. Solo puntando all’imperdonabile, a questo al di là della giustizia, è possibile che il perdono non si confonda con l’oblio, l’amnistia, la grazia politica, la prescrizione. Ma è mai possibile una tale esperienza di perdono? È possibile perdonare l’imperdonabile? È possibile perdonare ed essere perdonati senza passare dalla pesante bilancia della giustizia?
Prima di affrettare una risposta chiariamo subito un punto fondamentale. Per Derrida, l'impossibile non è ciò che si oppone vis a vis al possibile, non è il suo contrario. L’impossibile è piuttosto ciò che risveglia, sollecita l'imprevedibilità del possibile. Per far sì che qualche cosa accada, per far sì che si dia un evento di perdono, il possibile deve anche essere impossibile. Ancora, dunque: come pensare la possibilità di questa impossibilità?
In tutta la sua opera – e lo si potrebbe mostrare facendo molti riferimenti, ad es. ai testi sul Kafka di Davanti alla legge, agli scritti su Baudelaire in Donare il tempo, alla sua lettura di Amleto, ai testi dedicati a Blanchot, ecc. – Derrida accorda un certo privilegio alla «letteratura» proprio nella capacità di saggiare, nei diversi registri in cui essa può articolarsi, la possibilità di questa impossibilità, come se la letteratura fosse più adatta a pensare, più adattare ad accogliere l’impossibile. È come se la letteratura, afferma Derrida nella Quarta lezione del seminario, «vivesse della memoria di questo perdono impossibile la cui impossibilità non è la stessa dai due lati della supposta frontiera tra la cultura abramitica e la cultura greca. Dai due lati, non si conosce il perdono, se così posso dire, lo si conosce come l’impossibile, ma l’esperienza di questa impossibilità, almeno questa è la mia ipotesi, vi si annuncia come differente.Intraducibilmente differente, senza dubbio, ma è la traduzione di questa differenza che forse qui tentiamo» (pp. 149-150).
Ecco allora che nella scena del Mercante di Venezia prima evocata, in cui Derrida individua niente meno che «un’altra letteratura che aggiusta il codice dell’idealismo speculativo con il codice del gusto e della cucina» (p. 161),si dà a vedere la possibilità di un’esperienza impossibile, l’evento di un perdono al di là del diritto, il cui al di là, tuttavia,si dà solo passando attraverso il diritto stesso – esperienza sempre aporetica del perdono: insieme evento e sua ripetizione archiviale. Se volessimo tentare di fissare in una formula la forza di questa feconda aporia, diremo che il perdono, se ce n’è, si dà sempre al di là e attraverso la giustizia. «Il perdono […] è giusto e insieme al di là della giustizia» (p. 310).
Per saggiare ancora le risorse di questa possibilità dell’impossibile, oltre all’elemento del gusto, dell’ingrediente segreto letterario, aggiungiamo nella nostra cucina filosofica anche altri due elementi o gesti: 1) la ripetizione di alcune frasi di uso comune legate allo scusarsi o al chiedere perdono, del tipo: «Perdono, sì, perdono» (p. 45) «Perdono, grazie…» (p. 91) «Perdono per non voler dire» (p. 139); «Non c’è niente di male» (p. 226) «Mi scuso» (p. 263), «–Perdono, mi scuso. –Ma no, non c’è nessun male» (p. 297), frasi che non è difficile immaginare che vengano spesso ripetute in una cucina, per esempio in quella indaffarata di un grosso ristorante, e che Derrida, durante il corso di tutto il seminario, ripete, mima, interpreta, intona, saggiandone le risorse retoriche e concettuali; 2) un sottofondo musicale, una colonna sonora.
