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«Una natura che si fa incessantemente attraverso i suoi incrementi; una natura che si conosce, appunto, solamente accrescendola e accrescendosi […] Se presa sul serio, infatti, la struttura di un anti-paradosso suppone una ‘coerenza’ della parte con il tutto che non si deve temere di definire per quel che è: cosmologica». Si legge in queste dense righe, tratte dall’introduzione del curatore Daniele Poccia all’antologia La superficie assoluta (Textus, L’Aquila 2018), la grande importanza e insieme il nucleo più intimo della filosofia di Raymond Ruyer, decisivo e poliedrico pensatore francese del secolo scorso – semisconosciuto in Italia, e non solo –, cui il volume è dedicato.
È in effetti a una riscoperta della cosmologia, quale antica e nobilissima disciplina filosofica, che ci indirizza Ruyer, a quasi due secoli di distanza dalla fatale interdizione impostale da Kant: i paradossi e le aporie cui l’idea di mondo, se affrontata da un punto di vista filosofico, dovrebbe condurre, si rovesciano nel punto di partenza per un pensiero della natura che si vuole rinnovato e capace di inglobare in sé le rivoluzioni scientifiche avvenute tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento: «Non sono mai stato appassionato da Immanuel Kant o da Auguste Comte. I filosofi critici ispirati dalla scienza newtoniana non possono avere troppa autorità nell’epoca della fisica quantistica» (pp. 68-69).
Ruyer parte da una semplice (ma non banale) constatazione, che lo accompagna dai suoi esordi, sotto il segno di uno strutturalismo meccanicista, e fino alla sua maturità filosofica, originalmente vitalista: nessun essere può vedersi vedere. Non esiste, infatti, un terzo occhio che veda il soggetto osservare il proprio campo visivo, come non esiste un orecchio dell’orecchio o un cervello del cervello, pena la ricaduta in un inarrestabile regresso all’infinito (p. 91). Ciò significa che il soggetto dovrebbe rinunciare alla pretesa di cogliere la realtà così com’è, cedendo a una debole e indefinita ermeneutica? O che, con metodo fenomenologico (o financo gestaltista), la certezza del nostro (seppur limitato) rapporto con la realtà possa essere felicemente sintetizzata nella dinamica intenzionale? Niente affatto, e sta qui il coup de théâtre cui assistiamo nel corso del volume: l’insuperabilità del campo di coscienza impone al contrario, secondo Ruyer, un nuovo approccio, ossia un realismo diretto (p. 19), non così distante – ma molto più metafisicamente fondato – dalla pletora dei realismi che stanno attraversando il dibattito filosofico contemporaneo.
Lo «spettacolo senza spettatore» (p. 186) di cui la visione, per fare un esempio particolarmente calzante, dà conto non oscilla infatti per nulla tra un soggetto che guarda e un oggetto osservato, non è affatto un ‘sguardo su’ o una direzione intenzionale, ma è la realtà stessa, i cui effetti diverranno in seguito soggettivi o oggettivi a seconda del punto di vista che possiamo di volta in volta adottare, ma che il reale, a rigore, in sé non ha e non può avere. L’abitudine tutta umana alla «messa in scena della percezione» (p. 81), centrata a partire da una mitica prospettiva da fuori (tra i portati, non a caso, dell’arte umanista, rinascimentale e proto-cartesiana), censura quanto accade in ogni atto percettivo, ovvero quel «sorvolo senza distanza» (p. 187) che costituisce il campo di coscienza nel suo complesso. Trova qui la sua genesi la più fortunata e influente delle nozioni di Ruyer, ovvero quella di «superficie assoluta» (o «dominio di auto-sorvolo»): l’intento dell’antologia, che raccoglie testi di varia natura – articoli, capitoli di libri, compresa un’eccentrica autobiografia, corredati da un’introduzione completa e originale –, in un arco temporale che va dal 1932 al 1963, è proprio quello di ricostruirne accuratamente l’origine e lo sviluppo. Per dirla molto brevemente, si tratta di uno spazio più topologico che geometrico-euclideo, inevitabilmente bidimensionale, privo di direzione, il quale coincide scricto sensu con la coscienza e, di conseguenza, con l’essere (p. 60). C’è superficie assoluta quando c’è coscienza (p. 188), ovvero quando si costituisce un dominio, un’unità all’interno della massa molare dei fenomeni fisici ‘di folla’; la prospettiva ruyeriana destituisce (e naturalizza) così qualsiasi tipo di antropocentrismo e, il che è più importante, di spiritualismo, allargando la nozione di coscienza alle più differenti esplicazioni della natura.
