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Marco Menin – Il fascino dell’emozione
Recensioni / Marzo 2020.
Significativamente inserito all’interno di una collana intitolata “Filosofia e vita quotidiana”, il libro di Marco Menin (Il fascino dell'emozione, Il Mulino, Bologna 2019) aspira a sottoporre a trattazione filosofica uno degli elementi più quotidiani e onnipervasivi della nostra esperienza umana, ossia le emozioni.
Oggetto di studio proteiforme, resistente ad ogni classificazione univoca, le emozioni sono infatti presenti in quasi ogni ambito della nostra vita, risultando quindi dotate di un ambiguo doppio status filosofico: se da una parte esse sono state fin dall’antichità oggetto di interesse e di teorizzazione, da un’altra la loro natura misteriosa e magmatica ha fatto in modo che solo recentemente sia stato ad esse assegnato un ruolo di spicco nel quadro generale della vita umana.
Senz’altro utile è per questo l’approccio adottato da Menin, storico della filosofia per formazione, che può quindi tenere fisso lo sguardo sull’evoluzione diacronica del pensiero pur senza disdegnare le discussioni contemporanee sul tema.
Interessante è la scelta di un approccio multidisciplinare, con l’apporto di diverse ricerche scientifiche (psicologiche in primis ma anche biologiche, neuroscientifiche, antropologiche e sociologiche), che non serve solo a “dare corpo” a teorie filosofiche antiche, ma anche a stimolare riflessioni filosofiche attuali e contemporanee.
Il risultato è senz’altro quello di ben comunicare al lettore la natura sfaccettata e complessa dell’emozione, ma anche di mostrare come in tempi recenti il suo funzionamento e il suo ruolo siano stati sempre più oggetto di interesse e di ricerca.
Tale approccio multidisciplinare accompagna il lettore in ognuno dei capitoli del libro, ciascuno programmaticamente dedicato ad una tematica di interesse filosofico.
Il primo capitolo verte soprattutto sull’analisi diacronica dell’emergere della riflessione filosofica sulle emozioni dall’antichità fino all’epoca contemporanea.
Saggiamente accantonate le pretese definitorie dell’emozione, così come le distinzioni tra emozioni e sentimenti, l’autore inizia la trattazione proponendo una panoramica delle principali teorie storicamente succedutesi nel pensiero filosofico occidentale a riguardo della natura dell’emozione.
Menin distingue qui tre macro-teorie ideali, filoni di ricerca non omogenei al loro interno ma senz’altro testimoni di alcuni atteggiamenti radicati nella storia del pensiero, che l’autore chiama teoria dell’emozione come valutazione, teoria dell’emozione come percezione e teoria dell’emozione come motivazione.
La teoria valutativa dell’emozione assimila la risposta emotiva al risultato di un’inferenza valutativa: la persona dà un’interpretazione di una situazione e da tale valutazione scaturisce la risposta emotiva.
Pur nella sua apparente semplicità, tale teoria ha prodotto nell’antichità le più diverse valutazioni del fenomeno emotivo: dalla condanna delle passioni in Platone e negli stoici fino al più moderato e neutro giudizio di Aristotele, degli epicurei e di alcuni filosofi medievali, soprattutto tomisti.
A tale tradizione si affianca in epoca moderna una trattazione filosofica più aperta al ruolo biologico del corpo nel determinare emozioni e sentimenti: la feeling tradition o teoria dell’emozione come percezione, iniziata da Cartesio e proseguita con James e Damasio, vede nell’emozione una risposta anatomica ad uno stimolo, assimilandola dunque ad una semplice percezione organica.
Se da un lato la teoria valutativa sembrava assegnare spesso valori morali alle emozioni, la teoria percettiva può sottrarre l’emotività all’etica ed alla teologia per metterla in mano alla fisiologia ed alla psicologia sperimentale, fino alle moderne neuroscienze.
Ultima in ordine cronologico ad apparire sulla scena filosofica è la teoria dell’emozione come valutazione, di ascendenza darwiniana, che vede nell’emozione soprattutto una reazione di adattamento all’ambiente.
