The Sexual Politics of Meat: A Feminist-Vegetarian Critical Theory è stato pubblicato per la prima volta nel 1990 negli Stati Uniti, ma la connessione che opera tra etica vegetariana e femminismo germina nella mente di Carol J. Adams già dal 1974. La natura della relazione tra l’oppressione patriarcale e l’oppressione animale resta a lungo una consapevolezza sfuggente per l’autrice; più di una semplice analogia eppure non ancora definita, visibile solo in trasparenza nella sessualizzazione degli animali e nell’animalizzazione delle donne. La lettura del libro Bearing the word di Margaret Homans le suggerisce nel 1987 la connessione mancante, il referente assente: un concetto che si origina nella linguistica ad indicare la condizione di un segno il cui referente è vuoto, indefinito o mancante. Finalmente dopo oltre vent’anni di studi, confronti e raccolta di materiale questa intuizione prende forma in una complessa e ben documentata teoria che si svolge nelle tre parti fondamentali del libro.
In Italia una prima traduzione di alcuni capitoli è stata proposta dalla rivista di critica antispecista “Liberazioni”, infine il libro integrale e completo di diverse prefazioni è stato tradotto e pubblicato dalla casa editrice VandA col titolo Carne da macello. La politica sessuale della carne.
Carne da macello è soprattutto un libro che riflette sul linguaggio e sui discorsi che costituiscono le relazioni del potere dell’uomo sulla donna e dell’umano sull’animale, collocandosi a pieno titolo nell’area dell’ecofemminismo vegetariano.
Gli argomenti patriarcali della carne
Nella prima parte del testo l’autrice illustra i vari aspetti di quella che definisce “la politica sessuale della carne”, mostrando innanzitutto come il consumo di carne sia parte fondamentale della costruzione dell’identità di genere maschile eteronormata (e cis-normata, si potrebbe aggiungere) nel mondo occidentale, attraverso la creazione del mito della virilità che si nutre contemporaneamente dei corpi animali e dei corpi femminili. «Mangiare carne misura la virilità individuale e sociale» (p. 57). La carne è l’alimento del vero uomo, pertanto la donna ne è spesso esclusa. «Quest’abitudine patriarcale si risconta ovunque» (p. 58) sia nelle civiltà che l’autrice definisce tecnologiche sia in quelle che definisce non tecnologiche, dall’Indonesia passando per l’Africa Equatoriale fino all’Europa (pp. 58-59). L’esclusione delle donne dal banchetto di carne nell’Occidente bianco è anche stata una pratica patriarcale di controllo sul corpo e sulla sessualità femminile (si veda Fobia della carne?, p. 281). Se la carne è l’alimento virile che porta forza, vigore e capacità di agire violenza, allora i vegetali come cereali, verdure, legumi e frutta sono alimenti femminili, femminilizzanti e passivi. La carne diviene simbolo del patriarcato e «gli uomini che scelgono di non mangiare carne ripudiano uno dei loro privilegi maschili» (p. 76).
Nell’Occidente razzista e coloniale la carne è l’alimento del vero uomo, e dunque dell’uomo bianco. Nel capitolo La politica razziale della carne (p. 62) l’autrice riassume e mostra chiaramente l’intersezione tra discorso carneo e oppressione colonialista e razzista. Dal momento che «la gerarchia delle proteine della carne rinforza la gerarchia della razza, della classe e del sesso» (p. 63), l’idea che la carne sia la migliore e insostituibile fonte di proteine perpetra un discorso alimentare razzista, non solo misogino[1].
Lo stupro degli animali, la macellazione delle donne.