Di tutte le frasi di uso comune che Derrida fa giocare in quella scena di perdono che il seminario stesso mette performativamente all’opera, ce n’è una a cui l’autore accorda un particolare privilegio e su cui, per questo, vale la pena fermarci. «Questa espressione di tutti i giorni è “non c’è niente di male”» (p. 226). Ora, nella lingua francese, la frase che in italiano suona «non c’è niente di male» si può tradurre in due modi differenti: il n’y a pas de mal oppure, più comunemente, y a pas d’mal. Derrida afferma di preferire sempre la seconda traduzione, perché per mezzo di quell’ellissi che le separa trasforma la negazione in affermazione. Si badi bene, qui non è in gioco soltanto una “mera” questione linguistica – del resto, ogni buon lettore di Derrida sa bene che non esistono “mere” questioni linguistiche, che finanche gli elementi tradizionalmente considerati esteriori al linguaggio filosofico: l’intonazione, lo stile, il gesto, la traccia, tutta la pragmatica del linguaggio naturale, ecc. hanno, a ben vedere, una rilevanza decisiva per il suo statuto –, ma la differenza che corre tra queste due espressioni è precisamente la via, dovremmo dire, forse, l’interruzione della via: aporia, che conduce, attraverso la giustizia stessa, al di là di essa e in cui dobbiamo riconoscere, l’unica possibilità, se ce n’è, di un perdono infinito veramente degno del suo nome, della sua eredità. «Preferisco sempre dire di proposito: “non c’è male” [y a pas d’mal] invece di “non c’è nulla di male” [il n’y a pas de mal]. In questo modo cancello il «Il n’» (il nulla). Infatti […] con questa ellissi o questa elisione di “il n’y” cancello un po’ la negazione che incide nel “c’è”; sopprimo il “non” della negazione, almeno presso il “c’è”, come se dicessi, sì, c’è, sì, ya, sì, y a, ma cosa? Esiste “nessun male”. Nessun male, sì, c’è, esiste nessun male [ya pas d’mal], nessun male esiste: sì, y a» (p. 298).
A nostro avviso, questo decisivo passaggio del seminario fa ben comprendere la tempra affermativa del pensiero di Derrida. Certo, la decostruzione costantemente si impegna per una messa in risalto delle contraddizioni, delle aporie, dei disallineamenti, dei contrasti di ciò che accade,ma lo fa con un atteggiamento che mai cede alla ripetizione fine a se stessa di gesti consolidati, identici, da applicare a questo o quel campo del sapere o della cosiddetta realtà, non cede, detto altrimenti, al ripetersi coattivo e mortale, in una parola, alla fine, ma guarda sempre, certo con sguardo critico e disincantato, al darsi di un evento, in questo caso di perdono, come all’unica possibilità, se ce n’è, che la giustizia trovi posto in questo mondo out of joint. Non ci pare un grande azzardo utilizzare una frase utilizzata da Karl Rosenkranz nella più nota biografia di Hegel (Vita di Hegel), per descrivere la pur differente tempra affermativa del pensiero Derrida: «L’acutezza negativa di Hegel [sostituiamo con: “di Derrida”] aveva come base la sua immediata forza affermativa».
Ancora un saggio di questa forza affermativa nell’interminabile domandare derridiano: «È possibile immaginare un perdono o una scusa che consista nel dire “sì”, “Ja” e non “no”? È possibile affrancare la scusa e il perdono dalla negatività? Questa negatività (negazione, diniego o denegazione) è di pura forma, come la manifestazione esteriore o fenomenale di ciò che sarebbe per essenza affermativo, come il dono, per esempio? Se il perdono è un dono, non deve sfuggire, nel suo fondo, nel cuore della sua misericordia, a questa negatività che gli fornisce tuttavia il suo linguaggio? Non si deve negare questa negazione portando via l’economia dialettica di questo rilevare e di questa negazione della negazione?» (p. 315).
Per quanto concerne l’ultimo elemento che ci resta da immaginare nella cucina filosofica di Derrida, c’è un’attenzione costante durante il corso del seminario per certi movimenti musicali – sono quelli, ad esempio, che Derrida individua nel Kierkergaard di Timore e tremore attorno al silenzio di Abramo (v. pp. 142 e ss.) –, ma anche per «il sussurro, il bisbiglio, la dichiarazione appena udibile, la voce del silenzio» (p. 229), per «il grido che si riconosce alle bestie» o per il «rumore di un ronzio» (p. 304). Più che seguire la coda di rimandi che lega questi suoni, questi rumori, questi silenzi o quasi silenzi all’analisi che Derrida fa dei testi di Kierkegaard, Blanchot, Levinas, Nietzsche, in conclusione scegliamo a nostro gusto un pezzo che, chissà, magari Derrida conosceva, e avrebbe pure volentieri ascoltato nella sua cucina filosofica.
Come visto, l’ellissi che «cancella un po’ la negazione che incide» nella frase di uso comune «non c’è niente di male» [y a pas d’mal] è uno dei luoghi fondamentali del seminario. È lo stesso Derrida, del resto, a sottolinearne l’importanza quando afferma: «l’analisi di questa negazione, di questa sottile modalità negativa, è il compito stesso di questo seminario» (p. 315). Data, dunque, l’importanza dell’ellissi – ricordiamo che il saggio che chiude una delle opere fondamentali di Derrida, La scrittura e la differenza titola propria “Ellissi” – scegliamo un pezzo che Sam Rivers, sassofonista statunitense, compone per il suo album del 1964 Fuchsia Swing Song e che proprio così si intitola: Ellipsis.
