A Tebe, sul frontone della porta d’entrata della biblioteca di Ramsès II sono presenti dei geroglifici, tradotti in greco da Diodoro di Sicilia (I secolo a.C.) come « psukhès iatreon » letteralmente « dispensario, ospedale dell’anima». La biblioteca come farmacia è un’immagine antica e trova le sue radici già nell’antico Egitto, verso il 4000 a.C, momento in cui la biblioterapia è una pratica che consiste nell'ingerire dei pezzi di papiro scritti. Sempre in Egitto, Thôt, il dio dalla testa d’ibis, portatore di conoscenza, è considerato sia come il dio della guarigione e della medicina sia come l’inventore della scrittura. Ancora nelle Diatribe di Epitteto (I-II secolo), la scuola di filosofia è luogo che gli allievi frequentano in particolare per curare - in greco « therapeutêsomenoi » - momento in cui si apprende il metodo per prendersi cura dell’animo come del corpo in modo specifico e individuale. Nel libro La littérature peut-elle soigner? pubblicato nel 2018 da Honoré Champion, Isabelle Blondiaux, psichiatra e psicoanalista di formazione medica, letteraria e filosofica, si interroga sulla lettura e la letteratura terapeutiche, intese come attività, in cerca di legittimazione scientifica, utili a migliorare le condizioni psicologiche dei pazienti.
Fin dalle prime pagine Blondiaux propone un’archeologia delle pratiche di lettura terapeutica correlate alla psicoterapia, analizzandone nel dettaglio le origini e la diffusione negli ospedali psichiatrici con la nascita della moderna psichiatria - la lettura è, ad esempio, una delle modalità privilegiate del «traitement moral» promosso in Francia da Philippe Pinel e a seguire dal suo allievo François Leuret. La panoramica storica che apre il libro, sviluppandosi nei successivi quattro capitoli, informa che la biblioterapia appare per la prima volta svincolata dalla supervisione medica negli ospedali psichiatrici all’inizio del ventesimo secolo, momento in cui « le pratiche di lettura cessano di essere una questione di trattamento morale e passano gradualmente sotto la responsabilità del personale formato per lavorare negli ospedali. In senso stretto, significa l'integrazione dei bibliotecari ospedalieri nel sistema di cura. » (trad., p.18). Pioniere della materia, Edith Kathleen Jones instaura un programma di lettura destinato ai pazienti, riattualizzando le immagini antiche della biblioteca-farmacia e del libro-medicina. All’inizio del XX secolo sono proprio i bibliotecari ospedalieri ad integrarsi attivamente all’interno del percorso di cura: si cita ad esempio Sadie Peterson Delanay (1889-1958) che sviluppa a partire dal 1924 dei gruppi di lettura per malati mentali, invalidi di guerra, alcolizzati, ecc. La biblioteca stessa diventa luogo terapeutico, in quanto spazio di accoglienza, di esperienza relazionale e di libertà rispetto alle costrizioni dell’ospedale. Il principio terapeutico della biblioterapia è quello di aiutare il paziente a ritrovare la sua voce, la fiducia in sé stesso e negli altri, a favorire il dialogo e la concentrazione, in breve ad offrire ai malati « un'avventura mentale e un rilassamento costruttivo » (trad., Darrin 1959).
Lungo tutto l’arco del Novecento e degli anni duemila, le pratiche terapeutiche legate alla letteratura si sono moltiplicate e il suo rapporto con le pratiche della biblioterapia presenta delle variazioni considerevoli: la letteratura appare “espropriata” dal campo letterario e inscritta anche in quello medico. Tre grandi approcci possono riassumere, dal punto di vista medicale, le pratiche terapeutiche della lettura: il primo è l’approccio cognitivo informativo della lettura che assimila il libro ad un puro utensile; in tale prospettiva il potere terapeutico della lettura si identifica con una tecnica di counselling che raggruppa i cosiddetti libri di self-help, libri di informazione generale sulle malattie e le rispettive cure e i manuali di auto-diagnosi e cura. Il suo metodo educativo si attua attraverso l'acquisizione di conoscenze e strategie comportamentali, di abilità necessarie per compiere gesti tecnici che richiedono apprendimento: « […] si tratta di proporre la lettura di libri incentrati su una sola difficoltà: una patologia (depressione, diabete) o una situazione di vita dolorosa (divorzio, morte) con l'idea che una volta conosciuti i dati teorici e pratici, basterà applicarli nella vita quotidiana per risolvere il problema. Come se fosse sufficiente conoscere per sapere come fare e farlo correttamente » (trad., p.38). Approccio nettamente differente nella biblio/poesia-terapia, che condivide con la psicoterapia i fini e i postulati teorici, mirando a facilitarne e migliorarne l'efficacia attraverso i testi e le figure di stile – metafore, analogie, allegorie. Questa pratica, che necessita della figura essenziale del terapeuta, si basa sulla potenza della suggestione durante la lettura e della mobilizzazione di un ricco ventaglio di emozioni che permettono il processo di identificazione con i personaggi del testo, la catarsi o liberazione delle emozioni e un miglioramento momentaneo “dell’insight”. Contribuzione importante allo sviluppo della poesia-terapia viene dall’America attraverso l’approfondimento di due punti principali: aver sottolineato la potenza della suggestione della letteratura e aver stabilito il potere terapeutico della scrittura espressiva (“expressive writing”). La poesia-terapia costituisce una forma di biblioterapia-affettiva che introduce le emozioni attraverso immagini verbali. Come sottolinea poi Lucie Guillet, citata da Blondiaux, « I principi attivi della terapia della poesia, ritmo, respiro e attività riflessiva, possono essere paragonati ai tre elementi che compongono il "fluido poetico » (trad., p.66).
