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Trisha Brown risponde in un’intervista: «La relazione sempre aperta tra regole ed espressione, stasi e dinamismo, vincolo e libertà. È un rovesciamento in cui il live precede e determina la coreografia».
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Waggle dances. Oscillazioni scodinzolanti
Filosofia e danza / Dicembre 2023Lungo la via
e i nostri passi
ronzio di api
(F. Nun)
Anche se lontane chilometri, le api sanno sempre orientarsi prendendo come riferimento il sole, l’arnia e il prato, spazializzando con la loro danza scodinzolante (waggle dance, ovvero danza scodinzolante delle api che agiscono facendo vibrare il corpo e spostandosi con movimenti ondulatori per comunicare la distanza e la posizione dalla fonte di cibo, Frisch 1967) la distanza da percorrere per comunicare alle compagne dove si trova il nuovo fiore. È un lavoro continuo di esplorazione e mappatura. L’ape non lavora mai per sé stessa ma per procurare il cibo necessario alla sopravvivenza della colonia, l’alveare è un organismo; la colonia di api assomiglia a un corpo, ma un corpo senza organi, un campo di forze, un corpo che si fa sempre ancora e ancora, desiderio in-comune che è ricerca continua.
Alcune azioni delle api sono pulire, nutrire, costruire, immagazzinare, proteggere, raccogliere e con i loro enzimi trasformare il nettare in miele. Quando penso a cosa faccio quando faccio filosofia penso alle api operaie, che prestano servizio, che sono alveare, il singolare che può esistere solo come molteplicità; penso alle api operaie che stanno sulla soglia tra esterno e interno, cercano, trovano, raccolgono, costruiscono collettivamente. Mi piace pensarmi come operaia della filosofia con tutte le valenze che il termine porta con sé: etiche, politiche, autobiografiche che richiamano la dimensione del fare, del maneggiare, della plasticità e della materialità di un pensiero che prende forma, che si forma nella pratica, che si fa azione. Quello delle api operaie della filosofia è un viaggio geografico, fatto di voli di soleggiamento davanti all’arnia che costudisce concetti distillati e incamerati, dove la danza allora assume la forma di un otto, crea un infinito; di voli di orientamento, che sono esercizi per imparare a volare e di voli di esplorazione, di ricerca, di immersione nel fiore e di raccolta del polline e del nettare. Curioso è il modo con cui recuperano il polline, che si posa e aderisce al corpo, pulviscolo che plasmano dandogli una forma morbida per portarlo all’arnia, un primo nutrimento che non diventerà miele, ma che sarà energia per altre esplorazioni. Una filosofia che è questo modo di fare, un viaggio del pensare, che è stata ed è la mia formazione nelle pratiche di filosofia con l’Insieme di Pratiche Filosoficamente Autonome (Giovine Proietti 2021); un viaggio geografico e concettuale, come lo definiscono S. Bevilacqua e P. Casarin, che provi a mappare il territorio delle molteplici esperienze che non trovano spazio per prendere parola; una mappatura che osserva e interroga le trasformazioni della pratica, che non si concentra solo sulle finalità, ma anche sulle inizialità, termine usato da Bevilacqua come gioco di parole, avendo sempre più cura dei mezzi, delle modalità e delle relazioni con cui e insieme a chi si attua la pratica (Bevilacqua 2016, 40-46); un pensare come Pensosità. «Quella pensosità che Blumenberg definisce come esperienza della libertà del divagare, quella che si allontana dall’idea di filosofia intesa solo come una metodica disciplina del pensiero e che invece si avvicina deve avvicinarci al mondo-della-vita, quella pensosità che non esaurisce tutta la filosofia, ma che fa parte della sua possibilità di essere. Quello della pensosità è un rapporto con la realtà di conoscenza e riconoscenza di sé, una meditazione critica trascendentale che trascende l’irreale per conquistare il reale e viceversa. Un’inedita esperienza del mondo, corpo pensante presente non in un’ora, ma in un qua» (Bevilacqua 2023);un pensare che è movimento in cui Filosofia si declina in filosoficamente, da sostantivo diviene avverbio.Un abitare la distanza e, sul prato, immaginare fiumi e confluenze per inaugurare un viaggio osservativo e interrogativo verso la foce per confondere gli argini (Casarin 2016, 35-39); un esercizio di erosione delle rive, che fa pensare al Tra le cose descritto da Deleuze e Guattari in Millepiani, un “tra” le discipline e le pratiche che abitano il mondo. Una filosofia che attraversando il prato, l’enciclopedia, torni a interrogarsi su se stessa e sulle proprie pratiche, pensandone di nuove per ri-cartografare il presente. Proverò allora a restituire di queste pratiche in essere che abitano il presente e di tentativi di immaginarne altre, di come le pratiche interroghino la filosofia e la danza e di come insieme possano inaugurare nuove coreografie. Coreografia qui intesa, assumendo la definizione di Alva Noë, come pratica riorganizzativa che si interroga sulla danza, mostrando come essa sia connaturata all’essere umano, facendo emergere come ci organizza e mettendo in luce ciò che è nascosto, implicito, ovvio, per vedere vedersi, per mappare il presente e ri-coreografarlo. «Filosofia e coreografia sono pratiche organizzative e riorganizzative. Sono pratiche (non attività) – metodi di ricerca – che mirano a far luce sulle modalità in cui siamo organizzati e pertanto anche sui possibili modi in cui potremmo riorganizzarci» (Noë 2015, 17-23).
