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La politica sessuale della carne
Eventi / Aprile 2021The Sexual Politics of Meat: A Feminist-Vegetarian Critical Theory è stato pubblicato per la prima volta nel 1990 negli Stati Uniti, ma la connessione che opera tra etica vegetariana e femminismo germina nella mente di Carol J. Adams già dal 1974. La natura della relazione tra l’oppressione patriarcale e l’oppressione animale resta a lungo una consapevolezza sfuggente per l’autrice; più di una semplice analogia eppure non ancora definita, visibile solo in trasparenza nella sessualizzazione degli animali e nell’animalizzazione delle donne. La lettura del libro Bearing the word di Margaret Homans le suggerisce nel 1987 la connessione mancante, il referente assente: un concetto che si origina nella linguistica ad indicare la condizione di un segno il cui referente è vuoto, indefinito o mancante. Finalmente dopo oltre vent’anni di studi, confronti e raccolta di materiale questa intuizione prende forma in una complessa e ben documentata teoria che si svolge nelle tre parti fondamentali del libro.
In Italia una prima traduzione di alcuni capitoli è stata proposta dalla rivista di critica antispecista “Liberazioni”, infine il libro integrale e completo di diverse prefazioni è stato tradotto e pubblicato dalla casa editrice VandA col titolo Carne da macello. La politica sessuale della carne.
Carne da macello è soprattutto un libro che riflette sul linguaggio e sui discorsi che costituiscono le relazioni del potere dell’uomo sulla donna e dell’umano sull’animale, collocandosi a pieno titolo nell’area dell’ecofemminismo vegetariano.
Gli argomenti patriarcali della carne
Nella prima parte del testo l’autrice illustra i vari aspetti di quella che definisce “la politica sessuale della carne”, mostrando innanzitutto come il consumo di carne sia parte fondamentale della costruzione dell’identità di genere maschile eteronormata (e cis-normata, si potrebbe aggiungere) nel mondo occidentale, attraverso la creazione del mito della virilità che si nutre contemporaneamente dei corpi animali e dei corpi femminili. «Mangiare carne misura la virilità individuale e sociale» (p. 57). La carne è l’alimento del vero uomo, pertanto la donna ne è spesso esclusa. «Quest’abitudine patriarcale si risconta ovunque» (p. 58) sia nelle civiltà che l’autrice definisce tecnologiche sia in quelle che definisce non tecnologiche, dall’Indonesia passando per l’Africa Equatoriale fino all’Europa (pp. 58-59). L’esclusione delle donne dal banchetto di carne nell’Occidente bianco è anche stata una pratica patriarcale di controllo sul corpo e sulla sessualità femminile (si veda Fobia della carne?, p. 281). Se la carne è l’alimento virile che porta forza, vigore e capacità di agire violenza, allora i vegetali come cereali, verdure, legumi e frutta sono alimenti femminili, femminilizzanti e passivi. La carne diviene simbolo del patriarcato e «gli uomini che scelgono di non mangiare carne ripudiano uno dei loro privilegi maschili» (p. 76).
Nell’Occidente razzista e coloniale la carne è l’alimento del vero uomo, e dunque dell’uomo bianco. Nel capitolo La politica razziale della carne (p. 62) l’autrice riassume e mostra chiaramente l’intersezione tra discorso carneo e oppressione colonialista e razzista. Dal momento che «la gerarchia delle proteine della carne rinforza la gerarchia della razza, della classe e del sesso» (p. 63), l’idea che la carne sia la migliore e insostituibile fonte di proteine perpetra un discorso alimentare razzista, non solo misogino[1].
Lo stupro degli animali, la macellazione delle donne.