Impossibile in questa sede elencare le numerosissime implicazioni di una tesi così radicale e, per certi versi, parallela (ma ovviamente non riducibile) ad alcune tra le più recenti intuizioni ‘esternaliste’ avanzate dalle neuroscienze, nonché vicina a certe posizioni maturate nei contesti della cibernetica e dell’epistemologia della complessità (in particolare in relazione alla nozione-chiave di causalità); più utile è forse mostrare come la posizione di Ruyer risulti consonante con una ‘linea di pensiero’ che ha attraversato lateralmente il pensiero filosofico novecentesco, inaugurata intorno alla fine dell’Ottocento dal pensiero bergsoniano (Montebello 2015a; Ronchi 2017). A questo proposito, non si può non notare l’insistenza con cui Ruyer evoca nelle pagine del volume – ancorché spesso in senso critico – proprio Bergson: egli sarebbe infatti al tempo stesso «l’Einstein» del mind-body problem (p. 88), l’anticipatore, da un punto di vista squisitamente temporale, proprio della superficie assoluta (p. 138), un importante studioso della genesi della memoria (p. 261), nonché un capace conciliatore della prospettiva filosofica con quella scientifica (p. 74). Certo, molte delle soluzioni bergsoniane appaiono a Ruyer inadeguate – in primis la presunta svalutazione dell’estensione fisica – ma è un fatto che il punto di partenza della sua indagine affronti problemi posti per la prima volta nella contemporaneità dal filosofo della durée. Meno evidente, ma altrettanto presente (e cronologicamente attendibile) è poi il rapporto del pensiero ruyeriano con Gilbert Simondon e la sua filosofia dell’individuazione, nata negli stessi anni e con intenti in fondo simili (riavvicinamento del perdurante split tra ambito inorganico, organico, psichico e sociale; studio ‘organologico’ della tecnica; analisi della percezione come invenzione di forme potenziali o metastabili): detto con brutale sintesi, la filosofia ‘psicobiologica’ ruyeriana manifesta la medesima esigenza, presente in Simondon, di ripensare e rendere porosi i rapporti tra materia e vita, seguendo in fondo una comune e documentabile radice canguilhemiana (p. 28). Evidenza testuale presentano inoltre i riferimenti alla filosofia dell’organismo di Alfred N. Whitehead, impegnato, una trentina di anni prima, nel ripensare lo iato che la contemporaneità sembrava aver inevitabilmente sancito tra indagine scientifico-quantitativa e analisi filosofico-qualitativa: nella critica whiteheadiana alla «localizzazione semplice» dei fenomeni fisici (p. 84; Whitehead 2018) e, più in generale, nel tentativo di reintegrare la scienza nel pensiero filosofico senza ricadere in uno sterile fisicalismo, Ruyer riconosce un grande alleato. Non deve infine stupire come la nozione di superficie assoluta costituisca – insieme a quella bergsoniana di immagine – la più importante fonte filosofica per la genesi di quel piano di immanenza (o consistenza) cui Deleuze approda, con Guattari, in Millepiani (Deleuze & Guattari 2010, p. 313)e poi, più compiutamente, in Che cos’è la filosofia? (Deleuze & Guattari 1996, pp. 25-49): per Ruyer la superficie assoluta è infatti un «campo di gravitazione iperfisico» in cui siamo immersi (p. 249), un piano che connette l’essere umano al resto della realtà, così come, in Deleuze, questo si costituirà come una superficie sul cui bordo germinano e si intersecano le più differenti singolarità.