Dal pionieristico studio di Darwin sulle emozioni nell’uomo e negli animali fino alla riflessione deweyana sul concetto di arco riflesso, gli esponenti di questa tradizione vede nell’emozione un approccio all’ambiente circostante informato da processi di adattamento, esplorazione, valutazione, prova e risposta.
Il ruolo cognitivo dell’emozione è dunque decisamente rivalutato rispetto alla tradizione percettiva, pur inserendo alcune osservazioni della teoria valutativa in un più moderno framework darwinista.
In conclusione, questo primo capitolo si rivela prezioso in virtù della sua efficace ripartizione delle diverse teorie in categorie “aperte”, non stringenti ma euristicamente efficaci, capaci di dare un ordine a duemila anni di riflessione senza forzare le peculiarità dei singoli autori.
Mentre il primo capitolo è soprattutto un’opera di sistematizzazione all’interno della storia della filosofia, il secondo capitolo si presenta invece come un serrato dialogo tra filosofia, antropologia, psicologia e sociologia.
D’altronde, trattando di un tema quale la diversità culturale delle emozioni, il riferimento è obbligato.
Spaziando dalla disputa settecentesca sulla naturalezza del pudore, in cui all’interesse etnografico si mescolavano polemiche anticlericali o apologie del cristianesimo, fino alla decennale querelle psicologico-antropologica sull’universalismo delle emozioni, negato dai costruzionisti seguaci di Margaret Mead e fortemente difeso da Paul Ekman.
Se il confronto tra universalismo e costruzionismo sembra essere soprattutto dominato da altalenanti fortune storiche, l’autore mostra chiaramente come ben prima della psicologia moderna già autori come Spinoza e Rousseau avessero prodotto teorie dinamiche dell’emozione, mettendola in relazione, nel caso di quest’ultimo, con il contesto sociale.
Non sorprende dunque che proprio Rousseau sia il trait d’union tra filosofia moderna e scienze sociali contemporanee: dalla psicologia sociale di George Herbert Mead, alla sociologia durkheimiana fino all’antropologia culturale di Ruth Benedict, l’emozione è stata pervasivamente contestualizzata in una teoria delle relazioni sociali, mostrando come essa sia al contempo collante sociale e prodotto dell’interazione stessa.
Stranamente però l’autore non fa riferimento alla ricca tradizione di sociologia delle emozioni, che si dipana dall’opera di Arlie Hochschild e Peggy Thoits fino ai più recenti contributi.
Tale filone di ricerca, attivo anche in Italia grazie all’opera di Gabriella Turnaturi e di Massimo Cerulo, arricchirebbe senz’altro la panoramica sull’emozione di notevoli valide prospettive.
Una trattazione interdisciplinare, esplicitamente rivolta con interesse alla sociologia, avrebbe infatti molto da guadagnare dall’inserimento dei risultati di queste ricerche nel suo quadro teorico.
Tale confronto sarebbe ancora più interessante in vista della trattazione che Menin dedica all’opera di William Reddy, originale proponente di una teoria storico-sociale dell’espressione emotiva, capace di superare le dicotomie tra universalismo e costruzionismo indagando le specifiche modalità di espressione (emotives) che comunicano sentimenti privati in una sfera pubblica.
Molto pregnante è la trattazione che l’autore riserva alla relazione tra genere e dimensione emotiva, ricorrendo ad un autore a cui ha già dedicato numerose riflessioni, ovvero Rousseau.
Nei romanzi epistolari del filosofo ginevrino, il pianto emotivo viene slegato dalla tradizionale associazione con la femminilità, per divenire emblema e simbolo di una sensibilità nuova e capace di andare oltre alle barriere di genere.
Ammirevolmente coeso al suo interno, pur nel fiorire di prospettive e tematiche affrontate, il secondo capitolo introduce molti dibattiti e teorie che verranno in seguito riproposti, mostrando, come detto, la capacità dell’autore di inserire approcci diversi all’interno di un discorso uniforme e coerente.