Un assaggio del polline raccolto, che come pulviscolo si stacca dal corpo, è un primo rigurgito di quel nettare già in parte metabolizzato, ma che necessita però degli enzimi di tutto l’alveare per farsi concetto. Danze scodinzolanti, che oscillano come il soggetto, che sono nel punto cieco di ogni osservatore nel tentativo di vedere vedersi; un soggetto indebolito, direbbe Rovatti, che affonda nel fiore, nell’esperienza, guardando l’arnia senza perderla mai di vista, ma rinfrescandola con le ali. Una danza di ripetute oscillazioni tra prassi e teoria, una nuova cartografia dello spazio e dell’appoggio di quel nuovo salto, descritto nell’articolo introduttivo, che potrà spiccare soltanto spaccando il selciato, immergendosi nella terra. Viene in mente il gesto fenomenologico e Paci: «[S]e i fenomenologi sono coloro che sanno che tutto ciò che scrivono e insegnano è in fondo un’autobiografia, e se poi confessano apertamente questo fatto, è chiaro che si trovino ai margini della filosofia mainstream. Quest’ultima non può accogliere il gesto fenomenologico, il quale non si configura tanto come una metodica universale quanto come un atteggiamento. Una possibile via d’uscita è data – suggerisco – dal rendersi conto che non si potrà mai fornire una giustificazione definitiva dell’oscillazione tra epistemologia e ontologia. Questa oscillazione va in un certo senso abitata, ed esibita di volta in volta, quando si costruisce un discorso filosofico, senza togliere nulla alla contingenza che la intacca costitutivamente» (Leghissa 2021, 85-95).Un gesto che possa costruire carte e non calchi, mappe che non sono il territorio, sempre di nuovo, Immer Wieder, sempre nuove: «Il selciato sul quale cammino…La durezza, la compattezza, l’impenetrabilità delle cose. Per un filosofo, per l’uomo che vive nel filosofo, tutto questo può diventare enigmatico, diventa enigmatico» (Paci 2021, 42).
Immaginate che i voli di ritorno all’arnia somiglino a zig zag di intuizioni e ancoraggi, di composizioni istantanee di pensiero che intravedono un concetto, di accostamenti e allontanamenti, forse concatenamenti pensando a Deleuze; immaginatevi un’ape operaia che esausta si segga su un filo d’erba, sporca di polline, stordita dal viaggio, allora inizierà ad attingere al polline per risollevarsi e a rendersi conto del nettare piano piano; ripercorrendo il suo zigzagare individuerà i nodi delle varie linee tracciate e comporrà un paesaggio con quei nodi. Riemersa dall’innesto con il fiore-danza percorrerà la distanza dall’arnia avendo sempre più chiaro il percorso in modo da poterlo comunicare, ma inevitabilmente oscillando, danzando un avvitamento nel tentativo di vedersi, nel desiderio di produrre un lampo che come fessura taglia il reale e apre altri mondi, disegno di una possibile coreografia. Questo disegno che si ritrova tracciato nelle restituzioni successive alla pratica artistica Dance Well e che si possono leggere in quegli scritti che abbiamo nominato bollettini, nel senso che il temine assume di “comunicazioni periodiche”, che nel corso dell’esperienza ho accompagnato al disegno di piante che di volta in volta seguiamo come modello di soluzioni di esistenza, riprendendo un’espressione di Gilles Clément, per designare le dinamiche di scambio del Terzo paesaggio. Un Terzo paesaggio che è anche descrizione che Alessandro Pontremoli utilizza per definire una certa area della danza contemporanea. «Il nuovo panorama è costituito da tre paesaggi estetici: quello ‘museale’, che conserva il balletto classico e il suo repertorio; quello di una ‘terra di mezzo’, in cui si mantiene il paradigma del moderno con forme e linguaggi riconoscibili; e infine un ‘terzo paesaggio’, una riserva ai margini della cultura mainstream, in cui artisti diversi, esiliati, trascurati dal sistema, sperimentano e producono danza fuori dagli schemi» (Pontremoli 2020).