I paralleli itinerari filosofici di Ruyer, Bergson, Whitehead, Simondon e Deleuze (ma – si potrebbe aggiungere – anche di altre due figure eterodosse come quelle di William James e Samuel Alexander) si intersecano ovviamente in modi ben più complessi di quanto non sia stato possibile mostrare qui; limitiamoci però in questa sede a evidenziare le principali caratteristiche di questa linea di pensiero, al di là di tutte le pur evidenti differenze:
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Potenziale. Si nota innanzitutto un poderoso utilizzo di termini che partecipano di una medesima semantica: «metastabile» (Simondon), «potenziale» (Ruyer), «virtuale» (Deleuze), «processuale» (Whitehead). Il vivo – e genuinamente filosofico – interesse manifestato da Ruyer nei confronti dell’embriologia sperimentale come vettore per cogliere la genesi dell’individuo ci dimostra come egli tenti di riflettere sugli aspetti «mnemici» (p. 66) della realtà senza presupporli come semplicemente attuali. Detto in altri termini, la memoria – o, se si vuole, l’informazione – di un individuo non è né può costituirsi, come già sostenevano pionieristicamente Bergson e Whitehead, alla stregua di una riserva statica e spaziale, ma coincide con l’ingresso di una dimensione potenziale – o «tematica» (p. 64) – all’interno della realtà. L’insufficienza delle psicologie di orientamento esistenzialistico e fenomenologico risiede proprio, per Ruyer, nell’inadeguato spazio riservato alle nozioni di potenziale e di molteplicità, proprie della coscienza (p. 263). Tale potenziale non coincide, come ci ha ricordato a più riprese Bergson, con una semplice possibilità (dynamis) di esplicazione (o di non esplicazione) della realtà, ma si presenta come una dimensione pienamente reale, incistata nell’atto stesso del vivente: sarà non a caso Deleuze a vedere in Bergson e Ruyer i due più grandi studiosi della nozione di virtuale (Deleuze 1997, pp. 279-280).
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Vita. In secondo luogo, ma non certo secondariamente, un tale tournant filosofico accorda innegabile preminenza alla dimensione del vivente, svalutando o perlomeno riconsiderando notevolmente la portata dirimente del fenomeno della morte. Dove per larga parte della filosofia continentale novecentesca – si pensi in questo contesto tanto alla filosofia heideggeriana quanto alla decostruzione derridiana o all’esistenzialismo – la morte diventa l’orizzonte (tutto umano!) a partire dal quale (ri)pensare la vita, secondo Ruyer è il vivente, costituito dai differenti domini di auto-sorvolo, a offrire il paradigma adeguato per pensare tanto la consistenza dell’essere quanto l’impossibilità di una morte ‘totale’: a partire da questa prospettiva si può sostenere senza contraddizioni che «‘io non sono ancora mai morto, dal cominciamento del mondo’» poiché «le due cellule germinali da cui ‘io’ provengo si sono fuse insieme senza annientarsi […] L’individualità donde emerge il mio ‘io’ risale senza rotture, di generazione in generazione, alle cellule viventi più primitive, e queste cellule alle molecole previtali, alle individualità fisiche» (p. 42). Di fronte a questa ricomprensione del vivente, il negativo non pare poter trovare spazio di asilo, se non in forma strettamente logica: la domanda che ha inquietato gran parte della storia della filosofia – perché qualcosa piuttosto che il nulla? – appare a Ruyer, per il quale l’essere non ha contrario (p. 183), come sostanzialmente priva di senso.
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Scienza-filosofia. Tanto Ruyer quanto Bergson, Whitehead, Simondon e Deleuze paiono poi condividere, con tonalità differenti, un ambizioso progetto di sintesi tra scienza e filosofia: «la corrente centrale della filosofia si è sempre volontariamente mescolata, se non confusa con la corrente della scienza» (p. 75). In fondo, se il meccanicismo aveva costituito la visione del mondo dei moderni, ovvero una cosmologia in grado di dare conto a un tempo della trionfale avanzata della scienza moderna e della conseguente esperienza (non solo scientifica) del mondo, si avverte tra le pagine di questi autori – e in molti punti decisivi della loro opera – il tentativo di rilanciare una metafisica della scienza. È in particolare la «biforcazione della natura» (Whitehead 2018) in qualità primarie-oggettive e secondarie-soggettive a essere criticata prima da Whitehead e poi da Ruyer: se, con gesto democriteo, Galilei aveva saputo liberare una visione scientifica nuova, controllabile intersoggettivamente e finalmente libera dagli antichi finalismi, ciò aveva però al contempo sancito un immediato impoverimento della natura, ridotta alle proprie quantità misurabili e privata dei tratti qualitativi che da quel momento in avanti sarebbero stati di pertinenza esclusivamente soggettiva. Al contrario, secondo Ruyer, le dinamiche della visione o dell’audizione, nel presentarsi come spettacoli senza spettatore (o audizioni senza uditore), danno conto di qualità sensibili che appaiono incastonate nella realtà, presenti lì dove vengono percepite, e che restano invece una misteriosa emergenza per la scienza classica (pp. 197-199). Per dirlo con le parole di Whitehead, l’obiettivo deve essere quello di riunire l’immagine del mondo emersa dalle rivoluzioni scientifiche degli ultimi due secoli con le nostre esperienze etiche ed estetiche (Whitehead 2015).
