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Filosofia del vegetale. Un’antologia
Recensioni / Settembre 2022La pubblicazione di Philosophie du végétal. Botanique, épistémologie, ontologie. Textes réunis par Q. Hiernaux conferma le attese suscitate dalla dicitura della collana che la casa editrice Vrin (Parigi) propone per la collocazione del volume: trattasi davvero di un testo chiave di filosofia del vegetale. E lo è almeno per due semplici motivi. Primo, l’antologia – questa è la natura del volume – mette a disposizione in traduzione per un pubblico francofono brani di undici opere di filosofia vegetale e di botanica filosofica: opere che possono ritenersi rilevanti o perché storicamente influenti per lo sviluppo degli studi botanici, o perché significative per le posizioni e le prospettive sugli studi in oggetto, o perché corroboranti alle linee di ricerca in corso. Secondo, l’operazione di cernita e raccolta dei brani operata da Quentin Hiernaux rappresenta un tentativo organico e ragionato di messa a punto dello stato dell’arte di un ordine di saperi, se non si vuole osare con ‘disciplina’, attualmente molto operosi che, oltre a offrire un numero crescente di pubblicazioni, sembrano cercare una propria definizione (filosofia vegetale, filosofia della biologia vegetale, botanica filosofica ecc.) e una loro costituzione disciplinare (si pensi all’ormai nemmeno troppo recente manifesto, scritto nei primissimi anni Duemila, per inaugurare la cosiddetta Neurobiologia vegetale), fornendo così il doppio servizio d’evidenziare le radici storico-teoriche dei dibatti attuali (p.e. l’intelligenza vegetale o la domanda sui diritti per le piante) e di dare consistenza storica, teorica ed epistemologica ai dibattiti stessi.
Per il fatto che il curatore sembra avere sotto gli occhi sia la totalità del quadro filosofico e scientifico entro cui le ricerche sul vegetale si sono, nel corso dei secoli, talvolta manifestate o talaltra inabissate, sia la posizione da cui, oggi, i sostenitori e i detrattori prendono parola, destinare il volume ai soli specialisti o aspiranti tali è un’operazione editoriale comprensibile, per non dire scientificamente necessitata dalla “proliferazione” di nuovi settori all’interno della classificazione deweyana, ma decisamente riduttiva. Decidere su quale scaffale della biblioteca collocare un libro, con la titubanza o la risolutezza che si dà di caso in caso, è l’ultimo (oppure il primo?) momento delle fasi di realizzazione del libro stesso, e non è mai un’operazione neutra: incide sui percorsi di ricerca e decide il destino di una disciplina, comprese le relazioni che essa intrattiene con le altre. Ora, il fatto che una lettura attenta del volume faccia pensare che la dicitura “filosofia vegetale”, pur necessitata come ho detto, non renda del tutto merito alle varie ratio che si possono rintracciare percorrendo i diversi piani di lettura (cui a breve accennerò) dice forse qualcosa sui contorni e sull’autonomia dell’insieme di questi saperi, e interroga, al di là delle contingenti divisioni in settori disciplinari, sulla bontà del farne una disciplina a parte, a discapito della conoscenza nel suo complesso. Philosophie du végétal è sì un’antologia di filosofia vegetale, ma è anche e variamente, soprattutto in base alle competenze e alla provenienza di chi la legge, un’antologia di storia del pensiero scientifico (in filigrana: l’istituirsi della botanica vs la medicina, la farmacologia e lo studio delle piante medicinali, l’intermediazione araba nella conservazione e nello sviluppo delle scienze, lo sviluppo del metodo scientifico moderno e la storia dei metodi di classificazione delle specie), un’antologia di filosofia della scienza (p.e. ci sono cenni al dibattito sull’anima e sul calore come principio vitale, alla nascita della biologia moderna, allo sviluppo del pensiero trasformista ed evoluzionista) e, percorso ancora più interessante, un’antologia di storia della filosofia (un esempio su tutti: la ricezione pervasiva dell’aristotelismo) – soltanto per limitare la restituzione all’esperienza del lettore che io incarno. Perché, allora, verrebbe da chiedere, dedicare a un (s)oggetto escluso una disciplina a parte se l’intento di partenza è quello di toglierlo dallo sfondo e dargli spessore, invece di procedere a una riscrittura dall’interno delle discipline? Perché il bordo, e non la piega?
Il lettore si trova tra le mani un volume compatto di oltre quattrocento pagine che rappresenta uno degli esiti della ricerca di Hiernaux, sapientemente istruttivo nei confronti del lettore anche meno avvezzo e teoreticamente generoso verso l’intero dibattito. Infatti, l’“Introduzione generale” e le “Introduzioni” specifiche alle singole sezioni, così come la ricca “Bibliografia”, pur corredando il volume come vere e proprie mappe a uso e consumo di tutti, affinché ciascuno possa attraversare il testo con il proprio passo – l’antologia si presenta così come uno strumento fruibile più volte e secondo le diverse intenzioni –, sono anche dei saggi a sé stanti, delle opere dentro l’opera, in grado di far intravedere, per quanto discretamente, la postura filosofica del curatore. Postura la cui cifra potrebbe essere restituita sotto la forma del tentativo teorico attento e delicato, al limite dell’equilibrismo, di non agire alcuna cattura del fenomeno, ma di lasciarlo proliferare: per paradosso, stare fermi per lasciare che sia il vegetale a venirci incontro, lasciare che sia lui, “senza volto e senza sguardo” (p. 7), a guardarci. Un simile equilibrismo è tutt’altro che una fascinazione che lascia il tempo che trova: è piuttosto e innanzitutto la manifestazione di un’etica ecologica rispetto ai rapporti che intratteniamo con altre specie e altri regni, cioè con altri modi di fare mondo. Ancora di più, è l’indice di un’ecologia epistemologica che riguarda il rapporto tra soggetto di conoscenza e oggetto conosciuto, e il riconoscimento dei limiti, intesi anche come vie di uscita, dati dal fatto di trovarsi irrimediabilmente in una posizione di partenza che insieme ci condanna e ci salva, se si è disposti a lasciarsi catturare. Accostandoci, infatti, alle sempre più numerose pubblicazioni che si annoverano nell’elenco della filosofia del vegetale, per usare la dicitura di Vrin, viene spesso da chiedersi che cosa rappresenti, nell’economia del discorso, il vegetale: se il reale tentativo, per quanto possibile, di mettere scientemente a tema una forma di vita altra o il rinnovarsi del discorso sull’umano che, normalizzando le altre forme di vita, non fa che trovare nelle differenze di grado le ragioni della propria ratio, eludendo così la differenza di naturapalesata dall’altro e il problema da essa posto. Se è vero che la filosofia ha sovente indagato il rapporto costitutivo di attività e passività, tema che è anche della filosofia del vegetale, quanto è a suo agio quando tale rapporto riguarda prima di tutto sé stessa e la propria costituzione? A intendere che, forse, un contributo filosofico sugli studi clorofilliani potrebbe arrivare solo dopo un momento di esposizione alla passività, solo dopo che i suoi capisaldi mereologici e assiologici si sono fatti attraversare.