Spazio delle possibili ibridazioni tra discipline, spazio – come analizza Dal Sasso – di nuove varianti e terreno in cui germoglia «l’arte che dopo il concettualismo è l’arte che ritorna all’ars, alla operosità umana. È arte che esprime il suo profondo legame con i progetti e le pratiche. È arte che rivela talune delle sue regole dando risalto più al fare che non alle apparenze, ai processi anziché le forme, alla creatività piuttosto che agli aspetti visivi delle opere» (Dal Sasso 2020, 323-324). Un concetto quello di “Terzo paesaggio” che Bevilacqua utilizza per definire lo spazio delle pratiche di filosofia: «Probabilmente l’idea di una cartografia filosofica sembra sbagliare strada rispetto alla tradizionale forma di scrittura che la filosofia ha considerato opportuna per esprimersi. E al tempo stesso apparirà strano alla cartografia come tecnica geografica che si possano rappresentare di paesaggi e territori concettuali. Qualcuno forse dirà che queste discipline sono straniere una per l’altra. A mio avviso tuttavia proprio in queste considerazioni ci sono i riferimenti teorici e pratici che ci indicano che stiamo ricercando qualcosa di infinitamente prezioso forse un terzo paesaggio, eterogeneo e caotico, che tenga presente la diversità delle pratiche dei contesti e dei soggetti» (Bevilacqua 2020). Infine un Terzo paesaggio abitato da concetti mobili, sfumati, smarginati e non univocamente definiti come creatività, performance, pratica, improvvisazione, ambiente, drammaturgia e autorialità. «Questo affiorare del terzo paesaggio insegna, ad un ricercatore o una ricercatrice, ad andare a riguardare il paesaggio, anche quello abbandonato, o apparentemente non adatto. Insegna che la collettività della ricerca è data da un impegno politico inteso come pratica dell’accoglienza di saperi altri, dotati di linguaggi differenti e metodologie che sembrano inizialmente improprie secondo uno standard regolamentato. Il terzo paesaggio indica una possibile strada etica di ricerca in cui la sapienza proviene da un dialogo, anche accidentale e inesperto, con ciò che ci sta intorno» (Bevilacqua 2019).
La pratica filosofica da cui prendo ispirazione è il canone della Philosophy for Children/Community. Come per la p4c, anche la pratica di movimento di Dance Well (https://www.lavanderiaavapore.eu/events/dance-well-dancers-2/) si origina e interroga una condizione, quella del Parkinson; come per il termine children diLipman, che definisce ogni soggetto in una condizione di possibile apprendimento, essa diventa possibilità di ripensamento delle pratiche non in un’ottica terapeutica o assistenzialistica, ma di autodeterminazione e trasformazione di una comunità che si fa estesa, aperta: una comunità mobile e mai fissa, nomade nel suo sperimentare e nel mettersi in gioco attraverso il coinvolgimento libero di soggetti che danzano. La comunità è un ambiente in cui ogni partecipante si fa carico ed è responsabile del proprio e altrui sviluppo attraverso l’interazione e la condivisione. L’impegno reciproco al dialogo e all’opportunità di sperimentare l’ibridazione tra la pratica di danza e la pratica di filosofia, per generare una ulteriore variante, accompagna l’esperienza torinese del progetto dal 2019. Le istruzioni si trasformano in immagini attraverso metafore che informano il soggetto per generare la danza. La parola si fa corpo e il corpo si fa parola in un senso che emerge nei dialoghi, nella pratica di danza e nelle restituzioni scritte (bollettini). Si fa esperienza di una comunità di eguali come quella descritta da Rancière, ovvero di soggetti che, nella ripetizione dello stesso gesto, mostrano la differenza, nuove possibilità e nuove creazioni, soggetti la cui patologia mostra altri modi, altre possibilità, e ci mostra come la differenza sia sottesa a ognuno. Questo è un luogo in cui la condizione del Parkinson è prima di tutto “nuovo inizio”, possibilità di pensare e danzare altrimenti, riprendendo la felice espressione di S. Vaccaro (2011). Le tracce lasciate sulle agende durante il dialogo e le restituzioni sono frutto