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Cosmologia. Ciò verso cui Ruyer e i suoi ‘colleghi’ sembrano condurci è in definitiva – ci sembra – un cosmological turn, una svolta cosmologica che doppi e accompagni quell’ontological turn che ha saputo scuotere, recentemente, i fondamenti epistemologici dell’antropologia (Viveiros de Castro 2017). Assistiamo, leggendo le pagine di questi autori, a un vero e proprio ritorno del cosmo quale luogo di speculazione. La critica ruyeriana dello schema duale soggetto-oggetto tramite il dispositivo della superficie assoluta permette infatti di naturalizzare il soggetto, rimettendolo nel mondo: con modalità decisamente più radicali rispetto all’essere-nel-mondo heideggeriano (o merleau-pontyano), Ruyer ci invita a pensare l’essere-mondodi ogni entità esistente, a partire dai suoi più elementari atti percettivi. Ciò che l’ascolto, la visione – in una parola la percezione – ci mostrano è così un’esperienza estetica (in senso etimologico) che è insieme anche cosmologica, una «forza legante» (p. 226) che unisce i domini di autosorvolo, incrementandoli indefinitamente e imprevedibilmente (da qui il parallelo con l’improvvisazione musicale rilevata finemente dal curatore nell’introduzione).
In questi quattro punti abbiamo tentato di riassumere brutalmente la posta in gioco di una linea di pensiero che ci pare oggi particolarmente attuale; rigiocata in contesti ‘costruzionisti’ – si pensi ai lavori di Isabelle Stengers (1996-1997; 2015), Didier Debaise (2015), Bruno Latour (2012), Pierre Montebello (2015b) e altri – essa pone le basi per una nuova filosofia della natura in grado di farsi carico di alcune delle più pressanti problematiche della contemporaneità (in primisecologiche). La superficie assoluta di Ruyer – così come la nozione bergsoniana di campo di immagini (Bergson 1996, pp. 13-61), l’ontogenesi preindividuale di Gilbert Simondon, la «prensione» whiteheadiana (Whitehead 2018) e il piano di immanenza di Deleuze – è una nozione che, neutralizzando ogni mediazione (ogni presunto ‘accesso’ al mondo), ci porta direttamente dentro il pianeta che abitiamo, facendocene misurare i problemi nell’orizzonte della consistenza, più che a partire da un punto di vista soltanto umano o, peggio, meramente esteriore.
A parere di chi scrive, non si tratta allora, come sembra mostrare un recente articolo apparso su Not, di opporre al presunto ritorno dei sofisticati biofascismi che infestano il dibattito culturale, un rizomatico canto pluralista del caos. Se l’articolo ha l’indubbio merito di puntare l’attenzione su alcune posizioni estremamente interessanti e originali (in fondo vicine a quelle qui trattate), la dicotomia che avanza non pare presentare una prospettiva davvero inedita. Al contrario, ciò che in modi pur diversi Ruyer, Bergson, Whitehead, Simondon e Deleuze – nonché i loro intercessori contemporanei – ci mostrano non è affatto l’innalzamento di un caos produttivo, quanto una nuova metafisica della consistenza, una cosmologia che riallaccia i singoli esseri (Tsing 2017, Coccia 2018) che abitano il pianeta, nelle loro più profonde differenze, a una radice univoca (secondo la nota formula deleuziana del pluralismo come monismo). Si tratta di una filosofia genuinamente costruzionista che intende le connessioni inter-essere come una realizzazione, uno scopo, un progetto.