Con la speranza non ingenua che il mondo diventi più giusto, concludiamo augurandovi: buon ascolto e buon appetito. Il faut bien manger. Dalla cucina filosofica di Derrida, per ora, è tutto.
Non c’è evoluzione tecnologica senza che, nel più profondo, avvenga una mutazione del capitalismo
G. Deleuze, Proscritto alle società di controllo
Per cogliere il senso complessivo del denso lavoro di Bernard Stiegler, La miseria simbolica. L’epoca iperindustriale 1(Meltemi, 2021) iniziamo con l’interrogare i termini che compongono il titolo dell’opera. In cosa consiste per l’autore “la miseria simbolica” che caratterizza le nostre società in quella che egli definisce l’“epoca iperindustriale?”
«La nostra epoca – scrive Stiegler – si caratterizza come presa di controllo del simbolico da parte della tecnologia industriale, laddove l’estetica è diventata al contempo l’arma e il teatro della guerra economica» (p. 25). L’effetto di un tale conflitto sugli individui è la miseria simbolica, vale a dire «la perdita di individuazione derivante a sua volta dalla perdita di partecipazione alla produzione di simboli, designanti, questi, tanto i frutti della vita intellettiva (concetti, idee, teoremi, saperi) che quelli della vita sensibile (arti, saper-fare, costumi)» (p. 38).
Come l’autore annuncia nella Prefazione, il testo va considerato come un commento al Proscritto sulle società di controllo (in Pourparler, Quodlibet, 2019) di Gilles Deleuze. In quelle poche pagine, com’è ben noto, Deleuze sostiene che le “società disciplinari” analizzate da Michel Foucault, con l’organizzazione dei grandi ambienti di internamento (famiglia, scuola, fabbrica, ospedale, carcere) che caratterizza la loro logica, e storicamente collocabili tra il XVIII e l’inizio del XX sec., siano ormai state sostituite dalle società di controllo, la cui peculiarità consiste nell’estensione, nell’intensificazione e nella complessificazione della logica dei processi distintivi della rivoluzione industriale applicati anche alla sfera simbolica del desiderio. Nell’attuale forma di capitalismo, che Stiegler definisce con Jeremy Rifkin «culturale» (p. 83), la dimensione estetica – qui intesa in senso ampio come dimensione del sentire in generale, e nella quale soltanto è possibile costituire un “io” e un “noi” a partire da un pathos comune – viene sistematicamente presa nelle maglie del calcolo, il cui dominio, anche grazie al recente processo di digitalizzazione, si è esteso ormai ben al di là della sfera della produzione, «nella integralità dei dispositivi caratteristici di ciò che Simondon chiama l’individuazione psichica e collettiva» (p. 82).
Nell’epoca iperindustriale la legge del capitale non è più la produzione, ma «il marketing in quanto controllo dei tempi di coscienza e dei corpi attraverso la macchinazione della vita quotidiana» (p. 83), così come il luogo paradigmatico non è più la fabbrica, ma l’impresa. L’iperindustrializzazione – è questa la tesi di Stiegler – ha dunque un riscontro paradossale: da un lato fa apparire una nuova immagine dell’individuo, il consumatore, dall’altro la generalizzazione del calcolo impedisce, o quantomeno ostacola fortemente, il processo di individuazione stesso che, solo, rende l’individuo possibile.
Del saggio deleuziano, Stiegler non condivide soltanto l’analisi insieme storica e logica relativa all’insediamento progressivo di un nuovo regime di dominazione, quello, cioè, caratteristico delle società di controllo, e che comporta una notevole perdita di individuazione, vale a dire la miseria simbolica, ma fa pienamente suo, se così possiamo esprimerci, anche lo spirito politico battagliero, che anima quelle pagine e che ben si esprime in queste parole, che lo stesso Stiegler cita: «Non è il caso né di avere paura né di sperare, bisogna cercare nuove armi» (Deleuze, 2019, p. 235). Come ben specifica Rosella Corda nell’Introduzione, il lavoro di Stiegler non si limita infatti «alla costatazione sterile o alla rassegnazione diagnostica», ma si pone l’obiettivo di trovare, «proprio in questo disperare, mancare di speranza, un po’ di possibile» (Stiegler, 2021, p. 9)
La questione delle armi, come esplicitamente afferma l’autore, è la «questione della tecnicain generale» – ovvero la questione cardine su cui ruota tutta l’opera di Stiegler fin dal suo primo lavoro La technique et le temps 1. La faute d’Épimethée, –, la quale è anche questione del politico, questione, cioè, «del destino di un noi» (Stiegler 2021, p. 38). La questione della tèchne, che, ricordiamolo, per Stiegler è un pharmakon, vale a dire insieme veleno e antidoto, si articola qui nell’ipotesi di un’organologia generale, la quale si pone l’obiettivo di indagare, dal punto di vista di una prospettiva antropologico-filosofica, la genesi del processo di ominazione. La domanda a cui l’organologia risponde è dunque una domanda sulla seconda natura dell’uomo, vale a dire sulla natura “originariamente” protesica, e cioè tecnica, dell’uomo. Un’adeguata interrogazione della secondarietà che contraddistingue l’umano rappresenta una condizione senza la quale non è possibile comprendere l’epoca attuale e la sua miseria simbolica, né risulta possibile – ed è questo ciò che più conta per Stiegler – indicare delle vie alternative a tale stato di miseria.