di ulteriore pratica di riflessione e scrittura, che ri-manipola il corpo-pensiero comune dandone conto come pluralità di voci diventando nuovo pretesto e nuovo materiale per l’indagine sul corpo attraverso una nuova ri-creazione concettuale preparatoria alla pratica successiva. La pratica stessa si fa dunque pretesto, gli scritti subiscono una trasformazione, dove le immagini prendono il posto delle parole e viceversa, attraverso un tono che chiamo poetico; poiché la prosa lascia il posto a lampi di componimenti, tentano la comunicazione della creazione comunitaria restituendo la coralità delle voci e dei corpi che contribuiscono alla creazione dei concetti; l’esperienza appena compiuta riflette su se stessa per riorganizzarsi. L’idea del bollettino è maturata subito dopo il primo incontro cercando di capire quale fosse il modo più fecondo per non sovrapporre informazioni, ma per far dialogare le due pratiche.
Attraverso il dialogo, che restituisce la temperatura dell’esperienza e lascia traccia nella memoria favorendo l’incorporazione dei concetti, il permanere degli stati di danza e le tracce dei bollettini, la comunità ha contribuito e contribuisce tuttora alla ricerca, una ricerca che non si è mai interrotta. I pensieri e i gesti agiscono nelle vite di tutti arricchendo tutta la comunità, le riflessioni e i bollettini accompagnano le nostre vite mantenendo un legame, una presenza nell’assenza. L’invisibile prova a farsi visibile, con un segno.
Se la parola scritta e il segno sono un’interruzione nel processo che tentano di dare conto del processo stesso, esprimono una volontà di fermarsi, un primo approdo, una prima raccolta, sono allo stesso tempo una possibilità di inciampare, di intravedere una linea di fuga, un altro possibile scarto. Pensando con Benjamin si potrebbe affermare che la parola e il segno sono quello che la danza non può esprimere, il “di più”. Sono lo scarto, il resto del qui e ora ma anche il non visto, ciò che sta tra le pieghe di quel corpo, l’inagito. wag
Se, come da me appuntato in occasione di un intervento seminariale di Giovanni Leghissa, «la filosofia è il filosofo che scrive e noi che lo leggiamo. E cosa cerchiamo in quel libro? Le zone d’ombra, l’impensato»; parafrasando si potrebbe sostenere che la coreografia è il danzatore che danza. E cosa cerchiamo osservandolo?
La filosofia, la ricerca, l’elaborazione dei contenuti e la volontà di approfondimento ha reso il “gruppo formatori” cosciente dei sentieri che potevamo continuare a percorrere, così da sviluppare gesti, movimenti e riflessioni torcendo lo sguardo su ciò che stavamo facendo, intercettando la possibilità e il desiderio di riuscire ad arrivare alla trasmissione di pratiche specifiche generate dalla profonda osservazione del processo di creazione, guidati dall’osservazione della natura e delle piante in primis. Pratiche che potessero portare il corpo e il pensiero all’essenza dell’ascolto, dell’armonia, dello sguardo, della comunicazione, della vitalità, dell’attenzione e del respiro, per generare una danza consapevole come cura del bene comune. Divenire trasmettitori di buone pratiche, imparando a osservare e rinominare il mondo che ci circonda rivedendo e vedendo esseri con cui conviviamo e che ai nostri occhi si erano tramutati in scontati e invisibili, rinominando relazioni e ri-mappando il territorio. waggle dances
Questo “altro”, questi esseri, hanno spinto l’indagine a osare concetti formulati nelle filosofie, che qui chiamo genericamente postumaniste, come le teorie di T. Morton e D. Haraway. Ci interroghiamo sul concetto di natura e sull’osservazione di assemblaggi di corpi, facendo sì che le creazioni concettuali spingano la ricerca sull’essenza delle nostre percezioni, sullo statuto ontologico del soggetto, sul pensiero di una metafisica che il mondo vegetale ci indica. waggle dances