Hiernaux sceglie di ripercorrere l’intera storia delle nostre conoscenze filosofico-scientifiche: dal III sec. a.C. agli ultimi decenni degli anni Duemila, e si serve di rappresentanti proveniente da botanica, biologia e filosofia, di diverse regioni dell’“Occidente”, confermando così l’operazione critica di stabilizzazione della disciplina vegetale proprio all’interno di quel paradigma scientifico ed epistemologico che lo ha escluso, il nostro, e che – aggiungo – si è costituito anche in virtù di questa esclusione. Si tratta, va detto, di un’operazione ben consapevole, come dimostra il fatto che, qui (p.e. p. 258) e in altri luoghi (penso a Du comportement végétal à l’intelligence des plantes ?, Quæ 2000), la più ampia ricerca di Hiernaux restituisce notizia di altri paradigmi di cui, per esempio, l’antropologia ci dà conto e che la nostra filosofia non dovrebbe più trascurare, in cui il vegetale non ha mai avuto il ruolo di sfondo, come Bruta Natura, e nei quali la separazione con l’umano, per non parlare della sua subalternità, non è stata nemmeno lontanamente contemplata.
I brani presentati sono suddivisi in tre sezioni: 1. Storia filosofica della botanica e statuto della pianta; 2. Epistemologia delle scienze vegetali; 3. Ontologia ed etica del vegetale. L’obiettivo della sezione 1 è di «riscrivere la problematica della trattazione delle piante nella sua dimensione storica» «raggruppando i testi dedicati alla storia filosofica della botanica e allo statuto della pianta», con il corollario non secondario di «mostrare il potenziale filosofico della botanica» (p. 9, trad. mia). Interpellate le voci del coro composto da Teofrasto (371-288 a. C.), Andrea Cesalpino (1519-1603), Julien Offray de la Mettrie (1709-1751) e Agnes Arber (1979-1960), veniamo a conoscenza delle ricezioni e dei commenti alle opere di Aristotele, Cartesio, Goethe – per citare i più noti. Ciò che lega i primi quattro capitoli della Historia Plantarum di Teofrasto, ritenuto il fondatore della Botanica nella sua prefigurazione di scienza sperimentale, giacché le sue ricerche «s’ispirano all’esigenza di tener conto dei fatti e di limitare la trascendenza» (cfr. nota introduttiva di J. Tricot all’edizione de La Métaphysique, Vrin 1948, p. 534, trad. mia), il divin parlatore come lo ebbe a soprannominare il maestro Aristotele, di cui Teofrasto coniuga l’approccio naturalista alle influenze filosofiche del pitagorico Menestore di Sibari e dei fisiologi greci, Anassagora, Empedocle e Democrito; i primi cinque capitoli del De Plantis LIBRI XVI di Cesalpino, botanico, medico, anatomista e filosofo, allievo di Luigi Ghini e suo successore alla cattedra di botanica e al ruolo di prefetto dell’orto botanico dell’Università di Pisa (cfr. C. Colombero, Il pensiero filosofico di Andrea Cisalpino, «Rivista Critica di Storia della Filosofia», 32 (3), p. 270), perfetto rappresentante della tensione tra la tradizione dei saperi compilativi medievali sulle piante e la botanica teorica moderna su base fisiologica, cui si deve il contributo per la fondazione teorica della scienza botanica emancipata da medicina e farmacologia, pur nel solco della ricezione di Aristotele e Teofrasto; il breve testo del botanico, medico e filosofo de la Mettrie, Homme-Plante, esempio di riaffermazione della gerarchia del vivente di stampo aristotelico entro la cornice del meccanicismo cartesiano, espresso fedelmente dall’accostamento della pianta alla macchina; il capitolo quinto di The Natural Philosophy of the Plant Form della botanica Arber, allieva della botanica Ethel Sargant, traduttrice di Versuch die Metamorphose der Pflanzen di Goethe, prima donna botanica a essere accolta dalla Royal Society e prima donna insignita con la medaglia d’oro dalla Linnean Society of London per i suoi studi in anatomia e morfologia vegetale, che prendono posto accanto ai suoi studi di storia della botanica e di filosofia botanica, influenzati da Aristotele e Cisalpino, come pure da Spinoza, Bacone e de Condolle (cfr. per approfondire la figura di Arber, il saggio premessa di L. Tongiorgi Tomasi in A. Arber, Erbari. Origine ed evoluzione 1470-1670, Aboca 2019): è il tema dell’“ordinamento generale del mondo” o della continuità tra i regni, o per meglio dire delle forme di vita, a partire dalle determinazioni comuni che, da una parte, hanno accostato le forme di vita mostrandone la similitudine (fino ad arrivare all’idea trasformista delle variazioni individuali in seno a una norma o a un tipo specifico) ma che, dall’altra, hanno generato gerarchie pregiudizievoli circa la positività di cui ciascuna forma si fa portatrice. Se l’impronta zoomorfica che ha connotato, fin dal battesimo aristotelico, gli studi naturalistici (non solo quelli sulle piante!) sembrerebbe inevitabile, oltre che metodologicamente giustificata dal bisogno di spiegare ciò che è meno noto per mezzo di ciò che è più noto, è quantomeno opportuno considerare il rischio di distorsione che comporta prendere il modello animale come riferimento per gli studi dedicati ad altre forme di vita e per la conoscenza del vivente in generale (p.e. p. 25). «Fino alla fine del XIX secolo, la botanica si è presentata come scienza dei viventi non-animali, raggruppando indifferentemente lo studio delle piante e delle alghe, quello dei funghi, dei licheni, e anche dei coralli o dei batteri. Questi esseri, al di là o più tradizionalmente “al di qua” dell’animale che non sono, possono anche essere avvicinati in maniera non gerarchica e positiva, cioè secondo le loro specificità e i modi di vita propri» (p. 11, trad. mia). Dei tentativi erano stati fatti: già da Teofrasto si rintraccerebbe l’esercizio di studiare le piante “per sé stesse”: non secondo la caratterizzazione difettiva, secondo mancanza, rispetto al modello delle forme animali, ma per la positività che caratterizza specificamente la forma di vita vegetale, ovvero la capacità di variazione e l’elevata plasticità. «Quindi, che cosa significa, per la pianta, avere un corpo?» (p. 11, trad. mia; la formulazione fa venire in mente l’articolo: