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Jean Wahl in levitazione
Recensioni / Giugno 2020Jean Wahl, Verso il concreto. Studi di filosofia contemporanea. William James, Whitehead, Gabriel Marcel (Mimesis, Canone Minore, 2020)
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Di Jean Wahl un poeta notava lo spirito mobile e trasparente, la «disinvoltura che era levitazione» (269). Come il levitatore non è colui che si stacca da terra, ma la parte più prona alle mescolanze di un mondo che si accresce, così Wahl è filosofo leggero per la durezza materica del suo sguardo. L’edizione italiana di Verso il concreto. Studi di filosofia contemporanea. William James, Whitehead, Gabriel Marcel, uscito per Mimesis a cura di Giulio Piatti e con una postfazione di Barbara Wahl, è opera di un pensatore ironico e poetico, impegnato nell’ascesi dell’incontro totale con ciò che si propone di pensare. Contro una storia della filosofia come galleria di statue e apologia della grande figura, Verso il concreto è innanzitutto un accostamento tra incontri felici, animato dall’entusiasmo paratattico che prolunga il vivum di altri pensieri. È un libro che contiene altri spiriti, intuiti nel loro splendore fenomenico, e che rivela appieno lo stile filosofico di Jean Wahl, la sua maniera di pensare. Wahl scrive da filosofo di altri filosofi, con una virtù che sarebbe riduttivo definire eclettica. La ricca introduzione del curatore illustra perfettamente in che misura questo libro è un capitolo fondamentale e appassionante della filosofia francese del ‘900, su cui Wahl aveva già iniziato ad esercitare un’influenza profonda con la fortunata opera sui pluralisti americani e inglesi del 1920.
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Étienne Souriau scriveva che quando i filosofi si esprimono sull’uno o sul molteplice, desiderano o l’uno o l’altro. In questa osservazione c’è di più del semplice rilevamento di un moto d’interesse dietro a istanze eterne del pensiero: l’alternativa tra pluralismo e monismo è innervata un investimento magico, un ideal-realismo che scaturisce dalla visione dell’accordo del continuo con il discontinuo. È l’«esperienza» in senso più proprio, l’alliance paradoxale di cui Wahl parlerà, trent’anni più tardi, ne L’expérience métaphysique. James, Whitehead e Marcel sono filosofi speculativi e sperimentatori, quando pensano un mondo fatto di blocchi di durata, di volumi, di eventi, di relazioni primitive, di processi di discretizzazione per confluenza e concrescenza: pluralisti in nome dell’eterogeneità del reale, monisti in nome della sua unità in divenire. A quest’altezza ha luogo, in maniera diversa in ognuno di questi autori, il «suicidio della dialettica» (51), la dialettica hegeliana che nasce proprio squalificando il concreto dell’esperienza, piegandolo a una certa idea di speculazione. Speculativo, sembra dirci Wahl, può esserlo soltanto un realismo; e se non si vuole abbandonare la dialettica sarà più per amore dell’oggetto reale che per sentimento della sua insufficienza.
In William James, primo protagonista di Verso il concreto, una filosofia dell’Abenteuer risponde al temperamento «motore» del filosofo (143), che ricerca la grana della realtà solida, l’universale fattivo. È il ritratto di un James mercuriale, che propugna un pluralismo in costante tensione con un monismo mistico, per cui il mondo si accresce per estasi delle parti. Nel sapiente studio del suo epistolario, Wahl rintraccia quella reciproca evocazione tra vita e filosofia che ha determinato la grandezza di uno dei padri del pragmatismo. Il secondo protagonista del libro, Alfred North Whitehead, è invece rappresentato come un pensatore dell’universo vivente, autore di una grande metafisica della natura. Come un nuovo romantico, Whitehead vede nel reale un humus di percettività cieca, di intenzionalità pure che germinano e concrescono: la realtà crea incessantemente sentendo sé stessa, e il soggetto non vi si riconosce che come una sopravvenienza. Da qui l’attenzione a ciò che nel soggetto è legame con la natura creante, percezione e sentimento. Come il pensiero di James è incontrato nella rappresentazione della sua vita e la filosofia di Whitehead nell’interpretazione complessiva dei suoi scritti, Gabriel Marcel, infine, è studiato con intima confidenza, attraverso il suo diario filosofico (il Journal métaphysique), quasi come in sua compagnia. Wahl, che è stato amico di Marcel, ritrova come principio ermeneutico quella partecipazione emotiva che lo stesso Marcel mette al centro del proprio pensiero – l’amicizia come forma di conoscenza completa.
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Poco meno di cento anni dopo la sua uscita possiamo cominciarne a cogliere la rilevanza di Verso il concreto. Qui Wahl contribuisce ad aprire una traccia che attraversa – più o meno allo scoperto – il Novecento francese e raggiunge il realismo speculativo contemporaneo. Il topos che Wahl utilizza per forzare lo hegelismo è lo stesso dell’Agamben de Il linguaggio e la morte e del Lyotard di Discorso, figura (ma anche, in senso più ampio, del Deleuze di Differenza e ripetizione): il tentativo di dire il “questo”, che all’inizio della Fenomenologia dello Spirito vanifica il sapere sensibile, viene recuperato come vero compito della filosofia, verso un’altra concezione dell’assoluto. La rivalutazione dell’esperienza in sé conduce proprio là dove Hegel non era voluto andare, ad una mistica e a una poetica, senza mai lasciare la filosofia. D’altronde, «era forse il destino del pensiero hegeliano quello di negarsi» (227). Tutto ciò che una certa tradizione speculativa ha cercato di fare nel corso del secolo passato è questa critica alla significazione, alla causalità meccanica, alla priorità della conoscenza soggettiva in nome di un pensiero più concreto, che sia monista e pluralista insieme, in quanto «negazione di un mondo già fatto» (136).
Dietro al dire c’è dunque sempre un conatus d’instaurazione, che nell’uomo è esperienza pura, e che sfonda il cerchio della dialettica, per renderla incessante e senza concetto. Bergson, Renouvier, Samuel Alexander e tutte le figure che si avvicendano accanto ai tre filosofi raffigurati da Wahl confluiscono in un mosaico ancora in formazione che andrà a costituire il nerbo della grande avventura continentale del ‘900. Dietro a questo passaggio fondamentale, la penna ariosa di Wahl, quasi a divinarne il corso – in levità.
di Gregorio Tenti
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La macchina ineludibile
Longform / Aprile 2015In un testo apparso nel 1992 in un volume collettivo, «Nous autres Grecs», Jacques Derrida, riferendosi all’intero gruppo dei filosofi oggi noti come post-strutturalisti, osserva che essi si raccolgono «sotto il segno della differenza, e di una differenza, così come di un simulacro, non dialettizzabile». Dopo aver sottolineato quella che definisce «tale resistenza, io direi quasi tale allergia, ma non opposizione, tale risposta testarda (differenziale, non dialettica) alla dialettica», conclude:
Questa resistenza è in comune non soltanto a Deleuze e a me […], ma anche a Foucault, Lyotard e altri ancora. È stata conquistata, si potrebbe dire strappata, sempre senza fine, a un dialetticismo ereditato. Ciò che essa ha – piuttosto che rovesciato – spostato, deformato, non è stata soltanto la dialettica hegeliana, neo-hegeliana o marxista, è stata in primo luogo la dialetticità di provenienza platonica. (Derrida, 1992a, p. 257-258).[1]