Il progetto di un’organologia generale prevede lo studio congiunto di quelle che Stiegler considera le «tre grandi organizzazioni che formano la potenza estetica dell’uomo: il suo corpo con la sua organizzazione fisiologica, i suoi organi artificiali (tecniche, oggetti, utensili, strumenti, opere d’arte) e le sue organizzazioni sociali che risultano dalla articolazione degli artefatti e dei corpi (pp. 31-32)». Il concetto chiave su cui l’autore costruisce tale progetto è il concetto di ritenzione terziaria, il quale, a differenza dei concetti di ritenzione primaria e di ritenzione secondaria con i quali Husserl indicava rispettivamente la dimensione della percezione e la dimensione dell’immaginazione, indica la dimensione artificiale della produzione da parte dell’uomo di oggetti di memoria esteriorizzata, come ad es. lo smartphone, i libri, gli edifici, le targhe commemorative, i film.
Nel terzo capitolo del libro “Allegoria del formicaio. La perdita di individuazione nell’epoca iperindustriale”, Stiegler ricostruisce per tappe storiche il processo di produzione delle ritenzioni terziarie, che egli chiama epifilogenesi. «L’ambiente epifilogenetico – scrive l’autore – come insieme delle ritenzioni terziarie costituisce il supporto dell’ambiente preindividuale permettendo l’individuazione del genere» (p. 89). Essendo l’epifilogensi il «deposito di memoria che è specifico di una forma di vita unica, quella del genere umano» (p. 66), ed essendo la natura dell’uomo già da sempre tecnica, la storia dell’epifilogenesi segna le tappe dell’individuazione dell’uomo, in particolare dell’uomo occidentale. Senza poter approfondire i vari passaggi che caratterizzano questa storia, che è anche la storia di una lotta per la definizione delle criteriologie dei dispositivi ritenzionali («processo di grammatizzazione», p. 90), ci preme mettere in luce il fatto che secondo Stiegler questo processo ha raggiunto un punto limite nell’epoca iperindustriale. Il processo di individuazione rischia cioè di annullarsi in favore di una «ipersincronizzazione» (p. 96) – ben resa dall’allegoria del formicaio – in cui la differenza tra “io” e “noi” collassa nel “si”, ovvero in quella condizione che Stiegler chiama anche di «mal-essere» (p. 98), tale per cui gli individui, non avendo più accesso alla produzione di simboli, perdono la loro singolarità e la correlata possibilità di proiettarsi in un “noi” e, dunque, in una dimensione politica. Privati di singolarità, gli individui cercano di singolarizzarsi mediante gli artefatti che il mercato mette loro a disposizione, il quale sfrutta la miseria propria del consumo stesso, e così facendo fanno esperienza del loro fallimento: «non si amano più e si rivelano sempre meno capaci di amare» (p. 99).
Concediamoci ora una considerazione generale sul senso dell’opera di un autore come Stiegler. Se ci soffermassimo soltanto sul lato diagnostico, sulla pars destruens del suo discorso correremmo il rischio di eludere l’aspetto più rilevante dello sforzo intellettuale – e non solo – dell’opera e della vita di Stiegler, il quale riguarda l’impegno con cui l’autore ha da sempre tentato di rispondere alla domanda: “che fare?”. Se infatti considerassimo solo l’aspetto analitico della sua opera, finiremmo per giudicare Stiegler, come pure è stato fatto soprattutto dopo la pubblicazione de La società automatica. 1. L’avvenire del lavoro (Meltemi, 2019), un autore catastrofista. Per quanto la situazione diagnosticata dall’autore sia effettivamente catastrofica, Stiegler, come si è detto, non cede nemmeno per un attimo al catastrofismo. È questo un punto battuto da tutti i curatori delle edizioni italiane recenti delle opere di Stiegler, sulla cui insistenza, potremmo dire, Meltemi ha costruito la cifra peculiare della sua operazione editoriale, che ha portato alla pubblicazione dei due volumi sulla miseria simbolica (Stiegler, 2021; La miseria simbolica. 2. La catastrofe del sentire) e a quello sulla società automatica (Stiegler, 2019) nella serie “Culture radicali” diretta da Gruppo Ippolita.