P. Calvo, What is it like to be a plant?, «Journal of Consciousness Studies», 24, 2017, 205–227). Quello che unisce «il pensiero naturalista della tradizione, almeno dopo Teofrasto, passando per la botanica moderna, per arrivare alla morfologia goethiana di Agnes Arber [è che] il corpo della pianta mette sottosopra l’organizzazione animale del tutto e della parte» (p. 12l, trad. mia). Sembra essere già percezione aristotelica che la differenza tra forme di vita animali e forme di vita vegetali stia nel fatto che le prime sono di tipo gerarchico e finalista, le seconde sono, per dirla à la Mancuso, organizzazioni orizzontali, poiché la loro crescita iterattiva e indefinita rende difficoltosa, se non impossibile, la delimitazione delle loro parti. Da una simile differenza di organizzazione, che altro non è che un differente rapporto organo/organi-organismo, segue un diverso senso della totalità: indivisibile per le forme animali, divisibile per le forme vegetali; un diverso senso dell’autonomia o dell’individualità, cioè dell’uno.
La sezione 2, su epistemologia e filosofia della biologia vegetale, è attraversata da due domande: «quale posto il vegetale occupa nello sviluppo della biologia del XX secolo?», «su quali principi e metodi si basa l’approccio scientifico del vegetale?» (p. 12, trad. mia). Per districarsi, Hiernaux seleziona due temi conduttori: il comportamento e l’individualità. «Dal XVIII secolo, i progressi sperimentali delle scienze naturali danno l’impressione che il concetto di anima possa essere abbandonato a profitto di un meccanismo per comprendere la vita delle piante. Dalla fine del XIX secolo, la concezione del vivente basata sull’anima fa progressivamente spazio alla biologia contemporanea. Poco a poco, s’impone il paradigma evoluzionista. La fisiologia inaugura importanti scoperte sperimentali sul funzionamento delle piante che rivoluzionano la botanica. Questa nuova disciplina di laboratorio, con protocolli e strumenti propri, si diffonde per tutta l’Europa. […] Gli sviluppi della fisiologia vegetale cambiano il rapporto verso la sensibilità delle piante. […] L’esclusività del registro delle spiegazioni causali e meccanicistiche non può essere ormai considerato legittimo» (pp. 127-128, trad. mia). Si affina così un’attenzione sempre maggiore verso la possibilità di rintracciare un ordine psichico o cognitivo anche nelle forme vegetali. Autrici e autori principali di questa sezione sono Léo Errera (1858-1905), Anthony Trewavas (1939), Fatima Cvrčková – Helena Lipavská – Viktor Zársky, Ellen Clarke; con loro si offre l’occasione di richiamare anche la scuola tedesca di J. von Sachs e W. Pfeffer, il lavoro di R. Francé, gli studi di Linneo e di Darwin, ma anche Porfirio, Duns Scoto, Leibniz, financo Simondon. Attraverso la proposta del dattiloscritto della conferenza del 1900 Les Plantes ont-elles une âme? di Errera, professore di botanica con formazione filosofica, fervente evoluzionista, istitutore del primo laboratorio belga di anatomia e fisiologia vegetale presso l’Université Libre de Bruxelles, già attento alle ricerche sui fenomeni di variazione elettrica rintracciabili nei vegetali tanto quanto nei fenomeni nervosi, che andrebbero a sostenere, in un quadro darwiniano, la continuità tra forme di vita oltre le fratture ontologiche tra regni, ricerche al centro dei dibattiti contemporanei; del capitolo nono di Plant Behaviour and Intelligence di Trewavas, fisiologo vegetale impegnato nel campo della segnalazione chimica delle piante, esponente della Neurobiologia vegetale, sostenitore dell’irriducibilità della spiegazione dei comportamenti a un ordine esclusivamente genetico o chimico aprendo così alla possibilità di una comparazione etologica con gli animali più semplici, osservatore e teorizzatore della comunicazione elettrica nelle forme vegetali spiegata in termini di “cognizione minima”; dell’articolo Plant Intelligence Why, why not or where? dei biologi praghesi Cvrčkovà, Lipavská e Zársky, che introducono il lettore alla domanda sull’intelligenza vegetale, contribuendo a fare ordine in vista della costruzione di una discussione scientifica sul tema: si delinea come il dibattito sul comportamento vegetale sia vincolato ad altri due aspetti che, nel corso dei secoli, sia in filosofia sia nelle scienze sperimentali, hanno pregiudicato la stessa ricerca fisiologica vegetale: 1) la mancanza negli organismi clorofilliani di un sistema nervoso, 2) la difficoltà di circoscrivere in essi l’individuo. Quello che preme sottolineare, per mostrare il dialogo tra le due sezioni del volume, è che la disquisizione tra sostenitori e detrattori del comportamento vegetale intelligente – ci sia perdonata la ridondanza – si gioca all’interno e nel confronto con un paradigma, il nostro, figlio, da una parte, della vulgata della tradizione aristotelica dell’anima (si noti il passaggio e l’evoluzione storica del concetto di “anima”, attraverso quello di “calore”, fino a quello di “comportamento”) e, dall’altra, della tradizione cartesiana del dualismo mente-corpo. Com’è possibile attribuire un’intenzionalità a un essere privo di mente? E anche, come circoscrivere e attribuire comportamenti a una soggettività che non è un individuo? Gli studi sul comportamento vegetale, allora, rappresenterebbero il viatico per proporre un altro paradigma metafisico (e un’altra assiologia) alternativo a quello di matrice zoocentrica. Sulle difficoltà, e i paradossi che ne conseguono, di far combaciare l’organismo verde e il concetto d’individuo delle scienze biologiche, ricade la scelta dell’articolo Plant individuality: a solution to the demographer’s dilemma di Clarke, filosofa ed epistemologa della biologia che «trae le conclusioni biologiche del problema della grande plasticità e della variabilità delle piante, [lasciato irrisolto] da Teofrasto e da Aristotele» (p. 137, trad. mia). Dalla lettura del contributo di Clarke si evince il circolo vizioso in cui ci si trova se non si possiede un concetto chiaro di individuo vegetale in seno alla teoria evoluzionistica.