Tema principale del terzo capitolo è la relazione tra emozioni e linguaggio: l’atto di esprimere emozioni in forma linguistica suscita infatti molte riflessioni, innanzitutto concernenti il divario che intercorre tra la concreta esperienza empirica dell’emozione e le ridotte possibilità espressive che la lingua mette a disposizione.
L’inevitabile “appiattimento” semantico della ricchezza emotiva in una descrizione comprensibile linguisticamente ma impoverita è uno degli argomenti in favore di chi nega che le emozioni possano essere pienamente tradotte in parole.
Ulteriore sviluppo di questa teoria lo si può riscontrare guardando ai vocabolari emotivi delle diverse culture, che presentano una pletora di vocaboli intraducibili usati per esprimere situazioni affettive ed emotive.
D’altronde, le emozioni sembrano avere radici pre-linguistiche molto più profonde delle nostre abilità verbali, come evidenziato da Jaak Pankseep e dal campo di ricerca da lui iniziato, la neuroscienza affettiva.
Se dunque la cultura di appartenenza gioca un ruolo chiave nello strutturare le espressioni emotive, l’universalismo emotivo sembra quantomeno avvalersi di un parziale vantaggio rispetto a teorie del tutto culturaliste: la discrepanza tra sentire ed esprimere il sentimento mette continuamente in gioco le nostre risorse linguistiche, trovandole spesso bisognose di nuovi mezzi espressivi o addirittura carenti di risorse verbali, ma nonostante questo le emozioni persistono anche in circostanze in cui il ruolo del linguaggio è minimo o assente.
La natura pre-linguistica delle emozioni è di fondamentale rilevanza quando si indaga l’emotività di chi difetta proprio della parola: ammirevolmente, Menin inserisce nel capitolo una trattazione sull’emotività animale, a lungo negata in passato e ora importante fattore nel garantire l’estensione di diritti fondamentali anche a molti animali.
Tornando rapidamente alla relazione tra linguaggio ed emozioni dopo il breve excursus sull’emotività animale, abbiamo qui una panoramica sulla funzione persuasiva del linguaggio: se il capitolo si è aperto osservando come l’emozione fatichi ad essere efficacemente contenuta dal linguaggio, ora essa è obiettivo, scopo dell’atto linguistico.
Come si sa fin dall’antichità, la retorica non può prescindere dall’emozione suscitata nell’ascoltatore.
Questa lezione antica, che annovera il movere ed il delectare tra gli obiettivi del discorso retorico, è stata ben recepita dalla pubblicità, che ha fatto di essa ampio uso nello sfruttare il sentimento innescato nello spettatore a fini commerciali.
Se dunque è possibile innescare reazioni emotive nell’interlocutore tramite processi linguistici, è tuttavia anche possibile che tale procedura conduca ad esiti spiacevoli.
Il caso del fraintendimento emotivo, in cui l’interpretazione non già dell’emozione altrui, chiara e manifesta, ma della causa di essa, porta a incidenti comunicativi di diversa portata, culminanti nel tragico caso dell’Otello shakespeariano, è paradigmatico della fragilità delle interazioni emotive.
All’interno della moderna psicologia, proprio la questione del fraintendimento è stata affrontata da Paul Ekman, già citato nel capitolo precedente, che ha elaborato un sistema di riconoscimento di microespressioni facciali capace di individuare le finzioni emotive.
Tuttavia, ci tiene a precisare Menin, non tutte le azioni simulate sono false: molte possono essere finte ma non falsate a scopo di dolo.
Emblematico è il caso dell’attore, che si adopera per comunicare emozioni allo spettatore pur non essendo realmente nello stato d’animo rappresentato.
Allo stesso modo, anche i personaggi fittizi delle opere d’arte, che spesso ci commuovono e ci emozionano, sono finti ma non per questo falsi o meno apprezzati.
In conclusione, questo capitolo affronta molte questioni diverse, spaziando dall’antropologia linguistica alla questione animale, dalla retorica persuasiva alla psicologia e alla riflessione sull’arte teatrale di Diderot.
Il risultato si presta a giudizi ambivalenti: personalmente ho apprezzato la varietà e la ricchezza degli stimoli, a mio avviso non caotici, ma comprendo che effettivamente essi possano risultare troppo eterogenei in un capitolo così breve e coinciso.