Come scrive Giuseppe Allegri in un articolo online su OPERAVIVA dal titolo Dentro, oltre e contro la società automatica, «il ricercare e l’agire di Stiegler si oppone radicalmente a qualsiasi visione apocalittica che altri rintracciano nel suo pensiero, del tutto inspiegabilmente e proprio leggendo il volume sulla Società automatica, mentre la postura del Nostro è anche e soprattutto quella progettuale e sperimentale, per la promozione e il sostegno di collettivi di ricerca che coinvolgano e che già coinvolgono ampi spezzoni di società, associazionismo di base e frammenti di classe dirigente, disposti ad accettare e orientare la trasformazione tecno-digitale e socio-economica nel senso di un ripensamento radicale delle categorie e delle pratiche sociali per maggiore autodeterminazione, dignità, felicità in favore dei molti» (https://operavivamagazine.org/dentro-oltre-e-contro-la-societa-automatica/). Lo stesso Allegri, autore della postfazione al testo qui recensito, e significativamente titolata Ricchezza delle pratiche inventive, fa un lungo elenco delle attività che hanno impegnato Stiegler dalla fine degli anni Novanta fino alla sua scomparsa nell’agosto del 2020, e che lo hanno coinvolto nella fondazione di «nuove istituzioni», quali, tra le molte altre, citiamo Ars Industrialis, «la cui “ragione sociale” è quella di un’associazione europea per una politica industriale delle tecnologie dello spirito», o «IRI – Institute pour la Recherche et l’Innovation presso il Centre Pompidou, all’interno del quale è riuscito a promuovere una rete di Digital Studies inaugurata nel 2012»,o che lo hanno visto collaborare al «progetto avviato nel maggio 2016 di Territoire Apprenant Contributif, che coinvolge i 9 comuni di Paris Nord/Seine-Saint-Denis» (pp. 160-161).
Specificamente per quel che riguarda La miseria simbolica 1. L’epoca iperindustriale, in tutte le pagine che compongono i quattro capitoli del libro, finanche nei punti in cui la disperazione emerge in maniera più forte, e, anzi, soprattutto lì, la domanda sul “che fare?” e la ricerca continua di quella che con una bella espressione Stiegler definisce l’«energia zoppicante della chance» (p. 124) non scompaiono mai dall’orizzonte. In particolare, si ha un riscontro evidente dell’insistenza con cui Stiegler si spende per “cercare nuove armi” nell’analisi dei due film On connaît la chanson di Alain Resnais e Tiresia di Bertrand Bonello, che egli conduce rispettivamente nel secondo (Come se ci mancassimo o di come trovare delle armi a partire da Parole parole parole… (On connaît la chanson) di Alain Resnais”) e nel quarto capitolo (“Tiresia e la guerra del tempo. A proposito di un film di Bertrand Bonello”) del testo.
Nel film di Resnais il nostro autore trova esemplarmente tracciata, nel modo in cui il regista compone e scompone cliché attraverso l’utilizzo della tecnica del sampling e più specificamente attraverso la ripetizione ventriloqua che i personaggi si trovano a fare dei ritornelli di alcune famosissime canzoni francesi, la via «per una nuova capacità di immaginare/sentire» (p. 15), che prenda le mosse proprio da quel processo che fa scomparire la differenza tra “io” e “noi” nel “si”, ma tentando di invertirne la direzione.
Raramente il tono con cui si parla o si scrive è stato fatto oggetto di trattazione filosofica. Come trattare del tono? Come rendere conto di un elemento riconoscibile, ma apparentemente così distante, nella sua espressione singolare, dalla pretesa di generalità universale che muove il sapere filosofico? Un discorso che ha a che fare con il vero e con l’universale, sembra non potere e non dovere avere nulla a che fare con ciò che chiamiamo tono: un tale discorso – la filosofia – sembra, anzi, al contrario, dover richiedere, come sua condizione preliminare e proprio in virtù della sua istanza di generalità, una certa neutralità del tono. La filosofia esige quella che Jacques Derrida chiama, in Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia (Jaca Book, 2020), la «norma atonale dell’allocuzione» (p. 35).
Se poniamo il nostro sguardo da una prospettiva filosofica, dobbiamo allora definitivamente rinunciare a trattare del tono? Dobbiamo, di conseguenza, continuare a considerare il tono come qualcosa di semplicemente esteriore alla filosofia, come un suo “fuori”? Non sembra di questo avviso Derrida. La recente riedizione del suo scritto dà la possibilità al lettore italiano di riflettere, in maniera feconda, su una questione tutt’altro che ininfluente per le sorti della filosofia.