La sezione 3 è dedicata interamente all’ontologia e all’etica, che si palesano, nel quadro del volume, indiscernibili. «La riflessione ontologica sul vegetale consiste da una parte nell’interessarsi ai suoi modi di esistenza […], dall’altra ci conduce a ripensare il modo di avvicinare il mondo, l’anima, il divenire ecc. nella loro relazione con le piante»; «l’etica, invece, s’interessa al modo in cui diamo valore a certe entità o azioni nel quadro dei nostri diritti, responsabilità e doveri verso le piante» (p. 247, trad. mia). L’articolo Plant-Soul: The Elusive Meanings of Vegetative Life di Michael Marder, filosofo dell’Università dei Paesi Baschi Vitoria-Gasteiz, che, all’incrocio tra fenomenologia, ecologia e pensiero politico, attribuisce al vegetale un’intenzionalità originaria non cosciente, tentando di sottrarlo sia alla definizione di essere mancante (tipica della svalutazione metafisica) sia a quella di essere indicibile (della feticizzazione pagana); e il prologo al libro La vie de plantes. Une métaphysique du mélange di Emanuele Coccia, filosofo italiano, formatosi anche sulle pagine della filosofia medievale, da cui egli deriva l’attenzione per la riflessione sulle diverse concezioni di “mondo”, lavorano entrambi per la formulazione di un paradigma maggiormente ecologico rintracciabile nel cosiddetto biocentrismo, rispetto al quale il contributo specifico del pensiero sul vegetale risiede nell’invito a ristrutturare ancora più marcatamente l’ontologia nei termini di “processo”, a detrazione di quelli di “sostanza”. Verrebbe da pensare che i concetti di “condivisione” di Marder e di “mescolanza”di Coccia vadano nella stessa direzione: mettono l’accento sulla continuità piuttosto che sulla frattura tra ordini del reale e sottolineano come il reale sia composto da intricate relazioni, se non vere e proprie relazioni di dipendenza, che riguardano anche l’umano rispetto al vegetale. “Le piante sono il mondo”, scrive Coccia, che in altri scritti arriva a radicalizzare fino al paradosso l’immagine delle piante giardinieri del giardino che siamo noi. In virtù del ripensamento delle relazioni tra mondo umano e mondo vegetale, chiude l’articolo Beyond “Second Animals”: Making Sense of Plant Ethics di Sylvie Pouteau, biologa vegetale, attiva nel dibattito sull’etica delle piante, diritti compresi. Con Pouteau, l’invito è di rivalutare il modo in cui letteralmente ci serviamo delle piante, giustificati da una visione gerarchica del mondo, alimentata a sua volta dall’ordine delle scienze naturali, per immaginarealtri rapporti possibili in cui l’utilità non sia l’unico e il solo. E, tuttavia, giunti alla fine del volume, come sollevati da una rivoluzione finalmente pensata, una frase scritta nell’“Introduzione” alla terza sezione rimette in gioco quelle che sembrano le nuove conclusioni cui siamo arrivati, e invita a ripercorrere il volume da capo, come un’ultima mano di carte sul tavolo riapre la partita: «Porsi la questione dell’autonomia della pianta verso il suo ambiente ha senso solo nella misura in cui siamo prigionieri dei nostri dualismi. Le piante, che sia per la loro cognizione senza cervello o per il loro metabolismo aperto sull’ambiente, rimescolano le carte dell’ontologia [ancora fin troppo, NdR] classica» (pp. 253-254, trad. mia).
Indizio per frequentare le pagine, sembrerebbe che l’obiettivo minimo dell’autore sia che, una volta chiuso il libro, il lettore trattenga che il vegetale sia più di una cosa inerte e meno di una cosa a disposizione (p. 19). Il che significa riconoscere al vegetale una propria agentività, financo una propria soggettività, secondo la logica per cui liberare dall’eteronomia implica riconoscere l’autonomia. Tuttavia, si tratta di un obiettivo troppo modesto alla luce dell’accuratezza con cui Hiernaux, che dà prova di essere un abile dissezionatore, taglia e ricompone i nessi alla base delle nostre conoscenze (e della nostra identità). Allora, altrove, a mio avviso, si rintraccia la vera domanda che dà l’avvio all’immaginazione di quest’antologia, declinata per la filosofia ma valida anche per gli altri saperi: «Si tratta di domandarsi non più come la filosofia ci permetta di comprendere le piante, ma come la comprensione delle piante possa trasformare la filosofia» (pp. 16-17, trad. mia). Che cosa succederebbe se un esile cirro iniziasse ad arrampicarsi su secoli e secoli di storia, pratiche e biblioteche, e con i suoi rami e germogli iniziasse a crescere e a scriverci sopra: saremmo in grado di reggere all’immagine di quella proliferazione clorofilliana o finiremmo per assomigliare di più a un edificio abbandonato?
di Veronica Cavedagna
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Roland Barthes. Che cos’è uno scandalo?