Il secondo fondamentale nesso tra cultura carnea e patriarcale viene esplicato nel secondo capitolo, ed è l’intuizione forse più importante nel lavoro di Carol J. Adams. Come sostiene l’autrice, «attraverso la macellazione gli animali diventano referenti assenti» (p. 81) in tre modi: vengono fisicamente uccisi, i pezzi del loro corpo vengono rinominati per poter essere consumati, e infine diventano metafore per descrivere esperienze umane di violenza estrema. Nel nostro orizzonte culturale il mangiar carne è possibile in quanto l’animale è linguisticamente celato dai termini che trasfigurano in pietanze le parti del suo corpo fatto a pezzi. Dispositivo certamente vero per i grandi mammiferi (ovini, bovini e suini) trasformati dal coltello del macellaio in filetti, pancetta, prosciutto, arrosto, bistecche e polpettoni, ma quasi inesistente per gli animali che suscitano minore empatia da parte dell’umano: insetti, pesci e uccelli. «La somiglianza tra un uccello morto e uno vivo sfida la struttura del referente assente, perché il corpo dell’uccello vivo continua ad essere un referente anche da morto. Non è assente neanche quando viene consumato» (p. 315).
Le stesse vittime di violenza e stupro, e così molti dei discorsi femministi, usano il referente assente animale come paragone per descrivere la propria esperienza di estrema vulnerabilità e violenza subita: «sentirsi come un pezzo di carne significa essere trattati come un oggetto inerte mentre si è (o si era) un essere vivente senziente» (p. 105). Adams decide di usare consapevolmente la donna come referente assente nel descrivere “lo stupro degli animali” proprio per suscitare una riflessione in quella parte del mondo femminista che si appropria del referente assente animale senza però riconoscere ed includere nella propria lotta l’oppressione animale. Per Adams il femminismo è necessariamente vegetariano[2].
Il corpo delle donne viene usato come referente assente metaforico anche nella sessualizzazione degli animali. La sessualizzazione degli animali – o dei loro pezzi smembrati – è profondamente radicata nell’immaginario comune e commerciale, ed è evidente soprattutto attraverso il linguaggio della pubblicità. La sessualizzazione dell’immagine femminile è una delle caratteristiche iconiche dell’oppressione patriarcale e viene sfruttata dall’industria del marketing in ogni contesto possibile, dalla vendita di vernici alla promozione di spazzolini da denti. Eppure nell’ambito del consumo di carne – sempre rivolto al pubblico maschile – il linguaggio simbolico cambia registro. A questo proposito Carol J. Adams ha raccolto nei decenni una mole impressionante di materiale da tutto il mondo, confluito nell’opera The Pornography of Meat. L’ormai iconica Ursula Hamdress è sconcertante nella sua esplicitezza: un maiale morto (o sedato?) vestito come una pin-up e messo in una grottesca posa seducente su una rivista che non a caso si chiama Play Boar. Tra le diverse immagini raccolte appare immediatamente come nella commercializzazione della carne la figura femminile non sia semplicemente seducente e sessualizzata, come in altri ambiti, ma rimandi chiaramente ad un immaginario di stupro e violenza, fino ad una vera e propria macellazione. Lo stesso immaginario che si appropria dei corpi animali senza consenso, anzi che li rappresenta disponibili e felici di essere consumati, rappresenta allo stesso modo anche la donna/animale che ne promuove i prodotti: un oggetto che non necessita di consenso e invita al possesso totale. La sovrapposizione dei due referenti assenti collega la violenza sulle donne e quella sugli animali, normalizzandole e legittimandole, rendendole a tutti gli effetti strutturali e invisibili. I corpi femminili e quelli animali vengono descritti come corpi passivi, disponibili, consumabili dall’appetito maschile.
Il testo evolve poi in un’analisi accurata del dominio patriarcale sul linguaggio utilizzato per mascherare la violenza e la reificazione del referente assente, intersecando intuizioni femministe e un’analisi linguistica che resta fruibile soprattutto nella critica all’antropocentrismo e al maschio-centrismo, ma che purtroppo è in parte lost in translation passando dall’inglese all’italiano. Sicuramente importante in questa sezione è la connessione tra la pratica femminista e la pratica vegetariana/antispecista, impegnate ad esplicitare la violenza linguistica per opporvi una descrizione letterale (ad esempio: mangiare cadaveri) spogliata dal significato simbolico del referente assente. «Così come le femministe dichiarano che “lo stupro è violenza, non sesso” i vegetariani desiderano nominare la violenza del mangiar carne» (p. 130).