L’intera riflessione sul tema dell’emozione animale ben si inserirebbe in una cornice antropologico-filosofica, come quelle tracciate da Gehlen e Plessner.
Ovviamente, non è possibile sviluppare tali tematiche in un paragrafo, e l’autore fa bene a trattare il tema come una interessante appendice al più ampio tema dell’espressione linguistica dell’emozione.
Sarebbe però interessante approfondire una questione così attuale e feconda di spunti in una trattazione più estesa e dedicata unicamente a tale argomento.
Allo stesso modo, anche il tema dell’emozione nell’arte, adombrato nella trattazione sulla retorica, l’arte ed il teatro, si presta ad una riflessione maggiormente approfondita.
Come detto, il capitolo è denso di tematiche, riconducibili in senso lato al tema sterminato dell’espressione dell’emozione.
Tuttavia, il capitolo terzo, insieme al precedente, potrebbe essere letto soprattutto come un tentativo di mediazione intellettuale: tra gli eccessi del riduzionismo biologico-psicologico, che racchiude l’intera sfera emotiva all’interno di processi spontanei, e del costruzionismo radicale, che dà spazio unicamente alla dimensione sociale dei sentimenti, l’autore è fautore di un approccio equilibrato e moderato, a mio avviso davvero ammirevole e necessario.
Questo è forse lo spunto di riflessione più significativo non solo di questi capitoli, ma dell’intera opera.
I capitoli quarto e quinto ritornano in pieno nell’alveo della tradizione filosofica, vertendo uno sulla relazione tra morale ed emozione e l’altro su quello tra ragione e morale.
Primo punto di riferimento per sviluppare il tema del quarto capitolo è senz’altro David Hume.
Il pensatore scozzese, fautore di una teoria del contagio emotivo, è il primo a dare corpo ad una “scienza delle emozioni”, non valutativa ma ispirata ai principi della scienza descrittiva.
Osservare la genesi delle passioni senza giudicarle vuol dire soprattutto darne una descrizione nel processo di azione morale come farebbe un anatomista (esempio di Hume), senza voler incitare le persone al comportamento virtuoso.
Sulla scia di Hume si collocano molti altri illuministi scozzesi, tra cui Adam Smith, tutti concordi nell’assegnare alla simpatia (emotiva) un ruolo fondamentale nell’azione morale.
Anche le neuroscienze contemporanee sembrano avvallare alcuni assunti humeani, tuttavia alcune prospettive risultano paradossali per una riflessione filosofica sul tema dell’etica.
Alcune prospettive neuroetiche, poggiando sulla scoperta dei neuroni specchio, fondamentale nello spiegare la riproduzione di comportamenti osservati, sembrano privare gli esseri umani del libero arbitrio, riducendo la loro condotta morale ad una reazione posteriore ad azioni istintuali.
Tali prospettive, discusse animatamente da neuroscienziati e filosofi, sembrano troppo eccessive, tuttavia le etiche fondate sull’empatia non richiedono affatto simili riduzionismi.
La teoria dell’empatia morale di Hume e Smith, con notevoli varianti, è ancora oggi favorevolmente accettata da molti.
Tale corrente, sfociata nel sentimentalismo etico contemporaneo, è affrontata da Menin facendo riferimento ad alcuni autori più o meno recenti: dalle etiche della cura, fino alle teorie di filosofia sperimentale in autori come Nichols e Prinz, molti ritengono il sentimento condizione necessaria per la condotta morale.
Tuttavia, nota Menin, le emozioni sono state giustamente anche ritenute dannose per la condotta morale: se una posizione kantiana può apparire eccessiva, è evidente che alcune “cattive emozioni” non sono facilmente inseribili in una vita morale.
Il caso della rabbia, oscillante tra passione dirompente e lecita ribellione all’ingiustizia, è forse il più paradigmatico di questa schiera di emozioni ambigue moralmente.
Il passaggio tra il capitolo quarto e il quinto è più sfumato che altrove, poiché il tema della razionalità delle emozioni coincide ampiamente con quello della riflessione etica.