Recensioni / Febbraio 2022Cos’è uno scandalo ̶ a cura di Filippo D’Angelo ̶ raccoglie scritti inediti in traduzione italiana di Roland Barthes. Si tratta di testi composti tra il 1933 e il 1980, anno della morte dell’autore, che percorrono, quindi, tutta la sua vita. Nella raccolta sono presenti testi critici, riflessioni su sé stesso, la letteratura, la scrittura, l’arte, la fotografia, la musica. Nella Postfazione, il curatore sottolinea che «i testi di questa antologia appartengono a una vena apparentemente minore di Barthes, quella che si snoda tra i diversi volumi pubblicati in vita» (p. 210). È probabilmente per tale ragione che gli scritti qui tradotti sono passati a lungo inosservati in Italia, dove, invece, circolano già da tempo in traduzione i saggi più famosi e organici dell’autore. Eppure, nei testi qui riuniti è possibile cogliere un atteggiamento tipicamente barthesiano, cioè il legame della sua scrittura con il frammento, il commento, il diario, la scrittura “minore”, che, come sottolinea egli stesso ne La Cronaca, non indica un genere più basso, ma «un genere come un altro» (p. 190). La stessa scrittura frammentata, che sembra rappresentare il filo conduttore della raccolta, è presente anche nelle opere barthesiane più acclamate dalla critica: per fare un esempio, uno dei testi che ha avuto grande successo è Frammenti di un discorso amoroso, che propone una narrazione spezzata da vocaboli giustapposti in ordine alfabetico su cui Barthes si sofferma e da cui costruisce il suo discorso, rompendo, in questo modo, la narrazione. In Cos’è uno scandalo accade la stessa cosa, le differenze sono nella dilatazione dei tempi di scrittura (poiché il volume percorre tutta la vita dell’autore) e nella grande varietà di temi trattati.
La raccolta si apre con Primo testo, del 1933, anno in cui Barthes aveva appena diciotto anni. L’autore stesso ci ritorna anni dopo, nel 1972, e sottolinea come si tratti di un testo lontano da ciò che egli è diventato negli anni, ma che gli ha permesso di «rappresentare sulla scena di un breve scritto» (p. 13) tutti i linguaggi conosciuti grazie alle letture effettuate. Barthes è un grande lettore: tra 1930 e il 1934 ha già iniziato a leggere i più grandi scrittori francesi, tra cui Mallarmé, Valéry e soprattutto Proust. Primo testo permette, allora, di guardare il primo tentativo di scrittura di un giovane che aveva letto molto, e che si accingeva a diventare un grande saggista.
Un testo che sottolinea la passione di Barthes per la lettura è Il piacere dei classici (1944), in cui sostiene l’idea che i classici abbiano la capacità di parlare al lettore: «Non parlano mai di loro, ma di noi. Hanno posto la propria arte nell’economia dei pronomi personali» (p. 43). Afferma, inoltre, che l’eternità dei classici non sta solo nel contenuto dell’opera, nell’aver «trovato la verità», ma nell’«averla detta bene, ossia in forma incompleta, che è un abile modo di rispettarla» (p. 44). Barthes pone l’attenzione su quanto sia importante scrivere bene: «I problemi di retorica non sono né particolari, né accessori, né inutili; l’arte di parlare bene governa in modo determinante le operazioni essenziali della vita: è la chiave di tutte le superiorità» (p. 47). Pur conservando sempre l’interesse per l’attualità e i moderni, Barthes rivela il suo amore per i classici. Per lo scrittore questi ultimi «sono degli inneschi. Conta ciò che promettono» (p. 50). Il suo legame con la letteratura in generale lo porta, inoltre, a scrivere numerosi testi di critica letteraria. Nel presente volume ne sono riportati alcuni, come Appunti su André Gide e il suo Diario (1942), in cui è interessante notare come Barthes preferisca una scrittura frammentata per il «timore di rinchiudere Gide in un sistema» che non l’avrebbe mai soddisfatto (p. 21). Il testo si sgretola, presentandosi come una serie di appunti a margine del Diario. L’attenzione di Barthes per Gide è la stessa che ha per sé stesso: in Barthes di Roland Barthes (1975), dall’idea autobiografica iniziale finisce col comporre una sorta di diario in forma di frammenti e rivendica il suo diritto a essere un soggetto, cercando di distruggere così una certa immagine stereotipata che ci si può fare degli scrittori. Questo tentativo fallisce in Barthes, poiché egli continua a sentirsi incastrato dalla scrittura, ma permette di cogliere il suo interesse per l’uomo in quanto individuo unico, non richiudibile in un sistema ̶ linguistico ̶ predefinito. Il Diario di Gide viene descritto da Barthes come un’opera egoista, un tentativo di riflettere su sé stesso, in cui è possibile cogliere, tra i tanti temi affrontati, il suo amore per i classici, ma anche un elemento mistico, il cristianesimo di Gide «legato al suo destino personale» (p. 30). Per Barthes, quindi, «nel Diario di Gide il lettore troverà la sua etica, la genesi e la vita dei suoi libri, le sue letture, i fondamenti di una critica della sua opera; ma anche i silenzi, delicati guizzi d’intelligenza o di bontà, minute confessioni che fanno di lui l’uomo per eccellenza» (p. 21).
Come sottolinea Filippo D’Angelo, una delle due anime di Barthes, insieme con quella gidiana, è rappresentata da Proust. In Cos’è uno scandalo, allora, non possono mancare riferimenti a quest’ultimo, che troviamo in Le vite parallele (1971)e La maionese monta (1979). Nel primo, Barthes analizza e rifiuta l’associazione ̶ che viene spesso compiuta ̶ tra la vita di Proust e la sua opera, fino ad affermare che, in questo caso, «non è la vita a plasmare l’opera, ma l’opera a irradiarsi ed esplodere nella vita» (p. 107) e, di conseguenza, «il mondo non fornisce le chiavi del libro, è il libro che apre il mondo» (p. 107). Barthes ribalta il rapporto tra la vita e l’arte di Proust. Nel secondo testo, si chiede cosa abbia portato il romanziere, che nei primi anni di vita non era riuscito a scrivere, a produrre un’opera di così grande portata, come la Recherche. Barthes confuta l’idea secondo cui il romanzo sia nato come conseguenza del trauma per la morte della madre. Al contrario, sostiene che lo scritto proustiano abbia iniziato a prendere forma attraverso una serie di tecniche come «una certa maniera di dire “io”», «una “verità” (poetica) dei nomi» (p. 195), ma anche l’idea di «conservare gli stessi personaggi» (p. 196). Anche in questo caso è interessante notare come la penna di Barthes vada a rompere quell’immaginario in cui i critici tendono a cristallizzare un autore. È proprio distruggendo quest’ultimo che egli può restituire a Proust la propria individualità. Il secondo testo sullo scrittore della Recherche assume un carattere più personale, perché, negli ultimi anni di vita e in seguito alla perdita materna, Barthes aveva pensato a un romanzo, che si sarebbe dovuto intitolare La vita nova, ma nel suo caso la maionese non è montata.