L’esperienza della scrittura, del corpo che danza, dell’immissione delle parole della filosofia anche durante la pratica corporea, dei concetti del filosofo con cui abbiamo rintracciato correlazioni con le nostre ricreazioni e riflessioni e con cui entriamo in dialogo spingono il pensare insieme come sciame. I concetti della filosofia provano a danzare, s’innestano chiamati dal gesto che li raccoglie in una simultaneità di rimbalzi; il corpo e la comunità dialogante richiamano la connessione con un concetto della tradizione che viene rivitalizzato e ri-creato, facendo riferimento qui alla creazione di concetti di Deleuze e Guattari, una creazione che non avviene ex nihilo, ma che, immergendosi nel pensiero del pensatore e nel concetto, ne trova altre condensazioni. Una co-creazione di contenuti che è segno e possibilità di una co-costruzione della pratica, di una drammaturgia mappata dalla traccia delle scritture e di una coreografia nelle quali l’autorialità è diffusa. waggle dances
La capacità trasformativa del fare filosofia si esplica nell’evoluzione delle informazioni dei danzatori alla comunità, nel cambiamento del loro linguaggio e di un pensare filosofico come attitudine, atteggiamento, postura; le scritture diventano segno visibile di questa trasformazione, re-informando la comunità inscrivendone tracce nel corpo che danzerà. Esperienza di una comunità estetica di indagine, autocorrettiva, che proietta con la consapevolezza della propria fallibilità il cammino della ricerca sin dove essa conduce, in un tempo che può metaforicamente definirsi vegetale, altro, lungo, dilatato, il tempo del processo. waggle dances
Le pratiche di danza e la pratica di filosofia sono accomunate dal desiderio di documentare, trattenere il momento del fare, dell’oralità del pensare e dello stato di danza, che sembra non lascino resti e che, tuttavia, trasformano sia il corpo che il pensiero. Le riflessioni su questi segni hanno spinto la mia indagine all’incontro con la filosofia della traccia di B. Morizot, dove l’impronta dell’animale, per gli umani preistorici e cacciatori, indica la possibile origine del pensiero astratto come exattamento di questo immaginare e pensare insieme l’invisibile. «Seguire una pista consiste dunque nel ricostruire ed estrapolare una storia dell’attività animale decisamente più ricca di quello che mostrano le sole tracce. Accedere all’invisibile attraverso le poche tracce visibili lasciate dall’invisibile, sistemare il segno nel suo intimo e metterlo in serie in costellazione critica con altri segni; la braccata esige l’indagine prima di aver ottenuto abbastanza segni per dare una conferma. Si devono studiare le tracce con attenzione e riflettere prima di prendere una decisione» (Morizot 2020, 213). Si tratta di inforestarsi, di sostare nel movimento della mano dove le scritture col tempo si sono trasformate in disegno, nella danza della mano, in quella corrispondenza che Ingold definisce come movimento in tempo reale e senziente, quando la parola riesce a liquefarsi senza interrompere, o meglio, quando l’interruzione si fa fluida e il corpo aderisce al concetto, al discorso, al logos. Una danza dell’animacy e non più dell’agency, una danza che avviene tra le parti (Ingold 2019, 166-182) dove mi faccio trasduttore per farmi attraversare dalla pratica e tradurla, per reinterrogarla spinta dal richiamo ad abitare la propria pelle come nel momento della pratica di movimento. La parola si fa linea, si assottiglia senza mai sparire e l’oscillare in questo innesto di pratiche mi fa comprendere che il libero gioco tra pratica di danza e pratica di filosofia potrebbero essere lo spazio di quello che P. Montani definisce concetto allo stato nascente, quel punto in cui il «lavoro dell’immaginazione perlustra il sensibile tenendosi costantemente in contatto con l’istanza logica di cui è responsabile l’intelletto»; lo spazio di una semantica fondamentale da cui corpo e pensiero entrambe provengono senza ordine di priorità (Montani 2022), esperienza di quella struttura dell’iscrivibiltà contemporanea all’esperienza «poiché nello stesso istante in cui percepisco ritengo una traccia e da questa ritenzione nascono tanto la possibilità del lavoro del concetto, quanto l’attualità della percezione stessa» (Leghissa 2022, 114-115).