Il capitolo quinto inizia infatti opponendo due tradizioni di pensiero a riguardo delle emozioni e della loro relazione con la ragione.
Se molti autori antichi e moderni le hanno a lungo represse e ritenute “mali dell’anima”, da sottomettere alla ragione, sarà Pascal a mostrare che il “cuore”, ovvero la sensibilità umana, ha le sue “ragioni”.
Per il pensatore francese, l’emozione non è solo importante o di aiuto nel ragionamento: essa è vitale, base e fondamento dell’inferenza (“i principi si sentono, le proposizioni si dimostrano”, ebbe a dire), ma anche garante dell’accettazione di una credenza: se non si dà l’assenso “con il cuore”, ogni ragionamento è vano.
Sarà Hume a radicalizzare il rapporto tra volontà razionale ed emozioni, rendendo la ragione “schiava delle passioni”, ovvero atta solo a muovere i suoi passi a partire da stimoli emotivi, non di ostacolo ad essa ma unico autentico motore.
Da qui, come detto, si ritorna alla discussione etica, aperta da due varianti di sentimentalismo etico.
Esse sono l’emotivismo, che partendo dalla riduzione dell’enunciato morale a mera espressione emotiva, più o meno soggettiva, operata da Ayer, ritiene il lessico morale una semplice comunicazione di uno stato emotivo causato da un’azione.
Altri autori, cognitivisti (non razionalisti etici) associano all’emozione una valutazione cognitiva, restando all’interno della tradizione sentimentalista pur senza essere emotivisti.
Alcuni, come Solomon, ritengono che le emozioni siano risultato di valutazioni assiologiche, ovvero di conferimento di particolari valori negativi o positivi a qualche stato di cose, passibile, come le credenze, di verifica e revisione.
Concludendo l’excursus sull’etica iniziato nel capitolo prima, l’autore nota come, al di là delle singole teorie, sia l’emotivismo che il cognitivismo abbiano mostrato l’inadeguatezza di una riflessione morale razionalista, che volesse prescindere in campo morale dalle emozioni.
L’ultima parte del capitolo, e del libro, è dedicata al tema dell’intelligenza emotiva.
Dalla difesa della razionalità delle emozioni, che secondo Martha Nussbaum informano i nostri processi cognitivi orientando la nostra ragione verso il mondo e portandoci ad interpretare, valutare e validare le nostre credenze, prendono le mosse coloro che vogliono mostrare non tanto la non mutua esclusività di ragione ed emozioni, ma la loro totale interdipendenza.
Anche in campo psicologico abbiamo assistito ad una presa di coscienza circa il ruolo delle emozioni nella nostra vita.
Alcuni autori hanno infatti proposto una sorta di “educazione all’emotività” volta ad insegnare ai bambini a riconoscere i loro sentimenti e a saperli incanalare in modo costruttivo nella loro vita, nelle loro relazioni e nelle loro interazioni sociali.
Purtroppo, emerge proprio qui, quasi come un fulmen in clausula, la critica più grande, forse l’unica che posso sinceramente rivolgere, all’opera di Menin, assolutamente slegata dalla sua riflessione sulle emozioni e legata bensì al suo acritico (a mio avviso) utilizzo degli indicatori del quoziente intellettivo (QI) con eccessivo slancio.
Tali strumenti standardizzati sono stati da anni criticati, non solo metodologicamente ma anche a livello concettuale, per la loro dubbia utilità e per l’effettiva misurazione di qualche disposizione psicologica individuale stabile.
Alcune affermazioni categoriche dell’autore, che sembra ascrivere ad alcuni individui elevate doti cognitive in quanto “misurate” da tali test, sono secondo me decisamente fuorvianti e “stonano” con l’impianto generale dell’opera, comunque decisamente apprezzabile e notevole.
Concludendo, l’opera di Marco Menin risulta assai piacevole da leggere in virtù della sua approfondita e varia trattazione, non solo filosofica, della tematica emotiva.