Alla luce di questi brevi spunti, l’uscita di un volume antologico dedicato alla filosofia di Ruyer non può dunque che apparirci come una bella notizia: oltre a presentare in modo intelligente al pubblico italiano la riflessione di un importante autore del secolo scorso, esso ha il merito di portare l’attenzione su una nozione, quella di superficie assoluta, dal grande potenziale euristico: in quel sorvolo senza distanza che la caratterizza ci pare di poter vedere la natura nel suo svolgersi, quella natura per cui è sempre più necessario costruire un piano.
di Giulio Piatti
Bibliografia
Bergson H. (1896), Materia e memoria, Laterza, Roma-Bari 1996.
Coccia E (2016), La vita delle piante. Una metafisica della mescolanza, Il Mulino, Bologna 2018.
Debaise D., L’appât des possibles. Reprise de Whitehead, Les presse du réel, Dijon 2015.
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Deleuze, G. (1968), Differenza e ripetizione, Raffaello cortina editore, Milano 1997.
Deleuze G, Guattari F. (1980), Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma 2010.
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Latour, B., Enquêtes sur les modes d’existence. Une antropologie des modernes, La découverte, Paris 2012.
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Ronchi R., Il canone minore. Verso una filosofia della natura, Feltrinelli, Milano 2017.
Simondon G. (2005), L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e d’informazione, 2 vol., Mimesis, Milano 2011.
Stengers, I. Cosmopolitiques, 7 voll., La découverte, Paris 1996-1997.
Tsing A. L., The Mushroom at the End of the World. On the Possibility of Life in Capitalist Ruins, Princeton University Press, Princeton 2017.
Viveiros de Castro E. (2009), Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, Ombre corte, Verona 2017.
Whitehead A. N. (1929). Processo e realtà. Saggio di cosmologia, Bompiani, Milano 2018.
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La problematizzazione dell’antropocentrismo è ormai uno dei topoi più frequentati della letteratura filosofica (come culturale, sociologica, ecologica, ecc.) contemporanea, al punto che – facendo il verso al noto Linguistic Turn del Novecento – si è recentemente preso a parlare in modo esplicito di un Non-Human Turn (R. Grusin). Non è questa l’occasione per discutere portata e natura di una simile “svolta”, né tantomeno per valutare il modo in cui è stata tradotta e soprattutto gli slogan che appare avere generato: bisogna comunque notare che, di fatto, si è giunti a una situazione in cui l’anti-antropocentrismo si è declinato pressoché univocamente in una forma di zoocentrismo, o – se si preferisce – in un vitalismo pensato a partire dall’equazione “vita = organismo (animale)”.
Sotto questo riguardo, il libro di Coccia (La vie des plantes. Une métaphysique du mélange, Payot & Rivages, Paris 2016) ha un innegabile merito: mettere in discussione questo più o meno esplicito slittamento dal “non umano” all’“animale”, e non certo per riaffermare la preminenza dell’uomo o dell’organismo umano, bensì per indicare la possibilità di una genuina metafisica o filosofia della natura. Con ciò, Coccia non si limita a sostenere le ragioni di quel Plant Turn che pur richiama (p. 155), ossia a reclamare spazio per quelli che sono già stati prontamente battezzati come Critical Plant Studies (H. Stark), che fanno anche diventare a pieno titolo le piante protagoniste di una “storia naturale” – a partire dalla loro origine, il seme (J. Silvertown).
Infatti, la posta in palio è filosofica ad ampio raggio: è possibile trovare un accesso al problema della vita, ossia della natura e del cosmo, che non sia inficiato da una forma di «snobismo metafisico» (p. 15) per cui si finisce per assumere come superiore e privilegiato il punto di vista supposto essere più “complesso”? La risposta di Coccia è radicale: è possibile se si dismette l’abito zoocentrico che ha rivestito quello antropocentrico, ossia se si comprende che l’antispecismo non ha fatto altro che estendere il narcisismo umano al regno animale (p. 16).