Questo breve lavoro – la nuova edizione con testo originale a fronte conta poco più di un centinaio di pagine – è la trascrizione di un intervento che il filosofo francese pronunciò a Cerisy-La-Salle nel 1980, in occasione di una conferenza dedicata proprio al suo pensiero e a cui gli organizzatori diedero il titolo di Fins de l’homme (Fini dell’uomo), eco dell’omonimo saggio di Derrida contenuto nella sua opera del 1971 Margini della filosofia.
La prima cosa che ci dice il titolo è che l’autore si occuperà di un certo tono, non tanto del tono in generale, ma del tono che assumono quei «discorsi della fine» (p. 69), così in voga al tempo, che annunciano, con rintocco di morte, «la fine della storia, la fine della lotta delle classi, la fine della filosofia, la morte di Dio, la fine delle religioni, la fine del cristianesimo e della morale, […] la fine del soggetto, la fine dell’uomo, la fine dell’Occidente, la fine di Edipo, la fine della terra, Apolcalypse now». (p. 69).
Il titolo, inoltre, suggerisce un esplicito richiamo, «secondo la citazione» (p. 33), ma anche nello stile della trasformazione e della parodia, al famoso testo di Kant, D’un tono da signori assunto di recente in filosofia (in Scritti sul criticismo, Laterza, 1991). In questo opuscolo del 1796, Kant se la prende con quelli che chiama «mistagoghi» (p. 266), portatori di un pensiero oracolare che trova nell’intuizione intellettuale, nell’illuminazione mistica e nell’esaltazione fantastica, le armi improprie con cui giungere alla verità e che conduce – sono le parole di Kant – alla «morte della filosofia» (p. 265). I mistagoghi confondono la voce immateriale della ragione, una voce che parla a tutti in un linguaggio universale e infinitamente trasmissibile, con la voce misteriosa e carica di immagini sensibili dell’oracolo. Così facendo, affidando a una solo e alla sua visione privata, il beneficio della conoscenza della verità e l’onere di trasmetterla, i mistagoghi si fanno portatori di una visione elitaria della filosofia che ha come diretta conseguenza una concezione della politica ristretta e settaria. Niente di più lontano dell’idea kantiana di una filosofia infinitamente aperta al progresso e di una politica profondamente egualitaria e democratica.
Ciò che è decisivo per Kant, e per Derrida che lo commenta, è il fatto che il tono che i mistagoghi assumono, il «tono gran-signore» (p. 51), non soltanto si fa portatore di una cattiva concezione della filosofia, ma la conduce di fronte al suo limite estremo. Il tono gran-signore dei mistagoghi, proprio come il tono assunto dai fautori dei discorsi della fine, è un tono apocalittico che annuncia la morte della filosofia.
Che cosa accomuna questi due toni: il tono gran-signore con cui se la prende Kant, al tono dei «discorsi della fine» a cui Derrida fa riferimento al tempo del suo discorso? Nel rispondere a questa domanda, Derrida comincia a prendere le distanze da Kant. Non lo fa opponendo una sua propria tesi a quelle del filosofo tedesco. (Kant e Derrida, entrambi con spirito illuminista, potremmo dire, da demistificatori, combattono dallo stesso lato della barricata contro i mistagoghi). Ma lo fa mostrando, com’è nel suo instancabile stile di scrittura, che le opposizioni concettuali messe in campo, in questo caso per difendere la filosofia dai suoi aguzzini, non sono poi, a ben vedere, così nette e inequivocabili.
Dopo averne tessuto l’elogio, Derrida, dunque, mostra anche limiti e criticità della trattazione kantiana. Proprio il limite – tra filosofia e il suo altro – costituisce il punto più problematico. Pur avendo avuto il coraggio di trattare da una prospettiva filosofica del tono, o quantomeno di un certo tono, Kant, opponendo al carattere mistificatorio e sensibile del tono, la purezza diafana, ideale della voce della ragione, non ha fatto altro che ripetere quell’operazione di esclusione del gesto, della scrittura, del corpo, che Derrida, nelle sue opere maggiori degli anni ’60 (La voce e il fenomeno, Della grammatologia, La scrittura e la differenza) e ’70 (La disseminazione, Margini della filosofia, Glas,) ci ha insegnato a riconoscere essere quella fondamentale della metafisica occidentale, ovvero di quella struttura in cui le coppie concettuali oppositive e gerarchizzate si organizzano in un tutto organico con al centro la verità.