Il secondo fondamentale nesso tra cultura carnea e patriarcale viene esplicato nel secondo capitolo, ed è l’intuizione forse più importante nel lavoro di Carol J. Adams. Come sostiene l’autrice, «attraverso la macellazione gli animali diventano referenti assenti» (p. 81) in tre modi: vengono fisicamente uccisi, i pezzi del loro corpo vengono rinominati per poter essere consumati, e infine diventano metafore per descrivere esperienze umane di violenza estrema. Nel nostro orizzonte culturale il mangiar carne è possibile in quanto l’animale è linguisticamente celato dai termini che trasfigurano in pietanze le parti del suo corpo fatto a pezzi. Dispositivo certamente vero per i grandi mammiferi (ovini, bovini e suini) trasformati dal coltello del macellaio in filetti, pancetta, prosciutto, arrosto, bistecche e polpettoni, ma quasi inesistente per gli animali che suscitano minore empatia da parte dell’umano: insetti, pesci e uccelli. «La somiglianza tra un uccello morto e uno vivo sfida la struttura del referente assente, perché il corpo dell’uccello vivo continua ad essere un referente anche da morto. Non è assente neanche quando viene consumato» (p. 315).
Le stesse vittime di violenza e stupro, e così molti dei discorsi femministi, usano il referente assente animale come paragone per descrivere la propria esperienza di estrema vulnerabilità e violenza subita: «sentirsi come un pezzo di carne significa essere trattati come un oggetto inerte mentre si è (o si era) un essere vivente senziente» (p. 105). Adams decide di usare consapevolmente la donna come referente assente nel descrivere “lo stupro degli animali” proprio per suscitare una riflessione in quella parte del mondo femminista che si appropria del referente assente animale senza però riconoscere ed includere nella propria lotta l’oppressione animale. Per Adams il femminismo è necessariamente vegetariano[2].
Il corpo delle donne viene usato come referente assente metaforico anche nella sessualizzazione degli animali. La sessualizzazione degli animali – o dei loro pezzi smembrati – è profondamente radicata nell’immaginario comune e commerciale, ed è evidente soprattutto attraverso il linguaggio della pubblicità. La sessualizzazione dell’immagine femminile è una delle caratteristiche iconiche dell’oppressione patriarcale e viene sfruttata dall’industria del marketing in ogni contesto possibile, dalla vendita di vernici alla promozione di spazzolini da denti. Eppure nell’ambito del consumo di carne – sempre rivolto al pubblico maschile – il linguaggio simbolico cambia registro. A questo proposito Carol J. Adams ha raccolto nei decenni una mole impressionante di materiale da tutto il mondo, confluito nell’opera The Pornography of Meat. L’ormai iconica Ursula Hamdress è sconcertante nella sua esplicitezza: un maiale morto (o sedato?) vestito come una pin-up e messo in una grottesca posa seducente su una rivista che non a caso si chiama Play Boar. Tra le diverse immagini raccolte appare immediatamente come nella commercializzazione della carne la figura femminile non sia semplicemente seducente e sessualizzata, come in altri ambiti, ma rimandi chiaramente ad un immaginario di stupro e violenza, fino ad una vera e propria macellazione. Lo stesso immaginario che si appropria dei corpi animali senza consenso, anzi che li rappresenta disponibili e felici di essere consumati, rappresenta allo stesso modo anche la donna/animale che ne promuove i prodotti: un oggetto che non necessita di consenso e invita al possesso totale. La sovrapposizione dei due referenti assenti collega la violenza sulle donne e quella sugli animali, normalizzandole e legittimandole, rendendole a tutti gli effetti strutturali e invisibili. I corpi femminili e quelli animali vengono descritti come corpi passivi, disponibili, consumabili dall’appetito maschile.
Il testo evolve poi in un’analisi accurata del dominio patriarcale sul linguaggio utilizzato per mascherare la violenza e la reificazione del referente assente, intersecando intuizioni femministe e un’analisi linguistica che resta fruibile soprattutto nella critica all’antropocentrismo e al maschio-centrismo, ma che purtroppo è in parte lost in translation passando dall’inglese all’italiano. Sicuramente importante in questa sezione è la connessione tra la pratica femminista e la pratica vegetariana/antispecista, impegnate ad esplicitare la violenza linguistica per opporvi una descrizione letterale (ad esempio: mangiare cadaveri) spogliata dal significato simbolico del referente assente. «Così come le femministe dichiarano che “lo stupro è violenza, non sesso” i vegetariani desiderano nominare la violenza del mangiar carne» (p. 130).