Tra i testi della raccolta troviamo Michelet, la Storia e la Morte (1951). Si tratta di uno scritto di ampio respiro in cui Barthes si esprime sulla visione della Storia attribuibile a Michelet. Interessante, in tal senso, è l’idea per cui «per Michelet, le radici della verità storica sono i documenti in quanto voci, non in quanto testimoni» (p. 71), perché «più il documento si avvicina a una voce, meno si distacca dal corpo umano che l’ha prodotto, diventando il vero e proprio fondamento della credibilità storica» (p. 72). È attraverso questa voce che lo storico può riportare in vita il corpo del popolo. Egli in questa prospettiva ha il duplice compito di «recitare il dispiegamento della Storia» (p. 73) e di unire «al ricordo dei morti il senso della loro vita, restituendo loro una memoria universale sul piano della Storia» (p. 73). Barthes dà grande importanza a questo legame che intravede tra Michelet, la voce e il corpo dei personaggi storici, perché attratto dal corpo come «fondamento di ogni vera scrittura» (p. 209). Secondo Filippo D’Angelo questo saggio porta Barthes a considerare lo storico «in quanto artefice di una secolarizzata ressurrectio carnis» (p. 209). Anche in questo caso appare evidente la necessità dell’autore di aderire a una scrittura attenta al singolo, al corpo, all’individualità di ognuno, per arrivare a una «scienza del soggetto» che pervenga «a una generalità che non […] riduca e non […] annienti» l’uomo (La camera chiara, Einaudi, 2003, p. 20). Questo saggio, inoltre, come spesso accade nella produzione barthesiana, si riaggancia a opere più strutturate come Michelet par lui-même del 1954.
In Cos’è uno scandalo, oltre a scritti di carattere letterario e storico,sono presenti testi sull’arte e sulla fotografia. Si tratta di Matisse e la felicità della vita (1955), Il grado zero della colorazione (1978), Bernard Faucon (1978). Tali testi permettono di osservare la quantità di ambiti a cui la scrittura di Barthes si apre. In particolar modo è interessante l’attenzione dello scrittore per la fotografia e l’analisi del lavoro di alcuni fotografi. Nel 1980, infatti, due anni dopo il saggio su Bernard Faucon, Barthes dà alle stampe La camera chiara, uno scritto interamente dedicato alla fotografia. Il testo del ‘78 permette di cogliere, allora, il lavoro dello scrittore che si amplia fino a raggiungere la forma di un saggio, quello del 1980, interessato a sua volta a cogliere gli aspetti più importanti della fotografia, partendo proprio dallo studio del lavoro di alcuni fotografi come Faucon.
Il volume non presenta solo testi di critica letteraria, ma anche una lettera, Frammenti per H. (1977), indirizzata a Hervé Guibert. Ritroviamo la forma frammentata, attraverso cui Barthes scrive di argomenti come il desiderio, la sensualità e l’innamoramento. La struttura della lettera sembra permettere all’autore di esprimersi con maggiore libertà, rispettando sé stesso e la chiarezza del suo ragionamento, senza dover incasellare quest’ultimo nelle maglie di un discorso ordinato.
Sempre in forma frammentata, ma di respiro più ampio, è La cronaca (1979). Si tratta di una sorta di diario, in cui Barthes appunta pensieri, sensazioni, idee, richiamando alla memoria, ancora una volta, Barthes di Roland Barthes (1975). Il testo termina con un frammento intitolato Pausa, in cui l’autore afferma: «queste cronache sono un modo per far parlare (senza esplicitarlo, ovviamente) le voci diverse che mi compongono. In un certo senso, non sono io che le scrivo ma un insieme, volentieri contraddittorio, di voci: voci di esseri che amo e di cui prendo in prestito i valori, voci ideologiche del borghese, piccoloborghese o “brechtiano” che posso essere di volta in volta, voci arcaiche, fuori moda, voci dell’idiozia» (p. 191-192).
Scrivere per Roland Barthes è proprio questo: dare voce a diverse parti di sé, senza costringersi a mettere ordine nei pensieri, o a doverli inserire in un testo organico. E questo perché, come egli stesso puntualizza, ha «concepito la scrittura come la forza del linguaggio che pluralizza il senso delle cose e, alla fine, lo sospende» (p. 192).
Cos’è uno scandalo, nella sua eterogeneità, mette bene in evidenza due elementi appartenenti alla penna e al pensiero di Barthes: da un lato l’attenzione al frammento, dall’altro l’interesse per il soggetto in quanto individuo composito e irriducibile. Questi temi sono due facce della stessa medaglia, perché è proprio attraverso il frammento, spezzettando la scrittura, che l’autore si propone di raggiungere l’obiettivo di non schiacciare l’individualità di ogni uomo nelle maglie del linguaggio. Barthes non può rinunciare alle sue voci, diverse, a volte contraddittorie, e il linguaggio segue questa volontà. È in tale ottica che questi saggi svelano tutto il loro interesse, insieme con la possibilità di seguire le idee e i pensieri di Roland Barthes, mantenendo viva l’attenzione su quello che ancora oggi possono rivelare al lettore.
