Il cosiddetto “principio dell'handicap”, elaborato per la prima volta dal biologo Amotz Zahavi nasce per rendere coerenti con la teoria dell'evoluzione alcuni caratteri delle specie viventi che sembrano del tutto ingiustificati, ovvero non presentano alcun vantaggio evolutivo per la specie che li sviluppa. L'esempio classico è quello della coda del pavone: essa è piumata, visibile, ma anche ingombrante, tale da rendere difficile sia lo spostamento che la mimetizzazione.
I pavoni con la coda più grande, ingombrante e difficile da gestire, tuttavia, a dispetto dell'impraticità, risultano spesso anche i più apprezzati dagli esemplari femmina della stessa specie. La spiegazione addotta da Zahavi si basa sul fatto che la coda rappresenta un “segnale onesto”, ovvero che proprio le difficoltà aggiuntive poste alla sopravvivenza del pavone superdotato “dicono” alla femmina che egli dispone di buona salute, e che è tanto forte, veloce e intelligente da compensare la scomodità della coda. Nel caso dello stotting delle gazzelle – un tipo di corsa lenta, nella quale si compiono tuttavia salti notevoli – l'handicap serve da segnale ai predatori: ad essere cacciate saranno le gazzelle che saltano meno in alto, dimostrando una capacità di fuga inferiore. Fortunatamente, tali comportamenti appartenenti al regno animale non sono propri dell'uomo, che attraverso le forme superiori del pensiero razionale ha superato la necessità di impelagarsi in comportamenti improduttivi, fastidiosi, dolorosi e rischiosi solo per dimostrare qualcosa (che in genere è il proprio valore riproduttivo). Oppure no? In effetti, forse, estendendo il principio di handicap all'analisi dei comportamenti umani, potremmo trovare che esso è tutt'altro che fuori luogo, e anzi si applica egregiamente in tutta una serie di casi che trovano difficilmente una spiegazione altrimenti.
Si potrebbe argomentare che il principio di handicap è molto vicino al concetto di “lusso”. I vestiti di lusso, le auto di lusso, i palazzi di lusso, le cose di lusso hanno costi esorbitanti e spesso una efficienza minima (basti pensare alla immane scomodità di guidare un SUV in città). Anzi, spesso la loro significatività sta proprio nella immane quantità di denaro speso per procurarseli, denaro che parla di altro denaro, che ci rassicura sul fatto che quella persona alla guida del SUV non ha né avrà problemi economici. Oltre al concetto di lusso, si può riportare il principio di handicap a una serie di accessori e comportamenti femminili. Forse che camminare su un paio di tacchi è più facile, più comodo che farne a meno? Il principio di handicap applicato alla moda femminile potrebbe forse fornire più d'una elucidazione. È interessante notare anche, a tal proposito, che la moda maschile ha fatto a sua volta la sua comparsa (con i suoi spiacevoli e scomodi effetti) proprio nel momento in cui la scelta del partner smetteva di dipendere esclusivamente dall'uomo – secondo la regola tradizionalmente invalsa nelle culture patriarcali – e cominciava a riguardare anche l'universo femminile.
Ma non dobbiamo limitarci a guardare lontano da noi stessi, per rintracciare il lavorìo incessante del principio di handicap. Esso, lungi dal presentarsi solo nei luoghi più riparati e lontani dalla razionalità, come un riflesso vestigiale dell'evoluzione che ci riguarda solo in quanto residuo istintuale, pre-razionale, può essere ritrovato nell'attività squisitamente accademica della stesura di bibliografie ipertrofiche impressionanti, sovradimensionate, faticosissime a mettersi insieme. Oppure nell'ostentazione di conoscenze enciclopediche. O ancora nella proliferazione di cautele metodiche meticolose fino all'ossessione compulsiva. La nostra risposta a tali bizzarrie dell'intelletto, che sconfinano talvolta nel vizio vero e proprio, è quella di considerarli segni di intelligenza. Ma stiano in guardia gli studiosi, soprattutto quelli giovani e inesperti, quando valutano se imitare o meno questi stili di scrittura e di pensiero: a volte l'intelligenza e il genio si annuncia tramite tali bizzarrie proprio perché occorre intelligenza e quasi genio per produrre qualcosa di sensato o valevole nonostante tali difetti.
Dopotutto, se fare filosofia può dirsi talvolta un lusso, ci piace pensare che oltre all'immenso piacere di leggere, scrivere, ascoltare e dibattere di idee e sistemi ci sia qualcosa di più profondamente necessario che si fa, facendo della filosofia, e a volte nonostante il fatto di stare facendo della filosofia. (Ma se potessi scriverlo in otto parole in coda a questo intervento a cosa servirebbero le istituzioni?)
di Lorenzo Palombini