La realtà è dura, si dice. Non è una questione di “visione pessimistica del mondo”, come si potrebbe pensare di primo acchito. Piuttosto, è la semplice ‒ quasi ovvia ‒ constatazione che il nostro incontro con la realtà è sempre anche uno “scontro”, un impatto con qualcosa che ci precede e ci resiste. Metaforicamente, uno scontro con qualcosa a cui non importa nulla della nostra esistenza. Può essere un impatto traumatico o gioioso, ma si tratta pur sempre di un impatto. Ora, l'ontologia ha precisamente il compito di descrivere il reale, ciò che c'è, senza ri(con)durre la durezza del reale a elementi a esso estranei.
Bisogna ammetterlo: purtroppo non abbiamo alcuna priorità ontologica sugli altri enti che popolano il mondo. Il fatto che possiamo parlarne ‒ cosa che non può fare, per esempio, una sedia ‒ non significa che l'esistenza degli oggetti dipenda dal nostro pensiero. Tuttavia, il pensiero occidentale nel corso della propria storia ha messo a punto una grande varietà di strategie per attenuare, se non addirittura negare, tale impatto con la durezza del reale, con risultati non sempre felici. Tant'è che, come quasi universalmente riconosciuto, il Novecento ‒ anche sotto la spinta delle immani tragedie di cui è stato al tempo stesso protagonista e spettatore ‒ si è trovato come costretto a rimettere in questione i pilastri dell'ontologia classica e moderna. Ciononostante, tale crisi ha dato avvio, per così dire, a una grande “rinascita” dell'ontologia, tanto in ambito continentale quanto analitico. In altri termini, il dibattito contemporaneo ha visto, e vede tuttora, fiorire una pluralità di prospettive incentrate sull'ontologia e sulla sua rilevanza essenziale per una descrizione della realtà che non persegua più l'obiettivo di ridurne la durezza. Così, alle ben note critiche dell'ontologia proposte ‒ solo per citare alcuni tra gli autori più noti in Europa e oltreoceano ‒ da Nietzsche, Husserl, Heidegger, Derrida, Whitehead, Russell, Carnap e Wittgenstein, è seguito un profondo ripensamento dello statuto dell'ontologia e della sua funzione all'interno del discorso filosofico contemporaneo e ‒ si spera ‒ futuro. È dunque un fatto storico che i vari approcci critici contemporanei all'ontologia abbiano, per così dire, liberato nuovi modelli teorici in grado di fornire una molteplicità di risposte alla questione fondamentale cos'è la realtà? O, più precisamente, cosa significa affermare che qualcosa esiste o può essere detto reale?
Questo numero di Philosophy Kitchen si propone di attraversare alcuni dei maggiori indirizzi del pensiero contemporaneo ‒ tanto di ispirazione analitica quanto continentale ‒ che hanno segnato in modo indelebile la riflessione occidentale attorno alla questione dello statuto dell'ontologia. Non è un caso che il numero si apra con un incisivo contributo di Maurizio Ferraris, che sintetizza qui le ragioni essenziali del Nuovo Realismo, ormai oggetto di dibattito a livello internazionale, e della propria concezione della verità come «emergenza». Pur nella molteplicità degli approcci qui presentati, il motivo conduttore che s'impone chiaramente può essere individuato nella necessità per la filosofia ‒ di oggi ma soprattutto di domani ‒ di farsi carico seriamente della realtà e della sua infinita capacità di modellare la soggettività umana attraverso la storia. Definitivamente tramontato il mito moderno del soggetto copula mundi, si apre così lo spazio per una riconsiderazione più disincantata, ma non per questo meno impegnata, del reale in tutte le sue molteplici sfaccettature.
Nella seppur sterminata letteratura critica dedicata a Edmund Husserl, il saggio di Francesca Dell'Orto, Vita e genesi del tempo. Ricerche di fenomenologia genetica e generativa, Pisa, ETS 2015, rappresenta un contributo assai rilevante per la comprensione delle tematiche fenomenologiche del tempo e della vita. Come l'Autrice nota in apertura del volume, se Husserl si è impegnato strenuamente per risolvere la complessissima questione della temporalità trascendentale - come dimostra la grande quantità di manoscritti raccolti nei volumi X e XXXIII dell'Husserliana, che coprono un arco temporale che va dal 1905 agli ultimi anni di vita del filosofo - lo stesso non si può dire della nozione di vita, la cui presenza carsica non diventa mai oggetto di interrogazione tematica, ma induce a pensare - con R. Barbaras - che la vita resti il grande concetto impensato della fenomenologia di Husserl. Eppure, è assai noto come la riflessione husserliana più matura ponga al centro le nozioni di Lebenswelt e lebendige Gegenwart, in cui la radice Leben è evidente. Dunque, l'obiettivo che Francesca Dell'Orto persegue in questo testo è ripensare il trascendentale nella sua articolazione originaria con il tempo e la vita. In questa prospettiva, la vita trascendentale è tutt'uno con la vita immanente della coscienza nel suo incessante fluire: vivere è esperire la vita, anche nel senso di "essere affetti da" essa, nel suo dispiegamento intenzionale. Da ciò consegue che, anche nelle sue manifestazioni più semplici, la vita coincide col processo della fenomenalizzazione: essa non è semplicemente un "restare in vita", ma implica sempre una dimensione di rapporto col mondo che rende possibile l'apparire come tale. In altri termini, per Husserl la vita è il «processo stabile e costante del farsi mondo, l'eterno presente vivente pre-egologico e trans-egologico che nella sua massima trascendentalità si confonde con la massima fatticità» (pp. 11-12). L'Autrice articola questa tesi di fondo lungo nove capitoli, che ricostruiscono le tappe essenziali della meditazione husserliana sul tempo, sulla vita e sulle questioni derivanti dalla loro interazione. Dopo aver messo a fuoco, nel primo capitolo, la portata dell'influenza delle teorie brentaniane dell'associazione originaria e della Proterästhese sulle prime ricerche di Husserl sul tempo, l'Autrice affronta nel secondo capitolo il tema dell'individuazione dell'io. In linea con un'indicazione di Enzo Paci, emerge in queste pagine una concezione della fenomenologia come pensiero della relazione che, come tale, non può che costituirsi come fenomenologia del tempo e dell'individuazione. Tuttavia, il processo di individuazione non dev'essere concepito come la formazione di una coscienza monoliticamente assoluta, ma come una dinamica di auto-differenziazione della coscienza da se stessa. Il terzo capitolo prende in esame una delle questioni più complesse del pensiero husserliano, ossia il rapporto tra fenomenologia e ontologia. In riferimento all'annosa quanto inevitabile questione della rottura con Heidegger, Dell'Orto - sulla scorta delle analisi di Merleau-Ponty, Beaufret e Marion - chiarisce il reciproco fraintendimento in cui sono incorsi Husserl e Heidegger: se da un lato Husserl non ha saputo riconoscere in Essere e tempo un genuino sforzo fenomenologico teso a distinguere l'essenziale scarto tra l'essere e gli enti mondani, dall'altro lato Heidegger ha sottostimato le riflessioni husserliane sulla fatticità e sulla strutturalità della genesi, che gli avrebbero probabilmente permesso di includere l'esistenza nella problematica trascendentale.
