“Vedo il riflesso di qualcosa negli occhiali da sole di quel passante. Puoi ingrandire?”
In questa istanza di Take Away, vorremmo attirare la vostra attenzione su un minuscolo quanto eloquente meccanismo narrativo, impiegato generosamente e in modo trasversale dal popolo degli autori televisivi americani. Si tratta di quel momento, che sicuramente avete presente, in cui i protagonisti del telefilm si trovano alle prese con una traccia fondamentale: una fotografia, un filmato o documento apparentemente inutile, fino a che...
Secondo una interpretazione deflativa, si tratta semplicemente di un trucco, un modo per far procedere la trama. Una sorta di Deus ex Machina, al massimo da additare come soluzione non particolarmente elegante, anzi piuttosto banale, che tuttavia tutti finiscono per usare quando un periodo di scarsa creatività interferisce con termini di consegna settimanali per nuovi episodi di questo o quel telefilm.
A nostro parere, tuttavia, proprio come nel caso del Deus ex Machina del teatro greco, il ruolo di questo topos narrativo nella coscienza contemporanea riflette alcune convinzioni profonde, tanto da essere tematizzate solo raramente. In questo caso, quello che chiameremo “il topos dell'enhancement” serve da segnale di qualcosa di importante.
Innanzitutto, per i meno esperti di cose tecnologiche, bisogna ricordare un dato fondamentale: il “miglioramento dell'immagine” è, per come viene usato in gran parte dei frammenti del video, impossibile. Un'immagine, infatti, per quanto suscettibile di ogni genere di manipolazione informatica, ha sempre una definizione, vale a dire contiene una certa quantità di pixel – o di informazione. Tale limitatezza, si può dire, è la caratteristica che più radicalmente distingue la realtà dai modelli che possiamo costruire di essa, come ad esempio la mappa dal territorio. In termini operativi, la differenza è ancor più evidente: indagando più da vicino un fenomeno reale siamo in grado di distinguere sempre più dettagli, mentre indagando più da vicino una rappresentazione di quel fenomeno - un disegno o una mappa o un grafico - potremo scoprire solo dettagli relativi al modo e ai materiali della rappresentazione (come il numero di pixel o la grana della carta), non della realtà descritta.
I personaggi dei nostri telefilm trascurano questa distinzione. Li autorizza a farlo una qualche formuletta: un fantomatico “programma di miglioramento”, oppure l'osservazione che “si può fare, con la giusta apparecchiatura”, o il nome di qualche scienziato il cui “lavoro sulla rifrazione” ha avuto straordinarie conseguenze sui software di manipolazione di immagini. Per spiegare questo fraintendimento fondamentale della natura dei dati forniti dalla tecnologia, dobbiamo ricordarci che in fondo ciò che si interpreta in questi film e telefilm non è tanto lo stato delle cose, della tecnologia, della società, della cultura, quanto le tensioni e soprattutto le esigenze ideologiche che coinvolgono tali spazi.
Nei film e telefilm – soprattutto quelli legati ai corpi di polizia – il topos dell'enhancement sottolinea la necessaria congiunzione di due aspetti della realtà: la crescente esigenza di sicurezza e controllo, all'interno di spazi metropolitani percepiti come porosi, caotici e criminogeni, e il raggiungimento di una onnipotenza tecnologica nel campo dell'informazione. Per far fronte all'insorgere sempre più imprevedibile e capillare della violenza – si pensi all'inesauribile creatività degli autori televisivi nel trovare sempre nuovi ambiti nei quali ambientare il misfatto che muove la trama, alla cura manierista che il colpevole sia sempre in qualche modo l'insospettabile – è necessario che le risorse tecnologiche di registrazione e analisi dei dati siano sviluppate fino a fornire non solo una rappresentazione, ma una replica esatta della realtà.
Il fatto che ad usare tali strumenti orwelliani siano solo e sempre eroi volitivi e morali, mossi da buoni sentimenti ed umanizzati da sottotrame sdolcinate, incornicia la nostra percezione del processo di crescente informatizzazione del controllo e incremento dei dispositivi biopolitici nel frame di una lotta fra l'ordine e la disciplina da un lato, e la devianza imprevedibile e mostruosa dall'altro.
Si occulta così una caratteristica fondamentale del funzionamento dei dispositivi contemporanei di controllo biopolitico: la loro applicazione capillare e generalizzata. Là dove il processo dell'enhancement si riassume nella formula di un magico zoom in che aumenta la definizione, le trasformazioni reali dell'apparato di controllo si muovono nella direzione opposta: accumulando dati dalle più svariate banche dati e incrociandole per costruire un profilo preventivo – e un gradiente di pericolosità sociale – per ciascun individuo. La divisione fra criminale e non-criminale è sfumata – l'esatto opposto di quanto suggerisce la narrativa poliziesca di prodotti come Criminal minds – e soprattutto è un prodotto, non un presupposto della applicazione di strumenti di controllo. Come si afferma in un recente e fondamentale saggio sulla militarizzazione dello spazio urbano: sta ormai al cittadino dimostrare a ogni checkpoint di non essere un criminale, secondo un modello di sicurezza urbana apertamente ispirato all'apartheid.[1]
Forse, si dirà, abbiamo voluto leggere troppo in un semplice tic narrativo: eppure siamo convinti che, a un livello di consapevolezza più o meno alto, il racconto rassicurante della tecnologia e l'esorcismo delle sue potenzialità distruttive e totalitarie sia una funzione fondamentale della corrente cultura pop.
P.S. Per chi è familiare col già citato Criminal Minds, l'esercizio per casa è riflettere su questo personaggio:
Un hacker che ha accesso a una serie infinita di banche dati, e mettendole a confronto compie sistematiche violazioni della privacy di ognuno, per conto di un'unità esclusiva di profiler dell'FBI. Si trova in una posizione di potere tale – non solo nei confronti dei criminali che indaga, ma potenzialmente di chiunque – che la sua stessa esistenza rappresenta una minaccia alla privacy e alla sicurezza di un qualunque cittadino, americano e non: è praticamente l'incarnazione del Grande Fratello.
Risulta comunque un personaggio positivo. Come? È buona fino allo sdolcinato, leggermente sovrappeso, autoironicamente vanitosa e un po' buffa. Si chiama Penelope Garcia – un cognome latino che la colloca all'intersezione di due minorities – e è praticamente l'unico modo di far sembrare inoffensivo l'individuo al comando del più sofisticato apparato di controllo e repressione della storia.
[1]Stephen Graham, Cities under Siege: The new military urbanism, Verso, New York 2011, p. 47
di Lorenzo Palombini