di Roberta Deliso
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Bruno Moroncini – Lacan politico
Recensioni / Giugno 2015Dalla psico-analisi all'analisi critica del soggetto politico
In Lacan politico (Cronopio, 2015), Bruno Moroncini si cimenta nell'impresa, quantomai ardita, di estrarre dal corpus letterario di uno dei pensatori più controversi dell'ultimo secolo una serie di concetti di matrice politica, rilanciando così la partita della politicità intrinseca alla pratica psicoanalitica - in particolare se di orientamento freudo-lacaniano - e insieme la riflessione sull'annosa questione del “disagio della civiltà” che, pur latitando dall’attuale orizzonte filosofico, non può che rimandare direttamente alla questione dell’ordinamento politico. L'impresa è davvero ardita, e lo è al netto di ogni retorica se si considera che lungo l'intero arco del suo insegnamento Jaques Lacan si è sempre ben guardato dal parlare esplicitamente di politica e non ha mai nascosto un certo qual disprezzo per il materiale antropologico di cui dispone ogni partito, governo o istituzione impegnati in un progetto teso a migliorare le condizioni di vita di una collettività. Significativa, a tal riguardo, è un'intervista rilasciata a Roma nel 1974: Lacan arriva qui addirittura ad affermare che gli scienziati «cominciano ad avere un'ideuzza che si potrebbero creare dei batteri resistenti a tutto, che nessuno potrebbe più fermare. Forse così si ripulirebbe la superficie della terra da tutte le cose merdose, in particolare umane, che la abitano», per poi lasciarsi andare a una fantasia: «che sollievo sublime sarebbe se tutto d'un tratto avessimo a che fare con un vero e proprio flagello, un flagello uscito dalle mani dei biologi. Sarebbe veramente un trionfo» (Lacan, 2006, p. 96).
L'aneddoto dovrebbe bastarci a diffidare dell’autore degli illeggibili Scritti qualora ci trovassimo, come accade oggi, a dover rivitalizzare un discorso politico che riversa esangue a partire almeno dal 1989, data che inaugura la cosiddetta “fine della storia” e consegna all'ultimo uomo quella condizione di languido tormento, quell'eterno sabato di nietzscheana memoria che è un po' la cifra della civiltà occidentale post-moderna o, che dir si voglia, contemporanea. L'invito di Moroncini, invece, è quello di scavalcare la radicale impoliticità del pensiero di Lacan per provare a scovare, nei meandri della sua scrittura mistica e respingente, dei punti cardinali per la riflessione politica odierna e degli strumenti concettuali raffinati che possano orientare una critica del presente alternativa all’usuale paradigma marxista.
Il libro si apre con un dialogo serrato tra lo psicanalista francese e Alain Badiou sulla possibilità, per le scienze umane, di individuare una logica collettiva sulla quale fondare movimenti di resistenza, ovvero degli insiemi politici che possano alterare l'ordine di cose esistente. Attraverso una dettagliata analisi de Il tempo logico e l'asserzione di certezza anticipata (Lacan, 1974, pp. 191-207)¹, forse lo scritto che sintetizza al meglio le basculanti e difficili relazioni tra psicanalisi e politica, Moroncini mostra come per entrambi gli autori il cominciamento del politico possa essere individuato nel processo di decifrazione del reale in cui ogni singolo soggetto è necessariamente implicato, e evidenzia come lo stesso processo, che per la psicanalisi non è altro che il meccanismo attraverso cui si istituisce il soggetto individuale, sia assunto da Badiou come direttiva pratica per la creazione di un movimento politico.
Il tentativo di far rientrare la psicanalisi all'interno della prospettiva rivoluzionaria-comunista, però, deve fare i conti con alcuni fra i postulati più importanti del pensiero di Lacan: «Se Lacan parte dal soggetto singolare - singolarizzato dal significante che lo rappresenta nell'ordine simbolico -, il rapporto intersoggettivo non potrà mai essere pensato come preesistente e fondante, ma dovrà essere compreso come il risultato di uno scambio ambiguo e complesso fra il soggetto e l'Altro. Nè appunto quest'ultimo può essere confuso con un'intersoggettività fungente di stampo fenomenologico; l'Altro da questo punto di vista è solo una batteria ordinata di significanti e non è né un Soggetto-sostanza, come lo spirito hegeliano, né una pluralità di soggetti da sempre in relazione fra di loro come per Husserl o per Arendt. Per Lacan il soggetto è sempre quello barrato che ex-siste rispetto all'Altro, che, giusta la figura topologica dell'otto interno, è dentro-fuori l'Altro. Perché si costituisca qualcosa come una relazione intersoggettiva o anche un'organizzazione politica nel senso di Badiou, è necessario allora partire dal tentativo di decifrazione che ogni soggetto fa per proprio conto di ciò che vuole l'Altro dal momento che il significato soggettivo è contenuto in quest'ultimo come un tesoro sta nascosto in uno scrigno (è il motivo d'altronde per cui Lacan lo chiama il tesoro del significante). Una decifrazione appunto ai limiti dell'impossibile dal momento che l'Altro è (l')inconscio» (Moroncini, pp. 29-30).
Porre l'accento sulla natura costitutivamente separata del soggetto mina infatti alle basi la possibilità stessa di un'intersoggettività immediata, assunta spesso dalla riflessione filosofica alla stregua di un dato naturale e appunto postulata nella riflessione di Badiou, che sembra occuparsi della definizione di una soggettività collettiva senza minimamente problematizzare quella del singolo. Si staglia con precisione, in questo passaggio, la differenza radicale che distanzia la psicologia di Lacan dalla filosofia e che rende impossibile, anche per Badiou, l'assimilazione del lacanismo a qualsiasi progetto politico che si affidi alla forma-partito: la necessità di pensare il soggetto come fondamentalmente isolato, resto individuale, come sintomo sociale del reale, prodotto dal discorso e dilaniato dal linguaggio che presiede alla sua stessa costituzione. La caustica ironia che, come nell'aneddoto sopracitato, Lacan sfodera nei suoi seminari e negli interventi pubblici, lascia infatti trasparire un pensiero politicamente disilluso, animato da una sobria e lucida solitudine, che non riesce a sganciarsi dall'assunto radicale secondo cui il dramma dell'insolubilità che definisce i conflitti politici non sia altro che la manifestazione di una soggettività separata a se stessa, votata alla mancanza e costitutivamente insoddisfatta. E' questo il senso da attribuire alla massima «non esiste rapporto sessuale», con la quale Lacan allude all'impossibilità per due soggetti di «fare uno», di unirsi in un rapporto altro da quello puramente fantasmatico, essendo i soggetti appunto già divisi in se stessi da una lacerazione costitutiva.