Proprio in questa sezione viene affrontato un termine cruciale per contestualizzare l’opera di Carol J. Adams, ovvero le proteine femminilizzate (p. 146). Per quanto nel testo l’autrice parli di vegetarianesimo, è lei in primis a dirsi vegana e ad includere nella sua critica anche lo sfruttamento animale finalizzato a produrre latte e uova. Proprio questi prodotti vengono definiti come proteine femminilizzate, in quanto prodotti da corpi femminili. L’autrice rileva inoltre come anche nella produzione di carne «noi ci sosteniamo in larga misura con carne femminile» (p. 135) e «mangiamo continuamente le madri […] proclamiamo e rinforziamo il trionfo del dominio maschile mangiando pezzi di carne identificati al femminile» (p. 325).
In questa denominazione Adams rende esplicita una visione comune nel femminismo della seconda ondata da cui si origina il suo pensiero, ovvero la sovrapposizione del sesso e del genere. È un punto problematico perché rinforza una connessione che sta alle fondamenta stesse del sistema etero-cis-patriarcale, ovvero quella tra il corpo femminile e la capacità riproduttiva, tra la donna e l’utero. Connessione che non solo ci ingabbia – in quanto donne – in un destino riproduttivo, ma che esclude dal genere femminile le persone che non hanno una capacità riproduttiva di questo tipo, ad esempio tutte le persone trans e intersex che si identificano col genere femminile. Questo tema rappresenta uno dei fronti più caldi dell’attuale dibattito tra femminismo e transfemminismo, e risulta quindi di particolare interesse analizzare in prospettiva il libro di Adams. Sarebbe interessante anche interrogarsi sulla validità del costrutto culturale umano del genere applicato al mondo animale, un interrogativo che apre scenari che vanno ben oltre questa analisi.
Dal ventre di Zeus
La seconda parte del libro si concentra su un’antologia storico-letteraria che tratteggia una profonda connessione tra femminismo e vegetarianesimo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti partendo dal 1790 ad oggi. Un’analisi storica e letteraria che si interroga sulle caratteristiche del linguaggio letterario vegetariano, la “parola vegetariana” che sfida sia la politica sessuale della carne sia il ruolo della donna. Adams parte dalla letteratura inglese dell’Ottocento, dai circoli del vegetarianesimo romantico e dal movimento inglese per il suffragio delle donne (da Mary Shelley con il suo Frankenstein, la cui creatura era vegetariana, alla mitopoiesi di un mondo arcaico, un’età dell’oro vegetariana e matriarcale), analizzando poi i testi prodotti dopo la Grande Guerra, dove appare fortemente centrato il tema del pacifismo e del rifiuto della guerra. Certamente un corpus di testi notevoli e tradizionalmente mai considerati nel loro complesso come parte di una letteratura di ribellione nei confronti dell’alimentazione carnea e dell’oppressione animale, oltre che femminile. Purtroppo resta assente da questa antologia una delle voci femministe più potenti, la comunarda e anarchica Louise Michel, il cui pensiero circa la comune origine dell’oppressione e della violenza su animali e umani – in particolar modo sulle donne – è pionieristico nell’Europa della seconda metà dell’Ottocento. [3]
Mangia riso e abbi fede nelle donne
Nella terza parte del libro Adams identifica quattro fasi storiche della storia umana: la prima è stata il vegetarianismo, seguita dalla caccia, poi dall’agricoltura di sussistenza e infine nell’Occidente industriale dall’agrobusiness zootecnico – esportato attraverso il colonialismo in tutto il mondo. Queste fasi coincidono con una sempre maggiore perdita di potere da parte delle donne e una crescita di intensità da parte del patriarcato ed inoltre con la perdita della salute, perché il nostro corpo sarebbe naturalmente vegetariano (pp. 261-264). Questo “corpo vegetariano” è anche un corpo che si riappropria del controllo e della libertà su sé stesso, un corpo autodeterminato: in questo contesto il vegetarianismo diventa necessariamente una pratica femminista, dal personale al politico. L’autodeterminazione del corpo vegetariano suscita naturalmente una violenta reazione da parte della norma carnea, che opera distorsioni notevoli per sminuire, ridicolizzare e silenziare l’esperienza vegetariana.