In apertura del suo libello polemico, Kant parla di smarrimento del «significato originario» della filosofia intesa come «saggezza di vita perseguita con metodo». A causa di ciò – continua Kant – «il nome di filosofia venne ben presto rivendicato a titolo di ornamento dell'intelletto di pensatori fuor del comune, per i quali rappresentò una sorta di rivelazione d'un mistero» (p. 245). Soltanto in seguito a tale smarrimento, si sono create le condizioni favorevoli all’alzata di tono del mistagogo che, come il sofista, pretende di detenere in privato, in segreto, per se stesso e i suoi adepti, la verità. Il filosofo, da parte sua, per tenersi in vita, per tracciare il suo proprio spazio di azione nella polis, deve poter riconoscere il proprio altro e nettamente distinguersi da esso. Questo, problema classico della filosofia da Platone in poi, è l’obiettivo, il fine di Kant: differenziarsi da colui che usurpa il luogo della verità.
Ma siamo sicuri – invita a chiedere Derrida – che lo sviamento, lo smarrimento, la stonatura che può portare alla morte della filosofia di cui parla Kant, avvenga soltanto dopo rispetto a un prima originario in cui la filosofia sarebbe stata al riparo da ogni contaminazione? Siamo sicuri che il tono, e in particolare il tono apocalittico, sia del tutto estraneo all’essenza della voce, all’orizzonte “proprio” del filosofico? Prima di rispondere, va anzitutto chiarito un aspetto. A rigore, non si potrebbe parlare di tono al singolare. Il tono resiste alla chiusura della domanda ontologica che cos’è? Ciò che permette di alzare il tono – la stonatura, la Verstimmung, ovvero quel «turbamento delle menti inclinanti all’esaltazione fantastica» (Kant 1991, p. 265), e che comporta l’allontanamento dalla neutralità del discorso filosofico, non è un processo unitario. Più che di tono, dovremmo parlare di differenziazione dei toni, di alternanza dei toni (il Wechsel der Töne hölderliniano che ossessiona La cartolina), di «vibrazione differenziale» (Derrida 2020, p. 77) come ciò che permette a un tempo un tono e l’altro tono. Se il tono non può che essere plurale, rivolto all’altro e dell’altro, non può nemmeno mai essere neutro, come vorrebbe, invece, la norma atonale dell’allocuzione filosofica. La Verstimmung, la stonatura, «moltiplica le voci e fa saltare i toni. […] La Verstimmung generalizzata è la possibilità per l’altro tono, o il tono di un altro, di venire a interrompere in qualunque momento una musica familiare» (pp. 75-77).
Nonostante si guardi bene dal cedere alla tentazione di essenzializzare, di ontologizzare la stonatura generalizzata che apre la strada al tono apocalittico – essa è infatti precisamente ciò che impedisce di chiudere, di portare a termine ogni tentativo di questo tipo – Derrida non rinuncia, dopo aver preso le dovute precauzioni, a immaginare, potremmo dire per ragioni strategiche, una scena fondamentale. «Cediamo per poco alla tentazione di una finzione e immaginiamo questa scena fondamentale. Immaginiamo che vi sia un tono apocalittico, una unità del tono apocalittico» (p. 75).
A quale fine mira la strategia di Derrida? È questa domanda sul fine che, anzitutto, dobbiamo porci quando trattiamo con il tono dei discorsi della fine. È la stessa di Kant e di Derrida: a quale fine mirano i mistagoghi di tutti i tempi quando annunciano, con tono apocalittico, la morte della filosofia? Essi vogliono svelare la verità sulla fine che soltanto loro detengono in segreto e, mediante questa, attirare, far venire, sedurre. «Svelamento o verità, apofantica dell’imminenza della fine, di qualunque cosa che riguardi alla fine, la fine del mondo. Non soltanto la verità come verità rivelata di un segreto sulla fine o del segreto della fine. La verità stessa è la fine, la destinazione, e che la verità si sveli è l’avvenimento della fine» (p. 77). Ma, alla fine, la verità non è lo stesso fine a cui aspira anche Kant? Ecco allora che la verità, con la sua struttura apocalittica, non soltanto tiene insieme, in una scena fondamentale, tutti i discorsi sulla fine, ma rivela un accordo, un «potente programma» (p. 69) in cui escatologia e teleologia trovano, al di là della loro dichiarata opposizione, un segreto accordo. La voce della ragione e il tono apocalittico non sono affatto così nettamente opposti come vorrebbe Kant. La stonatura generalizzata, la Verstimmung è ciò permette a un tempo l’alterazione dei toni, la distinzione tra un tono e l’altro tono e la differenziazione tra tono e voce. Se è così, essa non può essere espunta dalla scena come se fosse venuta dopo nella forma dello sviamento da un significato originale puro, incontaminato e neutro. La stonatura, la venuta dell’altro, la fine, è già da sempre venuta. Il tono, e in particolare il tono apocalittico, abita già da sempre, e lo fa fino alla fine, la voce della ragione.