Ma se a sbarrare l'unità del soggetto è il «discorso dell'Altro», la catena significante che insiste quale condizione materiale del pensiero, Moroncini approfondisce e problematizza, nella seconda parte del testo, il concetto di «discorso» sviluppato nel Seminario XVII, non a caso intitolato Il rovescio della psicanalisi², e propone di leggerlo alla luce della differenza saussuriana tra langue e parole: «Il discorso è una realtà linguistica che si pone fra la langue e la parole: della prima conserva il carattere formale, di struttura, della seconda l'aspetto determinato e singolare; il discorso insomma da un lato indica relazioni concrete, specifiche, modi determinati di produzione del sapere, ruoli e posizioni assunti dagli attori coinvolti in queste relazioni, dall'altro evita la proliferazione potenzialmente illimitata delle emissioni di paroles, la dispersione disordinata di enunciati singolari, l'assenza di invarianti e quindi l'impossibilità di qualunque insegnamento e trasmissione» (Moroncini, pp. 77-78). Moroncini individua quindi nel concetto lacaniano di «discorso» quel «legame sociale attraverso il quale si compie il processo della produzione, accumulazione e trasmissione del sapere, e insieme quello in cui si produce il soggetto del sapere, il fondamento cioè su cui questi poggia o si regge» (p. 80), ovvero lo strumento concettuale più adatto a fondare una critica filosofica e psicoanalitica del campo politico odierno, ponendo l'accento, più che sui rapporti di sfruttamento capitalistici, sui processi di soggettivazione. Disposizione strategica del pensiero, questa, che si fa carico dell'alto grado di complessità che caratterizza il mondo contemporaneo, sempre più intasato da narrazioni salvifiche, escatologie low-cost e programmi politici di stampo paranoide, dei quali una certa critica mainstream non sempre riesce a rendere conto.
E' così allora che nella terza parte del libro, intitolata Politiche dell'angoscia, richiamandosi agli studi freudiani sulla psicologia delle masse e facendo dialogare Heidegger con Lévinas, Moroncini pone l'accento su come il politico si ponga sin dalle sue fondamenta storiche come quell'ontologia tesa a suturare il reale «bucato» dal discorso dell'Altro, attraverso l'impossibile instaurazione di un metalinguaggio, e su come l'insistita reviviscenza nella storia della «massa primordiale» altro non sia che «l'origine della civiltà umana in generale, la cui tematizzazione è resa possibile però solo dalle attuali condizioni della vita soggettiva. Come la conoscenza dello scheletro umano permette quello della scimmia, così la realtà delle folle urbanizzate dissolve le brume dei primordi ancestrali» (p. 145).
Considerazioni, queste, che dovrebbero risuonare in tutta la loro carica sovversiva di fronte allo spettacolo increscioso e barbaro offerto dalla politica contemporanea, condannata allo stallo da una sorta di coazione a ripetere che riproduce il fenomeno della campagna elettorale nei contesti più disparati, esemplificando al meglio la deriva che può assumere il dibattito politico – e l'esercizio stesso dell'autorità istituzionale – qualora non siano esplicitati e messi in causa i moventi libidici, gli interessi particolari e strumentali che questo dibattito presuppone o nel caso in cui non si disponga di un arsenale interpretativo tale da poter decostruirne il linguaggio o meglio, il «discorso». «L'intrusione nel politico può essere fatta solo riconoscendo che non c'è discorso, e non solo analitico, se non del godimento, almeno quando ci si aspetta il lavoro della verità» (Lacan, 2001, p. 93): è con questa massima, allora, che potremmo riassumere la posizione privilegiata detenuta oggi dalla psicanalisi nel dibattito filosofico-politico. Concentrando le sue attenzioni sulla dimensione puramente impersonale del linguaggio e sottomettendo l'attività conscia del soggetto a qualcosa che è disciplinare per necessità, Lacan pone così le basi per un ripensamento critico delle forme concrete in cui si articola il nostro vivere sociale, e rilancia così la partita politica sul campo dell'interpretazione e dell'atto soggettivo che rende conto dei rapporti di subordinazione strutturali, istituiti a partire dalla realtà politica in quanto «realtà di linguaggio».
E' questo, allora, il contributo concreto che la psicoanalisi può fornire oggi al dibattito filosofico, per favorire una riflessione che dislochi il reale della politica dall'arena pubblica in cui è condannato a essere mimato, rimosso e mistificato allo spazio intimo e interno al soggetto, radicando così nell'atteggiamento individuale di fronte al mondo e nello sforzo singolare verso la comprensione quella tensione etica in grado di realizzare, anche se per poco, una relazione intersoggettiva scevra da illusioni e fantasie sociali. Una relazione che sia però consapevole dei limiti intrinseci dell'essere parlante: «L'inconscio, che vi dico così fragile sul piano ontico, è etico...e comunque sia bisogna andarci dentro» (Lacan, 2003, p. 34).
Note
1. Testo nel quale al lettore è sottoposto il famoso apologo dei prigionieri, rompicapo logico che riassume le problematiche sollevate dall'introduzione dell'inconscio (quello di Lacan, strutturato come un linguaggio) come variabile nella riflessione filosofico politica.
2. L'allusione è proprio la filosofia come disciplina che, pur fruendo delle potenzialità creative del linguaggio, non ne considera quegli effetti che potremmo considerare di «rinculo», o di «contraccolpo», che sono invece il campo dell'esperienza psicoanalitica: «Attraverso lo strumento del linguaggio si instaura un certo numero di relazioni stabili, all'interno delle quali è di certo possibile iscrivere qualcosa che è molto più ampio e che va ben oltre le enunciazioni effettive. Nessun bisogno di queste perché il nostro comportamento, i nostri atti si iscrivano eventualmente nel quadro di certi enunciati primordiali» (p.5)
Bibliografia
Lacan, J. (1974). Il tempo logico e l'asserzione di certezza anticipata (in Scritti, Vol. I). Einaudi : Torino
Lacan, J. (2001). Il Seminario XVII: Il rovescio della psicanalisi. Einaudi : Torino
Lacan, J. (2003). Seminario XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi : Torino
Lacan, J. (2006). Dei Nomi del Padre seguito da Il trionfo della religione. Einaudi : Torino
di Filippo Zambonini