L’autrice si spinge oltre nella sua analisi storica, analizzando specificamente le teorie di Sylvester Graham, divulgatore vegetariano ed igienista del XIX secolo piuttosto controverso per le sue idee sull’astinenza sessuale e sulla masturbazione, che influenzarono anche i fratelli Kellogs (i famosi cereali nacquero come rimedio dietetico contro la masturbazione degli adolescenti). Proprio attraverso le teorie igieniste di Graham il vegetarianismo interessò alcuni discorsi femministi per una serie di ragioni: il rifiuto della carne come riappropriazione del proprio corpo e della propria autonomia, la liberazione dalla schiavitù dei fornelli per le lunghe preparazioni di pasti di carne per il marito, e infine persino come tentativo di controllo della sessualità maschile come mezzo di protezione della donna e di controllo delle nascite. Un interessante precedente storico che dimostra l’attrattiva vegetariana in termini di autonomia, anche se francamente poco auspicabile per i suoi risvolti moraleggianti e sessuofobici.
Nell’ultimo capitolo l’autrice ci invita infine a ricostruire la storia del femminismo in un’ottica vegetariana e a sviluppare una teoria e una pratica femminista-vegetariana intersezionale contro il mondo carnivoro e patriarcale. Rinunciando al privilegio di specie dell’alimentazione carnea e dando voce alle donne che ne parlano si sfida la politica sessuale della carne ad ogni pasto, ad ogni lettura. Una call to action che definisce Carne da macello non solo come un saggio femminista sul linguaggio patriarcale che sottende la violenza comune contro animali e donne, ma come un libro militante che invita ad un’azione personale e diretta i cui mezzi siano in accordo con i fini.
Nella prefazione all’edizione per il decimo anniversario, Carol J. Adams scrive:
«Non propongo nemmeno una visione essenzialista delle donne. Non credo affatto che le donne siano per natura più protettive degli uomini o abbiano un’indole pacifista, malgrado molte fonti femministe vegetariane ne siano convinte. Io credo che chi possiede meno potere, all’interno di una cultura dominante, sia più incline a cogliere altre forme di sottomissione. Le posizioni di privilegio resistono all’autocritica, quelle di sottomissione no» (p. 34).
Una puntualizzazione necessaria perché lungo tutto il libro, e soprattutto nella scelta e nell’analisi dei testi proposti, si ritrova continuamente l’archetipo patriarcale della madre protettiva, l’associazione tra natura e femminile, l’eterno ritorno delle dicotomie binarie di maschile e femminile, natura e cultura, animale e umano. Sicuramente in questo testo non si opera una sufficiente critica dell’adesione alle norme del genere e una convincente decostruzione dei binarismi che Adams stessa identifica come base fondante della gerarchia uomo bianco / non bianco / donna / animale. Nonostante questo, Carne da macello resta una pietra miliare di necessaria lettura all’interno del discorso eco-femminista e antispecista, insieme ad altre autrici come, per esempio, Greta Gaard. Inoltre, nei trent’anni trascorsi dalla prima pubblicazione del libro, in tutto il mondo si sono sviluppate teorie e pratiche antispeciste, transfemministe decoloniali e queer che ci mostrano come sia possibile attualizzare l’opera di Carol J. Adams e ripristinare il referente assente senza aderire a nessuna forma di essenzialismo sulla natura maschile e femminile e sulla definizione del genere binario legato al sesso biologico.
di CDL Felix
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Note
[1] Per un approfondimento sui temi di veganismo nero e decoloniale si veda delle sorelle Aph Ko e Syl Ko, AFRO-ISMO. Cultura pop, femminismo e veganismo nero, VandA, Milano 2020.
[2] «Il pensiero femminista radicale partecipa linguisticamente allo sfruttamento e alla negazione del referente assente. Macella lo scambio culturale animale/donna raffigurato nello schema del referente assente e rivolge il proprio interesse esclusivamente alle donne, capitolando così di fronte a quel referente assente che appartiene alla stessa struttura che vorrebbe modificare.» Carol J. Adams, Carne da macello, p. 117.