Terzo approccio, unico non definito “utilitaristico” dall’autrice, è quello psicoanalitico, in grado di ripristinare una mediazione immaginaria « suscettibile di rilanciare il processo di simbolizzazione attraverso il transfert e la sua analisi » (trad., p.105). La psicoanalisi e la letteratura si prendono in prestito l’una con l’altra incessantemente, da Freud fino a Lacan che ha portato particolare attenzione alla dimensione di transfert nell’atto di lettura.
Tutti questi approcci terapeutici si associano a diverse pratiche di scrittura, « come incoraggiamento all'espressione metaforica di sé o come valutazione dell'attività di lettura » (trad., p.105), ma solamente la psicanalisi sembrerebbe, per Blondiaux, svincolarsi dall’azione di espropriazione e strumentalizzazione della letteratura. I termini di espropriazione e strumentalizzazione si riferiscono a come i due primi approcci intendano la letteratura: nel suo senso generale di insieme di “cose da leggere” senza distinguere la natura del supporto (dematerializzato o no) e come accompagnamento alle pratiche di consiglio. La psicoanalisi la impiega talvolta come “mediazione terapeutica” conferendo al libro, “aux mots parlés” (Dolto), lo statuto di oggetti transizionali. La lettura è intesa dalla psicoanalisi come possibilità di ri/appropriazione di una vita soggettiva nascosta dalle catastrofi intime personali; in particolare Jacques Lacan predilige la messa in gioco delle funzioni dialogiche, la funzione significante, la polisemia e di conseguenza l’opacità del linguaggio. Affare di incontro e di relazione, la lettura come la scrittura riguardano il desiderio; ogni lettura passa sotto il filtro del desiderio incosciente del lettore che, scrive Blondiaux: « non solo legge, ma è letto dal testo che legge, poco importa la natura della sua lettura, se di semplice intrattenimento o estetica, privata o professionale » (trad., p.91). Forte legame con i concetti fondanti della psicoanalisi, la lettura, intesa anche come godimento estetico, rileva di una comunicazione profonda “da un inconscio all’altro”. Detto altrimenti, la lettura si avvicina al sogno, « è una strada reale verso l'inconscio » che coinvolge totalmente l’essere « che coinvolge mente e corpo, coscienza razionale e moti inconsci, facoltà intellettuali ed emozioni, affetti e pulsioni » ( trad., p.91).
Lo scopo di Isabelle Blondiaux, come emerge in questi capitoli, è quello di rendere conto di una doppia vocazione medica ed esistenziale della biblioterapia e dei discorsi che la sostengono, situati al crocevia epistemologico del medico, del religioso e del filosofico. Dallo sviluppo personale, all’introspezione psicologica, come trattamento palliativo o come pratica benefica per la salute, la potenza terapeutica prestata alla letteratura si inscrive tanto alla branca tecnica della medicina, la terapeutica, quanto al registro filosofico-religioso del terapeutico che trova le sue origini nelle pratiche antiche dell’attenzione e della cura del sé. Ma qui si pone una domanda sostanziale alla quale Blondiaux cerca di rispondere con il sostegno degli studi di sociologia della cultura di E. Illouz: qual è la linea sottile tra le pratiche terapeutiche intese come cura, sostegno alla ricerca di un’indipendenza emotiva, di un percorso conoscitivo di sé e degli altri, infine di un appoggio alla costruzione di una rete relazionale, rispetto ad un discorso terapeutico finalizzato alla normalizzazione delle emozioni, ad una codificazione culturale normativa del linguaggio, del corpo e della famiglia ? Il “discorso terapeutico” sembra essere diventato un nuovo paradigma socio- culturale farcito di pratiche narrative che intendono istituire una “cultura dell’emozione” estesa alla vita privata e a quella pubblica, proponendo dei modelli di interazione con gli altri e di autorealizzazione personale. Nel saggio Saving the Modern Soul. Therapy, Emotions and the Culture of Self-Help (2008), Illouz mostra come nel “discorso terapeutico” contemporaneo - in cui le pratiche della lettura sono interamente inserite - emergano i caratteri della cultura capitalistica e del suo linguaggio. L’uso preponderante di emozioni e sentimenti all’interno del “discorso terapeutico” permette loro di infiltrarsi all’interno della vita sociale americana, psicologizzandola: è un processo che la sociologa chiama un "nuovo ethos sociale", quello del "capitalismo emozionale" e delle sue tecniche di gestione e coordinamento