La sua trattazione si configura come un doppio viaggio che si snoda lungo due assi: quello diacronico, sempre presente e visibilmente informato dall’approccio dello storico della filosofia, e quello tematico, svolto ponendo l’emozione in relazione alle dimensioni del linguaggio, della morale, della razionalità e di ognuno degli argomenti sopra citati.
Sarebbe stato forse opportuno, anche se non necessario, allegare un ulteriore capitolo dedicato all’estetica, branca della filosofia (ora anch’essa sempre più interdisciplinare) che con l’emozione ha sempre avuto a che fare.
Inoltre, il rapporto tra etica, estetica ed emozione, unite inestricabilmente nella vita umana, sarebbe forse campo di indagine privilegiato per una riflessione globale sull’emotività, in cui il sentimento fa, per così dire, “da ponte” tra la riflessione morale e quella estetica.
Tuttavia, la riflessione di Menin nel corso dell’opera appare decisamente esaustiva, ben oltre il livello di una introduzione minima al tema.
Come detto sopra, il saggio è dunque attento sia alla ricostruzione storica sia alla trattazione specifica di alcuni peculiari campi di applicazione della riflessione sull’emozione.
Questo doppio approccio, storico e tematico, è impreziosito dal taglio esplicitamente multidisciplinare, forse l’aspetto più gradevole del libro.
La molteplicità di approcci all’oggetto di studio, che emerge spesso purtroppo nel dibattito contemporaneo come una conflittualità di visioni intellettuali, si mostra qui invece decisamente improntata alla compatibilità, forse, mi pare il caso di dirlo, grazie soprattutto alla cornice filosofica, capace di ospitare al suo interno le diverse prospettive antropologiche, biologiche, psicologiche, neuroscientifiche e sociologiche.
La sintesi filosofica, pur non sistematica, emerge qui come utile strumento per orientarsi nella variegata riflessione che in molti campi del sapere si produce a riguardo delle diverse tematiche, in questo caso specifico l’emozione.
Accessibile come stile, il saggio di Menin è per di più arricchito da riferimenti a referenti culturali contemporanei e mainstream (film, serie tv, romanzi), sempre ben contestualizzati, in equilibrio tra trattazione filosofica ed esigenze divulgative, senza mai essere sintomo di un cedimento a logiche di “popolarizzazione” fine a sé stessa.
Essi risultano infatti un buon esempio di quel binomio, “filosofia e vita quotidiana”, che orienta programmaticamente la stesura dei saggi della collana.
In conclusione, la lettura di questo libro è forse, si spera, la prima avvisaglia di una maggiore sensibilità intellettuale per il tema delle emozioni, a lungo ritenuto marginale per la riflessione filosofica.
La vastità dei campi toccati da Menin in questa sua opera dovrebbe infatti quantomeno mostrare come la cosiddetta “affective turn”, la svolta emotiva, abbia recentemente reso disponibili al ricercatore molti promettenti campi di ricerca.
Una riflessione filosofica sul tema, aperta alla multidisciplinarietà e alla sintesi, è dunque senz’altro utile e gradita.
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di Riccardo Cravero
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Variante 200 – Corso Grosseto #1
Serial / Febbraio 2015Il parco e le sue paratie verde mimetico sono oramai alle nostre spalle e cerchiamo di raggiungere Piazza Rebaudengo, proprio dall'altra parte del cantiere. Quando incontriamo Corso Grosseto, nel punto in cui si interseca con la bretella della tangenziale, le automobili sfrecciano veloci. Ecco che subitaneamente cambia la percezione dello spazio; lasciata indietro quell'impressione di immobilità che permeava la zona adiacente, ci troviamo ora nel luogo del puro scorrere dove i viali diventano ampi e impossibili da attraversare a piedi, dove i percorsi pedonali sono interrotti da guardrail da scavalcare.
Ci si abitua oggi, presto e quasi in maniera indolore, a questa costruzione dell'esperienza basata sullo shock. Spesso, ci diciamo, saremmo curiosi di ritornare all'emozione provata da chi quel giorno vedendo il film dei fratelli Loumière scappò dal primo cinema, da quella sequenza di fotografie del treno che terrorizzò i primi spettatori, per capire quanta educazione dello sguardo si nasconda dietro alla nostra cognizione del movimento.