[3] «Nel fondo della mia rivolta contro i forti, il più remoto orrore che ricordo è per le torture inflitte alle bestie. […] È che tutto va insieme, dall’uccello di cui si distrugge la covata, fino ai nidi umani decimati dalla guerra. La bestia muore di fame nella sua tana di terra, l’uomo muore lontano dai confini. E il cuore della bestia è come quello umano, il suo cervello è come quello umano, suscettibile di sentire e di comprendere. Malgrado si calpestino i diritti e la vita degli animali, calore e scintilla si risvegliano sempre.Fino allo scolatoio del laboratorio, la bestia è sensibile alle carezze o alle brutalità. È soggetta più spesso alla brutalità. Quando una sua parte del corpo è sviscerata, si continua con l’altra, talvolta, malgrado le corde la immobilizzino, si torce per il dolore nel tessuto delicato delle sue carni in cui si lavora. Allora una minaccia o un colpo gli insegna che l’uomo è il re degli animali. […] Forse la nuova umanità, al posto delle carni putrefatte a cui siamo abituati, avrà degli impasti chimici contenenti più ferro e principi nutrienti privi di sangue e della carne che assorbiamo». Louise Michel, è che il potere è maledetto e per questo io sono anarchica, a cura di Anna Maria Farabbi, Il Ponte Editore, Firenze 2017, p. 145.
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Il contrario della solitudine. Un femminismo in comune
Recensioni / Febbraio 2021Originariamente pubblicato con il titolo Feminismo em comun. Para todas, todes e todos (2018), Il contrario della solitudine. Manifesto per un femminismo in comune (2020) scritto da Marcia Tiburi è ospitato da effequ nella collana Saggi Pop. La casa editrice ha il merito di introdurre Marcia Tiburi, filosofa e femminista brasiliana altrimenti inedita al panorama italiano, selezionando all’interno della sua vasta produzione (filosofica, letteraria, artistica) un testo esplicitamente posizionato nella lotta femminista. Nella traduzione italiana, a cura di Eloisa Del Giudice, la scelta del titolo abdica a un calco letterale dell’originale portoghese, tuttavia senza alterare la proposta di un femminismo radicalmente democratico, costruito attraverso la messa in comune del dissenso di tutte, tuttə e tutti (todas, todes e todos) all’indirizzo del dispositivo patriarcale.
Ispirandosi a Foucault, Tiburi definisce il patriarcato come una forma di potere e sapere che ordina i discorsi sul criterio predicativo della verità. In altre parole, le istituzioni patriarcali autorizzano come veri i discorsi dell’ʻuomo biancoʼ (p. 52, 92), mentre dispongono su una scala di gradi gerarchici discorsi altri, a ciascuno dei quali viene negato un contenuto veritativo e di conseguenza un’autonomia politica. In ultima istanza, l’ordine veritativo della politica e l’ordine politico della verità sono una e una medesima cosa nel regime di pensiero autoritario. A ben vedere, il tema dell’autoritarismo è il denominatore comune delle più recenti pubblicazioni di Tiburi: a partire da Como conversar com um fascista: reflexões sobre o cotidiano autoritário brasileiro (2015), dove l’autrice intraprende una decostruzione dei microfascismi quotidiani; venendo all’analisi portata avanti sul piano estetico in Ridículo político: uma investigação sobre o risível, a manipulação da imagem e o esteticamente correto (2017), testo nel quale il terrorismo istituzionale è osservato nel suo carattere farsesco entro la cornice storica del golpe di Michel Temer a seguito dell’impeachment ai danni di Dilma Rousseff; approdando infine a Il contrario della solitudine (2020), diciassette brevi capitoli in cui la lotta comune per una democrazia radicalmente femminista consiste nella critica dell’autoritarismo quale si declina nella struttura patriarcale e nella sua verità grottesca (talmente terrificante da risultare ridicola, talmente ridicola da suscitare terrore): l'ideologia di genere (p. 60). Quest’ultima viene criticamente discussa nel settimo e nel decimo capitolo dopo essere stata inquadrata nel quarto capitolo fra le verità assolute del patriarcato, così riassumibili: l’identità è naturale; la sessualità è binaria; la differenza di genere stabilisce i ruoli sociali; il polo maschile gode di superiorità; il polo femminile soffre di inferiorità (p. 38).