delle emozioni e delle relazioni umane. Il discorso terapeutico diventerebbe allora una forma di doxa contemporanea (Le Lay, 2020) basata su « un corpo specializzato e formalizzato di conoscenze, e anche come quadro culturale, che guida le rappresentazioni delle percezioni di sé, le concezioni degli altri, e genera specifiche pratiche emozionali » (trad., p.119). È in breve il completamento « della dominazione ideologica degli USA» (trad., p. 124), che tende a caratterizzare il nuovo ethos contemporaneo dominante nelle società occidentali attraverso la distruzione « dell'autonomia del pensiero, degli intellettuali, dei centri di elaborazione del pensiero e dell'azione sul cambiamento sociale» (trad., p.124). Tuttavia, il termine terapia è sovente associato a “trattamento, cura” ed è quindi suscettibile di essere utilizzato in ogni discorso. Bisogna dunque ritornare alla distinzione tra « le pratiche del discorso terapeutico, medico, e quelle del registro terapeutico, filosofico-religioso ». Come ricorda la studiosa Piroska Nagy esiste un’antica tradizione introspettiva in Europa che precede ampiamente la "cultura psicologica" descritta da Illouz, diffusa grossomodo attraverso i diversi strati mediatici delle nostre società, una pratica meditativa che ha a che fare con l'ascetismo cristiano e che ha potuto resistere per secoli, da Platone a Sant'Agostino, fino all'emergere del soggetto (Le Lay 2020). Riflettendo sullo statuto epistemologico della biblio/poesia-terapia, Blondiaux riconosce che il crescente successo delle pratiche di lettura terapeutica deve molto al dominio del "discorso terapeutico", ma riconducendo il termine terapia alle sue accezioni originarie conclude :« È difficile capire cosa significhi il trattamento a cui si riferisce la biblio-poesia/terapia se non lo si mette in relazione con le origini nella cultura occidentale delle pratiche che hanno contribuito ad affinare la differenziazione delle razionalità mediche e filosofiche, in particolare attraverso la nozione di "cura di sé"» (trad., p.128). Ed è proprio questa “cura di sé” delle pratiche antiche la lezione principale da tenere a mente. Esse sono curative perché considerano l’essere nel suo trasformarsi, nel suo divenire, aprendo alla temporalità e, dando accesso al senso, permettono la creazione della soggettività. Scrive Blondiaux nelle ultime pagine : « Esse sono etiche perché, creatrici di soggettività, aprono o riaprono alla vita dello spirito. Aprendo alla vita dello spirito, anche se non ci liberano dalla nostra condizione mortale, esse rendono possibile una vita sulla quale la porzione di tempo che definisce il nostro destino, il tempo cronologico, non ha presa e che è la durata profonda della relazione e della vita umana, che è potenzialità creativa» (trad., p.179).
Il saggio di Isabelle Blondiaux, elaborato a partire da una forte conoscenza della psicoanalisi, della psicoterapia e della filosofia, fornisce una discussione dell'epistemologia delle pratiche di lettura terapeutica. La sua qualità principale è quella di analizzare la ricaduta nel reale, con i suoi aspetti terapeutici ed estetici, delle pratiche biblioterapiche. Il saggio offre un punto di vista singolare e rilevante su un approccio "pragmatico" alla letteratura: « l'archeologia delle sorgenti cognitive, ideologiche e socioculturali di queste pratiche evidenzia la loro innegabile inclusione nella nebulosa dello sviluppo personale sottolineando i rischi di manipolazione ideologica, ma ci invita anche a collocarle in un'antica tradizione di lettura come ascesi e confessio (autoesame), costitutivo dell'avvento del soggetto moderno » (trad., Le Lay 2020). Attraverso la lettura incontriamo l’altro, nell’incertezza dell’incontro intessiamo reti relazionali, aprendo un libro ci addentriamo in un percorso di trasformazione ed esplorazione spesso dato dal caso, che permette al nostro essere di avvenire. Per concludere con le parole di Blondiaux : « Le pratiche, letterarie, mediche o altro, riguardano gli esseri umani viventi. Si rivolgono a coloro che esistono. Ma ex-sistere ("sistere ex") è essere fuori di sé, fuori dal proprio essere. Questo non significa essere in una quarta dimensione, o "lasciarsi andare", ma essere tesi verso la relazione con l'altro, essere aperti alla possibilità dell'incontro e di essere afferrati dall'altro, allo sconvolgimento dell'essere ». (trad., p.180).
di Francesca Quey
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