Allora forse qui, in quella linea del disegno si rende manifesto il pensare filosoficamente e la corporeità, lì le discipline s’innestano per mettere in comune i rispettivi saperi, dove chi fa filosofia trova un linguaggio sulla soglia, non solo metaforico e poetico, e si reimmerge nel corpo attraverso le pratiche di danza che richiamano il discorso e le immagini concettuali; dove chi coreografa la danza si appropria di un discorso che tradurrà in gesto con l’esperienza e gli strumenti della propria disciplina.
Dalle tracce lasciate nel tempo, disegni di una mappa già percorsa, emerge una drammaturgia che conduce la costruzione delle pratiche verso un possibile altrove e che fa avanzare la tensione e la narrazione. Le pratiche, hanno bisogno di definizione, di chiarire procedure e ciò che ci interroga. Qui sta la necessità di torcere lo sguardo al lavoro della drammaturgia, delle scritture e dei dialoghi filosofici collettivi. La drammaturgia collettiva come discorso che sottende e che restituisce un ordine di senso, documentazione che diventa opera e opera (Dal Sasso 2020, 323-324), producendo innovazioni del canone. Per innovare devo avere però un punto di partenza e considerare la filosofia e la danza come tecniche artigianali, devo conoscere la materia come l’artigiano conosce la creta e il tornio. Come sostiene F. Saquarcini la parola ‘pratica’ è la pratica stessa, è di difficile definizione, bisognerebbe rimanere perennemente in un regime scopico, ma senza possibilità di afferrarne il concetto e allora non resta che stare nell’oscillazione col regime topico, danzare una waggle dance, dove il bersaglio e io siamo la stessa cosa e dove rimetto in moto ciò che mi ha portato davanti a esso; un pensare da dentro, un essere coinvolti con i propri strumenti, saperi e corpi. Pratiche che nella preparazione si interrogano su se stesse continuamente, sulle proprie modalità più che le finalità; sullo spazio della creatività umana, dell’improvvisazione e della ripetizione in un processo che sonda l’essenza dell’essere umano, i suoi rapporti con gli esseri viventi non umani, con le cose. Pratiche relazionali, che stanno sempre nel tra, nello spazio bianco, sempre in allerta, sulla soglia, in disequilibrio, nel momento del salto, né prima né dopo, oscillando.
Pratica come atto performativo che mettono in questione il significato mobile e smarginato del concetto di performance che, in questo Terzo paesaggio della danza, si sporge a indicare i processi più che i prodotti e indaga la natura e possibilità degli spazi di improvvisazione e creazione che si aprono in essa. Sul concetto di “improvvisazione” che ha guidato le mie riflessioni sulle pratiche in questo articolo, si vedano gli studi di A. Bertinetto. In particolare ringrazio per i dialoghi intercorsi Michela Bloisi che, nella sua tesi Esperienza estetica: una prospettica a partire dalla Contact Improvisation, «abbracciando la concezione pragmatista deweyana dell’arte, articola una prospettiva dell’esperienza estetica come modalità dell’esperienza ordinaria, attraverso le lenti performative della Contact Improvisation: una pratica di danza improvvisata collettiva nata negli anni Settanta a partire da Steve Paxton. Portando in scena movimenti quotidiani, nel contatto tra i corpi, la Contact Improvisation si rivela paradigmatica per descrivere l’esperienza umana: quella di una mente somatica, situata, multisensoriale ed ecologica, costitutivamente immersa in un ambiente. Un’esperienza che, nella sua contingenza, contiene il germe dell’estetico, che può dischiudersi nella percezione creativa dell'inatteso. I due termini che danno nome alla pratica, ‘Contact’ e ‘Improvisation’, saranno utili per sviluppare un doppio percorso che permetterà di approfondire, da un lato, le teorie della percezione, della mente e della sensorialità post-cognitiviste; dall’altro, l’improvvisazione come condizione della creatività, e pertanto come apertura alla possibilità di cogliere l’estetico nell'ordinario». Come l’imprevisto che incontro nello spazio di libertà del processo può emergere, essere accolto e innovare per riorganizzare la pratica stessa? Ri-coreografare ancora e ancora corpi e pensieri per ricominciare sempre di nuovo a danzare l’esistente.
Gaia Giovine Proietti
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