Finché l’ideologia patriarcale pretenderà di far corrispondere i ruoli sociali a una presupposta naturalità dei sessi, a loro volta bipartiti per via assiologica, il lavoro non smetterà di essere «un vero problema di genere» (p. 27). Se il sesso è alla base della divisione del lavoro, allora il genere è la versione compiutamente socializzata del lavoro sessuale e sessualizzato. Per tale ragione, sostiene Tiburi, «non possiamo pensare al femminismo senza pensare al lavoro» (ibidem). Il binomio donna e lavoro pone la riflessione non solo sul versante politico, ma anche su quello economico. Tuttavia, Tiburi prescinde da una contestualizzazione storica e da una ricostruzione genealogica di alcuni concetti chiave a partire dai quali svolge l'argomentazione. Concetti come ʻpatriarcatoʼ e ʻcapitalismoʼ, per esempio, rischiano di risultare frettolosamente sorvolati, impedendo una più profonda comprensione del posizionamento teorico dell’autrice. Il ritmo sincopato tipico del pamphlet certamente imprime al manifesto la forza dialettica del pensiero critico, giocando però a detrimento di una riflessione sulle condizioni di possibilità della presa di parola da parte di Tiburi. Solo raccogliendo le tracce disseminate nel testo possiamo tentare di risalire alle premesse storiche e filosofiche di ʻpatriarcatoʼ e ʻcapitalismoʼ dalle quali Tiburi muove. Vale la pena riportare estesamente un passaggio:
Se pensiamo in termini di segni usati per identificare i corpi, diremo che la donna è l’essere identificato per servire al mondo del privilegio patriarcale. Sotto il segno del capitalismo, il mondo è entrato in un divenire donna così com’è entrato in un divenire nero nel senso di identificazione con lo scopo dell’asservimento generale di tutti. Alcuni femminismi sono riusciti a trasformare il segno donna in qualcosa di positivo, ma sta di fatto che, nel patriarcato – che equivale al capitalismo –, le donne sono sempre state figure negative, un ʻaltroʼ creato per l'asservimento (pp. 77-78).
Da un punto di vista storico, l’equivalenza di patriarcato e capitalismo circoscrive il focus sul patriarcato in epoca moderna, sebbene la storia del patriarcato sia notoriamente più longeva. Da un punto di vista filosofico, notiamo come Tiburi ponga l’accento sulla trasformazione impressa nel patriarcato dall’emergere del capitalismo. Tiburi non sembra chiedersi, piuttosto, come il patriarcato si trasformi a partire da se stesso: né in senso diacronico rispetto a sistemi patriarcali che precedono la modernità né in senso sincronico rispetto a sistemi altri dal patriarcato. Il sistema capitalista è indubbiamente uno di quei sistemi altri che in epoca moderna entra in accoppiamento strutturale con il sistema patriarcale. Nonostante s’intersechino, i due sistemi sono comunque operativamente autonomi.
Non converrebbe risalire a quel contratto sociale grazie al quale gli uomini si sono associati, eguali detentori di diritti civili e politici? Seguendo la pista genealogica tracciata da Carole Pateman (2015; ed. or. 1998), filosofa e femminista critica nei confronti di una certa tradizione del pensiero liberale moderno, la negatività attribuita alle donne cui si riferisce Tiburi potrebbe riconfigurarsi come diritto originario degli uomini di negare la politicità degli spazi femminili – siano essi i corpi stessi delle donne o i territori assegnati alle loro cure. Il contratto lavorativo è solo un volto del contratto sociale, quel volto che è stato negato con maggiori difficoltà dal momento che ha chiamato in causa fin da subito una classe di uomini a servizio di un’altra classe di uomini. L’altro volto del contratto sociale è il contratto sessuale, il quale ha sancito l’eguaglianza degli uomini – ognuno essendo proprietario di se stesso – al costo dell’asservimento delle donne. Dunque, potrebbe essere ricondotta alle premesse storiche e filosofiche di cui sopra la dialettica serva-signore che Tiburi ravvisa nella condizione orizzontale occupata positivamente dagli uomini in relazione alla condizione verticale che vede le donne occupare il polo negativo (Tiburi 2020, p. 45). A questo proposito, Tiburi afferma:
Il patriarcato si costituisce attraverso un’equazione: da un lato stanno gli uomini e il potere, dall’altro le donne e la violenza. Il potere che ratifica la violenza contro l’altro sta al sadismo come la sottomissione sta al masochismo. Le donne non possono esercitare il potere politico, economico e di conoscenza, e sono vittime della violenza. Gli uomini esercitano il potere e la violenza contro le donne. Per questo il movimento femminista è anche una lotta contro la violenza esercitata nell’intento di distruggere le donne quando non servono sessualmente, maternamente o sensualmente, quando non producono, non consumano e anche quando criticano questo stato ingiusto. Questo stato di cose verrà trasformato solo dirigendoci verso la produzione di una coscienza femminista veramente radicale (pp. 104-105).