Il quarto capitolo, dopo aver ricostruito l'analisi husserliana della ritenzione, distinguendola dai vari gradi del ricordo, dalla costituzione dell'oblio e dall'associazione primaria, si focalizza sulla dimensione intersoggettiva del ricordo. Come afferma l'Autrice, «la coscienza della temporalità è un'auto-differenziazione che apre la trascendenza di un'alterità nel cuore stesso dell'immanenza. L'auto-alienazione, l'alterità che l'io diventa per se stesso già al livello della costituzione primordiale della coscienza del tempo [...], inaugura la possibilità di ogni altra forma di datità: l'alterità primaria che l'io diviene per se stesso rende insomma possibile tutti gli altri modi dell'alterità» (pp. 136-137). Sulla base di queste considerazioni, il quinto capitolo affronta il problema della protenzione, ricostruendo i passaggi che, dalle Zeitvorlesungen del 1905, hanno condotto Husserl ai Bernauer manuskripte del 1917-'18, in cui la protenzione è sempre meno il corrispettivo futuro della ritenzione e sempre più una funzione autonoma dello Zeitbewusstsein. Di particolare interesse in questo capitolo è la discussione dell'orizzonte protenzionale come orizzonte intersoggettivo: in questa prospettiva, «fondare l'intersoggettività garantendole uno statuto altrettanto originario di quello della soggettività significa assicurare un'apertura strutturale, non solo esperienziale, al riconoscimento dell'alter ego» (p. 155). La conseguenza essenziale della temporalizzazione della coscienza è dunque la configurazione del soggetto come costitutivamente aperto all'alterità.
Dopo aver analizzato, nel sesto capitolo, il rapporto tra temporalizzazione e spazializzazione della coscienza, il settimo capitolo introduce il metodo genetico come tentativo di superare le aporie del metodo statico lasciato a se stesso. Qui l'Autrice mostra lucidamente come la nozione di Unbewusst, inconscio, rappresenti lo strato ultimo della costituzione passiva della soggettività trascendentale. Husserl comprende, nel cuore delle Lezioni sulle sintesi passive, che il campo della presenza non corrisponde necessariamente al campo intenzionale dell'io, ma può restare sullo sfondo come orizzonte vuoto. Esso va concepito piuttosto come un alone di assenza che circonda qualunque coscienza affettiva e impressionale: è attraverso il ricordo o la coscienza d'immagine che l'inconscio così inteso può essere attualizzato e ricondotto all'intenzionalità cosciente. L'ottavo capitolo prende in considerazione la questione della motivazione attraverso un confronto serrato con lo schematismo kantiano. Infine, il nono capitolo tematizza l'interesse dell'ultimo Husserl per la storicità come ampliamento della tematica temporale e sintesi con quella della vita trascendentale.
In conclusione, il maggior pregio di questo eccellente testo è di fornire una visione d'insieme della fenomenologia husserliana attraverso la tematizzazione di alcune questioni essenziali, quelle appunto del tempo e della vita trascendentale. Chi avrà la pazienza di mettersi in ascolto dei testi husserliani - un ascolto lento e un esercizio ripetuto che rifugge giudizi e critiche frettolose - troverà in questo libro di Francesca Dell'Orto una preziosa guida, uno spartiacque in grado di condurre attraverso le aporie più vertiginose dei manoscritti husserliani. Tuttavia, lungi dall'avere un mero scopo didattico, questo testo si impegna teoreticamente nello sviluppo di una tesi centrale, secondo cui «il mondo è prodotto dalle operazioni concretamente fungenti, e parallelamente temporalizzatrici, dell'intenzionalità passiva che, intersecandosi l'una nell'altra e concatenandosi l'una dopo l'altra, si autotrascendono in un orizzonte esterno, non più riducibile ai singoli vissuti individuali; un orizzonte così complesso da sembrare assolutamente a priori, una Lebenswelt trascendentale precedente a qualunque Erlebnis che trovi in essa dispiegamento, che cela invece più in profondità la forma mobile del "volta per volta"» (p. 273).
Solo alla luce di queste analisi possiamo davvero comprendere, con Hans Blumemberg, che «il mondo richiede tempo».