La psicologia è ibrida. O tale dovrebbe essere. Da sempre il suo status è meticcio, frutto di una sintesi che miscela elementi filosofici, religiosi, scientifici e occultistici. La deriva presa dal suo insegnamento e dalla relativa pratica terapeutica nel corso del Novecento ne ha però messo in crisi alcuni aspetti basilari: primo fra tutti la commistione col sapere scientifico finalizzata a custodire un insieme di conoscenze che, però, il passare degli anni ha reso sempre più datato. Sembra infatti essersi verificato un progressivo isolamento, che ha reso il sancta sanctorum della psicologia, lo studio terapeutico, un luogo refrattario alle influenze esterne, impermeabile alle contaminazioni disciplinari e, soprattutto, poco avvezzo ad aprirsi alla scienza che, nella Vienna di fin de siècle, aveva non poco influenzato i primi studi dei maestri Freud e Jung. Con il libro Biologia dell’anima (Bollati Boringhieri, 2015), Maurilio Orbecchi si propone di restituire alla psicologia il suo tratto distintivo, la tendenza alla fusione dei saperi, auspicando che tale disciplina si apra a nuovi campi d’indagine di matrice scientifica. Per farlo, l’autore si affida a un riposizionamento concettuale proprio del postumano: riconsiderare l’animalità dell’uomo e abolire ogni pretesa di eccezionalità umana, obsoleto retaggio di secoli di umanesimo. Da dove ripartire dunque, se non da Darwin? La teoria dell’evoluzione – sia nella forma originale ottocentesca sia in quella che il Novecento ha prodotto con la sintesi moderna, conosciuta come neodarwinismo – diventa quindi la bilancia critica dell’opera di Orbecchi, grazie alla quale è possibile tarare la presunta scientificità delle principali scuole psicologiche e al tempo stesso costruire un’architettura di matrice biologica sulla quale innestare altri saperi. L’edificio ottenuto dovrebbe, dopo questa fondamentale operazione di riassestamento e aggiornamento, azzerare gli ultimi ma ancora piuttosto vivi afflati di matrice dualistica presenti nel pensiero e nella terapia odierni.
Non c’è traccia di naturalismo nel procedere critico del saggio: l’autore, non appellandosi esclusivamente alla genetica, evita lo spauracchio del determinismo proprio di alcune scuole di pensiero post-darwiniane (dall’ultradarwinismo di Dawkins alla sociobiologia di Wilson), e propone una definizione di Homo sapiens come «insieme complesso di sistemi psicobiologici egoisti e altruisti sulla cui espressione influisce largamente l’ambiente di sviluppo» (p. 161). Appare chiaro che, in tale cornice, non possono trovare posto il determinismo psichico freudiano e il finalismo junghiano, così come tutti quegli aspetti teorici invalidati da una scorretta lettura della teoria evolutiva, apertamente lamarckiani oppure ampiamente superati dal punto di vista scientifico – come il ricorso alla legge biogenetica di Haeckel, il cui principio (l’ontogenesi riepiloga la filogenesi) non è più considerato valido al giorno d’oggi. In aggiunta ai riferimenti continui a studi contemporanei nel campo delle neuroscienze cognitive e affettive, Orbecchi ricorre alle ricerche effettuate da numerosi etologi, come Frans de Waal, nel campo della psicologia animale e di quella comparata. Alla luce delle recenti scoperte scientifiche relative a questo settore, appare chiaro che la divisione del vivente operata da Freud in esseri umani (animati da pulsioni, Triebe) e animali (schiavi dell’istinto, Instinkt) è quanto mai scorretta e approssimativa. Nonostante ciò, ancora oggi, nelle parole di psicanalisti come Massimo Recalcati riecheggiano superati ritornelli antropocentrici: «Il corpo animale appare governato integralmente e infallibilmente dalle meccaniche naturali dell’istinto; è un corpo totalmente asservito alle esigenze della riproduzione della specie e determinato dalla necessità della propria autoconservazione» (2012, pp. 126-127). Le specie non umane – dalla medusa al gorilla – sono raggruppate in una categoria indistinta, l’Animale, i cui tratti distintivi sono un’infallibile meccanicità di cartesiana memoria e un principio causale che fa invidia ai deterministi più ortodossi. Non c’è spazio alcuno per ciò che sta oltre l’umano, per ciò che gli scienziati osservano ogni anno in numerose specie, dal delfino ai grandi felini, passando per il bonobo (Pan paniscus), specie che sta al centro delle grandi ricerche sulle scimmie antropomorfe odierne, la cui complessa vita sessuale presenta omologie con quella umana tali per cui parlare di “binari istintuali” appare quantomeno riduttivo. Risulta dunque evidente quanto ancora non sia stata assimilata né compresa un’importante lezione darwiniana: le differenze che separano l’uomo dagli animali non umani, siano esse evolutive, strutturali o cognitive, non sono di qualità ma di grado.
La principale accusa mossa agli impianti teorici costruiti da Freud e da Jung (e successivamente ampliati da numerosi epigoni) consiste nell’identificare tutti gli aspetti che promuovono una “psicologia culturalista” all’interno della quale l’uomo, forte delle sue doti eccezionali di natura esclusivamente culturale, si trova a essere fulcro del mondo, entità priva di connessioni con l’Altro non umano e mancante di strutture psicobiologiche condivise con altri mammiferi. Orbecchi smonta pezzo dopo pezzo i fondamenti della psicologia freudiana e junghiana – dall’inconscio alla sincronicità, passando per la sublimazione e il transfert – al fine di rileggerne alcuni da un punto di vista per così dire moderno, interdisciplinare ed evolutivo, e di proporre una psicoterapia libera da scuole dogmatiche, votata all’accrescimento della consapevolezza evoluzionistica in ogni sua corrente, orientata dal racconto e fondata sul buon rapporto (il rapport di Pierre Janet) fra analista e paziente. Obiettivo ultimo è dunque demolire il “muro di Vienna”, restituendo al tempo stesso importanza ad alcuni precursori ormai sprofondati nell’oblio, come William James e Pierre Janet, i cui studi sono forti di intuizioni e teorie ben più valide, in particolare per quanto concerne la scientificità, rispetto a quelle proposte dai mostri sacri del sapere psicologico definiti, in un affondo provocatorio dell’autore, “morti viventi”. Biologia dell’anima non è un pamphlet scientista il cui intento consiste nel distruggere un secolo di sapere, bensì un lavoro che sostiene la creazione di una psicologia multilivello e che pone alla base di tale operazione contaminante il contributo della biologia, non tanto perché senza biologia non si possa comprendere alcunché, ma perché, come scrive Roberto Marchesini in Post-human: «L’uomo non può essere compreso al di fuori del contesto biologico, non perché le leggi della biologia possano da sole spiegare la sua natura, ma perché è proprio la natura biologica a rendere la sua ontogenesi ricorsiva – anche in quella mirabile costruzione che è la cultura – ovvero inspiegabile assumendo un solo punto di vista» (2002, p. 52).
Bibliografia
Marchesini, R. (2002). Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza. Torino: Bollati Boringhieri
Recalcati, M. (2012). Ritratti del desiderio. Milano: Raffaello Cortina Editore
di Danilo Zagaria