Una prima questione riguarda il valore d’uso per il quale «i corpi sono stati misurati» (p. 23). Il titolo del terzo capitolo, Siamo tutte lavoratrici, rimanda infatti a «la più ampia sfera del lavoro, nella quale è in gioco ciò che si fa per l’altro per necessità di sopravvivenza» (ibidem). Questi pochi indizi ci permettono quantomeno di leggere fra le righe una concezione estesa del lavoro che, se portata alle sue estreme conseguenze, agevolerebbe una teoria generale dello sfruttamento. Le implicazioni di uno sfruttamento generale non vengono approfondite da Tiburi, mentre sono state sviscerate da Christine Delphy, sociologa e femminista francese. Nonostante si riallacci a una scuola di pensiero e a un contesto storico differente, la riflessione di Tiburi potrebbe trovare un'alleata nella definizione primaria di sfruttamento offerta da Delphy: «appropriazione del lavoro altrui» (Delphy 2020, p. 89). Alla distinzione di due economie – il modo di produzione patriarcale (o domestico) e il modo di produzione capitalista – corrisponde il vantaggio di individuare altrettanti beneficiari del profitto: da una parte, nella casa, il capofamiglia che estorce gratuitamente lavoro domestico; dall’altra parte, nella fabbrica, il capitalista che estorce plusvalore a fronte della forza-lavoro salariata. Se, al contrario, si cede all’insidiosa equivalenza di capitalismo e patriarcato – sulla quale Tiburi non fa dovuta chiarezza – si rischia di sovrapporre l’economia capitalista all’economia patriarcale. In sintesi, se il mercato viene naturalizzato come il modello privilegiato delle relazioni domestiche, la donna diventa automaticamente riproduttrice di forza-lavoro, ossia di quella merce (il lavoratore) che produce plusvalore (profitto capitalista), perdendo così per strada la violenza dello sfruttamento specificamente domestico. Riconoscendo autonomia sistemica ai diversi modi di sfruttamento non s’incorre, a nostro avviso, nella depoliticizzazione della sfera domestica: semmai, si fa luce sulla gestione politica dello sfruttamento domestico. In base alle nostre ultime considerazioni, il seguente stralcio di Tiburi può essere letto dirimendo il più possibile gli equivoci, a condizione di dare rilievo alla similitudine introdotta dalla particella ʻcomeʼ – a condizione, cioè, di cogliere il peso metaforico implicito nell’equivalenza:
Ora, il lavoratore è il servo del capitalismo, il che equivale a dire che è come la donna del capitalismo. La donna del lavoratore, dal canto suo, è come la sua serva. Questo significa che, di fronte a una donna, sia essa nella condizione di sposa o puttana, il suo sfruttatore – sia esso a sua volta sfruttato, come nel caso del lavoratore – è in un modo o nell'altro un capitalista (Tiburi 2020, p. 78).