Ma sono parole brevi e veloci scambiate distrattamente mentre con attenzione e passo svelto attraversiamo lo svincolo e ci ritroviamo a dover passare su un ponte proprio sopra l'autostrada. Ci attardiamo un attimo a contemplare da questo punto di vista privilegiato i nuovi assetti della città mentre alle nostre spalle le macchine sfrecciano veloci, sotto di noi pure. Questa posizione leggermente rialzata e distante dal groviglio urbano, ci sbatte in faccia un' inaspettata cartolina di Torino: la città appare come ritrarsi gradualmente col dilagare del cantiere, il quale sembra non interrompersi ai soli lavori intorno alla stazione ma continuare lungo una corrente che parte dal nuovissimo grattacielo della San Paolo in Corso Inghilterra.
È nuovamente la geografia urbana a sorprenderci con il suo gioco tridimensionale: di sovrapposizioni di scorci, di differenziali di velocità che destabilizzano le coordinate spaziali; è anche a questo shock, che era così efficacemente sublimato dai sipari haussmaniani, che l'occhio contemporaneo deve saper adattarsi.
Ci sbagliavamo poco fa a credere che fosse la stazione l'epicentro di questa marea polverosa, perché è piuttosto l'edificio tributo al capitale cittadino, il grattacielo, a essere l'occhio del ciclone al centro de “la bufera del progresso”. Lontano eppur così borioso anche da qui, dalla periferia da cui, per visuale d'insieme, sembra un monumentale dito medio che si erge monopolizzando l'attenzione visiva, andando a costituire il punto di fuga di questo quadro dell'oggi. A ben guardare, all'orizzonte cresce lesto anche quello della Regione Piemonte, leggermente sulla sinistra rispetto al primo. Da qui non si vede altro: autostrada, cantiere e le vette del dominio. A cosa si riduce la città che è ora sotto il nostro sguardo? È solo una topica estetica o una prospettiva simbolica questa? Impossibile non chiederselo con quell'inquietudine calmierata dello spettatore che guarda il naufragio da un approdo tanto momentaneo quanto fittizio.
C'è tuttavia il ronzio dei motori a distrarci continuamente, insistendo nel volerci palesare la superbia del crederci distanti e separati dall'oggetto della nostra osservazione. Ma il corpo urbano non può essere carpito con un singolo sguardo e ancor meno si può ridurre a una sola inquadratura. Esso è ciò in cui siamo immersi, una modalità di vita, l'habitus di cui non si ha più percezione. E seppur è vero che una finzione ipotetica è necessaria per l'avvio di ogni teoria, non è detto che l'unica possibile sia quella dello spettatore. C'è infatti un ritmo provocato dal passaggio degli autoveicoli sui giunti d'espansione del ponte che ci ricorda la nostra immersione completa nei flussi urbani. Ed è proprio la cadenza sonora, la sua frequenza e le sue pause, a suggerirci che l'urbano è soprattutto ingegneria della certezza. Essa segue tempi precisi: in questo caso regolati da semafori, segnaletica e, come substrato, da un florilegio di norme stradali. Quello che a livello percettivo veniva associato al caos, segue in realtà un cronometro preciso. Ora anche la nitidezza prospettica sulla città non sembra più in contrasto con la confusione sonora alle nostre spalle.
«Vauban preconizzerà vivamente questa maniera di evitare la carneficina e di dissolvere il nemico per mezzo della semplice costruzione di un universo topologicamente costituito "di un insieme di meccanismi capaci di ricevere una forma definita di energia- all'occorrenza quella della massa mobile degli assalitori- di trasformarla e di restituirla alla fine sotto una forma più appropriata»
Ebbene, alla fin fine, pare non esserci nessuna topica estetica, tanto meno una prospettiva simbolica. Nella comprensione della città il punto non sta tanto nel descrivere minuziosamente un luogo da una supposta ubicazione d'eccezione, come fosse uno scenario, quanto piuttosto comprenderlo come un rapporto tra la costituzione fisica e la massa mobile che da essa è informata.