Proprio in questa sezione viene affrontato un termine cruciale per contestualizzare l’opera di Carol J. Adams, ovvero le proteine femminilizzate (p. 146). Per quanto nel testo l’autrice parli di vegetarianesimo, è lei in primis a dirsi vegana e ad includere nella sua critica anche lo sfruttamento animale finalizzato a produrre latte e uova. Proprio questi prodotti vengono definiti come proteine femminilizzate, in quanto prodotti da corpi femminili. L’autrice rileva inoltre come anche nella produzione di carne «noi ci sosteniamo in larga misura con carne femminile» (p. 135) e «mangiamo continuamente le madri […] proclamiamo e rinforziamo il trionfo del dominio maschile mangiando pezzi di carne identificati al femminile» (p. 325).
In questa denominazione Adams rende esplicita una visione comune nel femminismo della seconda ondata da cui si origina il suo pensiero, ovvero la sovrapposizione del sesso e del genere. È un punto problematico perché rinforza una connessione che sta alle fondamenta stesse del sistema etero-cis-patriarcale, ovvero quella tra il corpo femminile e la capacità riproduttiva, tra la donna e l’utero. Connessione che non solo ci ingabbia – in quanto donne – in un destino riproduttivo, ma che esclude dal genere femminile le persone che non hanno una capacità riproduttiva di questo tipo, ad esempio tutte le persone trans e intersex che si identificano col genere femminile. Questo tema rappresenta uno dei fronti più caldi dell’attuale dibattito tra femminismo e transfemminismo, e risulta quindi di particolare interesse analizzare in prospettiva il libro di Adams. Sarebbe interessante anche interrogarsi sulla validità del costrutto culturale umano del genere applicato al mondo animale, un interrogativo che apre scenari che vanno ben oltre questa analisi.
Dal ventre di Zeus
La seconda parte del libro si concentra su un’antologia storico-letteraria che tratteggia una profonda connessione tra femminismo e vegetarianesimo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti partendo dal 1790 ad oggi. Un’analisi storica e letteraria che si interroga sulle caratteristiche del linguaggio letterario vegetariano, la “parola vegetariana” che sfida sia la politica sessuale della carne sia il ruolo della donna. Adams parte dalla letteratura inglese dell’Ottocento, dai circoli del vegetarianesimo romantico e dal movimento inglese per il suffragio delle donne (da Mary Shelley con il suo Frankenstein, la cui creatura era vegetariana, alla mitopoiesi di un mondo arcaico, un’età dell’oro vegetariana e matriarcale), analizzando poi i testi prodotti dopo la Grande Guerra, dove appare fortemente centrato il tema del pacifismo e del rifiuto della guerra. Certamente un corpus di testi notevoli e tradizionalmente mai considerati nel loro complesso come parte di una letteratura di ribellione nei confronti dell’alimentazione carnea e dell’oppressione animale, oltre che femminile. Purtroppo resta assente da questa antologia una delle voci femministe più potenti, la comunarda e anarchica Louise Michel, il cui pensiero circa la comune origine dell’oppressione e della violenza su animali e umani – in particolar modo sulle donne – è pionieristico nell’Europa della seconda metà dell’Ottocento. [3]
Mangia riso e abbi fede nelle donne
Nella terza parte del libro Adams identifica quattro fasi storiche della storia umana: la prima è stata il vegetarianismo, seguita dalla caccia, poi dall’agricoltura di sussistenza e infine nell’Occidente industriale dall’agrobusiness zootecnico – esportato attraverso il colonialismo in tutto il mondo. Queste fasi coincidono con una sempre maggiore perdita di potere da parte delle donne e una crescita di intensità da parte del patriarcato ed inoltre con la perdita della salute, perché il nostro corpo sarebbe naturalmente vegetariano (pp. 261-264). Questo “corpo vegetariano” è anche un corpo che si riappropria del controllo e della libertà su sé stesso, un corpo autodeterminato: in questo contesto il vegetarianismo diventa necessariamente una pratica femminista, dal personale al politico. L’autodeterminazione del corpo vegetariano suscita naturalmente una violenta reazione da parte della norma carnea, che opera distorsioni notevoli per sminuire, ridicolizzare e silenziare l’esperienza vegetariana.