Una seconda questione, che torna a più riprese nel testo, riguarda i marcatori di oppressione (p. 33), ovvero tutti i segni identitari che vengono eterodiretti dal patriarcato. Nella misura in cui quest’ultimo è «caratterizzato dall'associazione intersezionale di genere-razza-classe-sessualità e – aggiungiamo – età e plasticità» (p. 54), il femminismo sarà chiamato a cambiare di segno la rete di intersezioni. Le insidie della investitura dialettica sono inevitabilmente tenute in conto, pertanto un’autocritica interna al femminismo sarà una condizione necessaria (sebbene, da sola, non sufficiente) affinché la lotta non si configuri né come un'ʻutopia matriarcaleʼ né come un “femminismo di moda” (ivi p. 40). In primo luogo, allora, il femminismo è una teoria e una pratica etico-politica della coscienza di sé: mettendo in discussione una possibile deriva autoritaria del femminismo stesso, la lotta potrà resistere non solo a un'inversione della marcatura per mera sostituzione di servi e padrone, vittime e carnefici (p. 103), ma anche a una femminilizzazione del patriarcato. Con l’ultima espressione alludiamo a un femminismo di Stato, ovvero a una cattura del femminismo da parte dello Stato patriarcale, tale da sancire il passaggio dal femminismo (bistrattato) al femminile (elogiato) (p. 62).
In secondo luogo, il femminismo è una teoria e una pratica poetico-politica indirizzata al «riscatto delle parole» (p. 96), vale a dire a una risignificazione della marchiatura. Come possono le donne riscattarsi dalla sottomissione masochistica nella quale sono state collocate (anche da alcune tendenze femministe)? Come reinventare, dunque, le parole? Attraverso il dialogo, suggerisce Tiburi. Tutto l’opposto di una via pacificata al consenso, «il dialogo è un movimento tra presenze che differiscono tra loro» (p. 55). Sgravato dal bagaglio rappresentazionale della svolta linguistica, il dialogo non è medium simbolico di resoconti più o meno fallaci, più o meno devianti di una realtà patriarcale presupposta come unica e vera. Al contrario, il dialogo è il processo con cui territori di senso prima sommersi emergono per collisione.
«In quanto riconoscimento del nostro spazio nella natura e motto della costruzione politica» (p. 135), l’ecofemminismo indicato da Tiburi come «il futuro che dobbiamo conquistare» (ibidem) è un esempio emblematico della molteplicità di voci interne al femminismo. Dal lato ecologico, l’ecofemminismo pone l’accento sulla natura che è stata resa invisibile dal contratto sociale (Serres 2019); dal lato femminista, l’ecofemminismo denuncia la mossa essenzialista con la quale il naturalismo ha assimilato il polo femminile al polo naturale, concepiti entrambi come risorse infinitamente sfruttabili. Il fatto che all’interno di numerosi collettivi indigeni dell’Amazzonia, brasiliana e non, decisamente non tutte siano disposte a dichiararsi ʽecofemministeʼ la dice lunga sulla pluralità di prospettive che difficilmente si lasciano riassumere in un’unica espressione. In breve, quante sono le voci a prendere parola altrettanti sono i femminismi, quanti sono i concetti di ʻnaturaʼ e ʻcorpoʼ espressi altrettante sono le lotte ecologiche e femministe mobilitate.
Affinché lo spazio di parola dell'altra (Tiburi 2020, p. 66) non sia trasformato dall’egemonia concettuale dell’occidente in uno spazio di morte filosofica, il dialogo non potrà che far emergere, anziché negare, le differenze con le quali, agendo di concerto, pensare concetti talmente singolari da avere in comune almeno la lotta: la convergente dissonanza di molteplici istanze anti-patriarcali.
di Giulia Gottardo
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Bibliografia
C. Delphy, Per una teoria generale dello sfruttamento. Forme contemporanee di estorsione del lavoro, trad. it. di D. Ardilli, ombre corte, Verona 2020.
C. Pateman, Il contratto sessuale. I fondamenti nascosti della società moderna, Moretti & Vitali, Bergamo, 2015.
M. Serres, Il contratto naturale, trad. it. di A. Serra, Feltrinelli, Milano 2019.
M. Tiburi, Como conversar com um fascista: reflexões sobre o cotidiano autoritário brasileiro, Record, Rio de Janeiro 2015.
M. Tiburi, Ridículo político: uma investigação sobre o risível, a manipulação da imagem e o esteticamente correto, Record, Rio de Janeiro 2017.
M. Tiburi, Il contrario della solitudine. Manifesto per un femminismo in comune, trad. it. di E. Del Giudice, effequ, Firenze 2020.