«La Verstimmung, – scrive Derrida –se si nomina così ormai il deragliamento, il cambio di tono come si direbbe il cambio di umore, è il disordine o il delirio della destinazione ma anche la possibilità di ogni emissione» (p. 77). In tale disordine o delirio dobbiamo certo riconoscere un rischio catastrofico che dobbiamo arginare, – la morte della filosofia – ma anche la chance, forse l’unica, che qualcosa come un invio, un senso, un desiderio, una politica, un’etica, inizi a circolare.
C’è un luogo della tradizione in cui immaginare una scena fondamentale del tono apocalittico: è l’Apocalisse di Giovanni. Qui il tono apocalittico si fa, o meglio, si rivela, testo. Ogni testo apocalittico annuncia che «il tempo è vicino», che la fine è imminente. Ciò che interessa a Derrida del testo, non è tanto il contenuto rivelato, la fine, ma la sua struttura, «la verità della rivelazione invece che la verità rivelata» (p. 85). La moltiplicazione delle voci, degli invii che circolano, all’inizio dell’Apocalisse, negli scambi di messaggi rivelatori tra Gesù, l’angelo e Giovanni che scrive, è la stonatura generalizzata come «condizione trascendentale di ogni discorso, persino di ogni esperienza, di ogni marca o di ogni traccia. […] Se l’apocalisse rivela, essa è innanzitutto rivelazione dell’apocalisse, auto-presentazione della struttura apocalittica del linguaggio, della scrittura, dell’esperienza della presenza, ossia del testo o della marca in generale: cioè dell’invio divisibile per il quale non c’è auto-presentazione né destinazione assicurata» (p. 85).
Di tutti i motivi che si intrecciano nella polifonia del testo, Derrida si occupa del «Vieni», di quel «Vieni» che apre la sequenza dei sette sigilli e dei Cavalieri dell’Apocalisse. Dicevamo, la fine è già sempre venuta. Qui il participio passato non va letto come se indicasse un’azione compiuta, un contenuto rivelato: esso marca, piuttosto, il venire, l’infinito di un «Vieni». Infatti, precisa Derrida, «l’avvenimento del vieni precede e chiama l’avvenimento» (p. 97). Il vieni non può mai ridursi a un oggetto, a un tema, a una rappresentazione, perché è esso ad aprire la scena, a rendere possibile, come condizione trascendentale, ogni domanda.
Il vieni è già sempre venuto ed è sempre a-venire. È in questa strana formulazione che si può esprimere l’annuncio di quella che Derrida chiama «apocalisse senza apocalisse» (p. 99) e in cui dobbiamo riconoscere il fine senza fine, la «strategia senza finalità» (Derrida 1997, p. 33), il «compito» (Derrida 2020, p. 27) a cui mira il discorso derridiano. In «tono affermativo» (p. 97), il «Vieni», che è il «gesto nella parola, […] annuncia qui, promessa o minaccia, un’apocalisse senza apocalisse, un’apocalisse senza visione, senza verità, senza rivelazione, degli invii (perché il «vieni» è plurale in sé), degli indirizzi senza messaggio e senza destinazione, senza destinatore o destinatario decidibile, senza giudizio finale, senza altra escatologia che il tono del «Vieni», la sua stessa differaenza, un’apocalisse al di là del bene e del male» (p. 101).
Il tono è al di là dell’opposizione tra sensibilità e idealità, al di là dell’opposizione tra voce della ragione e voce oracolare, «al di là dell’essere» (p. 99). Esso annuncia, «alla vigilia della filosofia e al di là di essa» (Derrida 1997, p. 33), qui e ora, apocalypse now, la chance, forse l’unica, di un pensiero aperto all’altro, aperto all’a-venire.
In queste poche, ma densissime pagine, Derrida, nell’affrontare la questione del tono, raccoglie molti dei temi e dei motivi che lo hanno interessato fino a quel momento (ruolo e rilevanza della voce, rapporto tra nome e cosa, differenza e scrittura) e anticipa alcuni di quelli che, strettamente intersecati ai precedenti, lo impegneranno nella sua riflessione successiva (pensiero dell’a-venire, invenzione dell’altro). Per questo motivo, per la sua straordinaria capacità di condensazione, Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia risulta un testo chiave per avere accesso a uno dei laboratori di pensiero più fervidi di tutto il Novecento, un pensiero che con la forza del suo «Vieni» ci chiama ancora, in questi giorni apocalittici, a rispondere al suo annuncio.