L’autrice si spinge oltre nella sua analisi storica, analizzando specificamente le teorie di Sylvester Graham, divulgatore vegetariano ed igienista del XIX secolo piuttosto controverso per le sue idee sull’astinenza sessuale e sulla masturbazione, che influenzarono anche i fratelli Kellogs (i famosi cereali nacquero come rimedio dietetico contro la masturbazione degli adolescenti). Proprio attraverso le teorie igieniste di Graham il vegetarianismo interessò alcuni discorsi femministi per una serie di ragioni: il rifiuto della carne come riappropriazione del proprio corpo e della propria autonomia, la liberazione dalla schiavitù dei fornelli per le lunghe preparazioni di pasti di carne per il marito, e infine persino come tentativo di controllo della sessualità maschile come mezzo di protezione della donna e di controllo delle nascite. Un interessante precedente storico che dimostra l’attrattiva vegetariana in termini di autonomia, anche se francamente poco auspicabile per i suoi risvolti moraleggianti e sessuofobici.
Nell’ultimo capitolo l’autrice ci invita infine a ricostruire la storia del femminismo in un’ottica vegetariana e a sviluppare una teoria e una pratica femminista-vegetariana intersezionale contro il mondo carnivoro e patriarcale. Rinunciando al privilegio di specie dell’alimentazione carnea e dando voce alle donne che ne parlano si sfida la politica sessuale della carne ad ogni pasto, ad ogni lettura. Una call to action che definisce Carne da macello non solo come un saggio femminista sul linguaggio patriarcale che sottende la violenza comune contro animali e donne, ma come un libro militante che invita ad un’azione personale e diretta i cui mezzi siano in accordo con i fini.
Nella prefazione all’edizione per il decimo anniversario, Carol J. Adams scrive:
«Non propongo nemmeno una visione essenzialista delle donne. Non credo affatto che le donne siano per natura più protettive degli uomini o abbiano un’indole pacifista, malgrado molte fonti femministe vegetariane ne siano convinte. Io credo che chi possiede meno potere, all’interno di una cultura dominante, sia più incline a cogliere altre forme di sottomissione. Le posizioni di privilegio resistono all’autocritica, quelle di sottomissione no» (p. 34).
Una puntualizzazione necessaria perché lungo tutto il libro, e soprattutto nella scelta e nell’analisi dei testi proposti, si ritrova continuamente l’archetipo patriarcale della madre protettiva, l’associazione tra natura e femminile, l’eterno ritorno delle dicotomie binarie di maschile e femminile, natura e cultura, animale e umano. Sicuramente in questo testo non si opera una sufficiente critica dell’adesione alle norme del genere e una convincente decostruzione dei binarismi che Adams stessa identifica come base fondante della gerarchia uomo bianco / non bianco / donna / animale. Nonostante questo, Carne da macello resta una pietra miliare di necessaria lettura all’interno del discorso eco-femminista e antispecista, insieme ad altre autrici come, per esempio, Greta Gaard. Inoltre, nei trent’anni trascorsi dalla prima pubblicazione del libro, in tutto il mondo si sono sviluppate teorie e pratiche antispeciste, transfemministe decoloniali e queer che ci mostrano come sia possibile attualizzare l’opera di Carol J. Adams e ripristinare il referente assente senza aderire a nessuna forma di essenzialismo sulla natura maschile e femminile e sulla definizione del genere binario legato al sesso biologico.
di CDL Felix
.
.
.