L’esito è a questo punto conseguenziale (senza dubbio problematico, come indicherò): andare ancora più a fondo e “riabilitare” quello che è stato da sempre ritenuto il grado più basso della vita, ai limiti della sua assenza, ossia la “vita vegetativa”, il regno vegetale. In questo modo, si potrà riconoscere che ogni punto di vista (point de vue) non è altro che un punto di vita (point de vie): non qualcosa di distaccato e separato, ma quanto esprime una modalità di immersione e commercio.
Per Coccia, c’è una ragione ben precisa a rendere praticabile questa riabilitazione: la vita vegetale si presenta come la vita nella sua esposizione integrale, in continuità assoluta e in comunione globale con l’ambiente. Le piante sono esseri di pura superficie, che aderiscono costitutivamente al mondo: la loro assenza di movimento fa tutt’uno con la loro adesione integrale a ciò che arriva a loro e al loro ambiente. Le piante sono insomma inseparabili (fisicamente come metafisicamente: il passaggio filosofico avanzato da Coccia sta tutto qui) dal mondo che le accoglie: rappresentano la forma più intensa, radicale e paradigmatica dell’essere al mondo, perché intrattengono il legame più stretto ed elementare con il mondo, quasi una forma di assorbimento contemplativo privo di dissociazioni, una fusione e una coincidenza prive di separazioni (pp. 17-18).
Troviamo in opera – esplicitato – un importante presupposto di fondo: il pensiero si fa filosofico nel momento in cui si confronta con la natura del mondo, ossia con la natura, vale a dire che la filosofia sorge nel mondo naturale e dal confronto col mondo naturale, inteso come nascitura, come ciò che permette a tutto di nascere e divenire, esprimendosi in tutto ciò che è. Il mondo, la natura, è insomma una forza, non un insieme di cose o una totalità astratta di esseri: la natura è un processo in atto, e la filosofia è tale soltanto in quanto è filosofia della natura, solo nel momento in cui smette di essere «fisiocida» per cogliere la natura nella sua veste dinamico-processuale. L’unica forma di filosofia che può essere considerata legittima è insomma la cosmologia (pp. 31-36).
L’idea di Coccia è semplice (nonché nuovamente problematica, lo vedremo), come tutte le idee fondamentali: vivere significa vivere della vita d’altri, o – persino – esigere la relazione con ciò che precede e rende possibili gli organismi stessi (pietre, acqua, aria, luce), e le piante sono paradossalmente il luogo in cui questo fatto – il fatto della vita – si manifesta eminentemente. Se la natura è un campo aperto di relazioni trasformative, il metabolismo e il trofismo delle piante presentano esattamente l’emblema della capacità di fare di elementi dispersi e disparati un’occasione di consistenza e tenuta: le piante sono cosmogonia in atto (p. 22).
La pianta diventa così il “modello” per un generale ripensamento dell’essere al mondo e così della cosmologia, articolato in tre principali momenti.
1) La foglia consente di mettere a fuoco l’atmosfera come fluidità cosmica o luogo metafisico di mescolanza radicale in cui tutto comunica e si tocca. L’atmosfera è il soffio o respiro che tutti condividiamo, inteso quale movimento ritmato che precede le distinzioni e però le rende possibili, essendo il principio di circolazione, trasmissione e traduzione: tutto è dentro tutto e tutto comunica con tutto; ogni cosa è immanente a ogni altra; non c’è azione senza retroazione. La cosmologia è una pneumatologia (pp. 37-96).
2) Le radici permettono di ribaltare il modo in cui intendiamo il fondamento: non il ritrovamento di ciò che vi è di essenziale e originario (di fondamentale, di radicale, appunto), ma la fecondità di un processo di networking. Siamo insomma abituati a pensare al radicamento come all’emblema del riferimento saldo, dell’ergersi a partire da un principio dato e ben fermo, dell’edificarsi al di sopra di una base solida, di un suolo sicuro, mentre in realtà le radici ci presentano un dinamismo ambiguo, ibrido, anfibio e doppio. Si tratta di quello della ramificazione, che mette in comunicazione “il basso” e “l’alto”, il “più profondo” e il “più superficiale”, la notte e il giorno, la Terra e il Sole. È allora in gioco una prospettiva più eliocentrica che geocentrica, che fa spazio alle ragioni della contingenza, dell’imprevisto, dell’irregolarità e dell’inabitabilità. La cosmologia è un’astrologia, l’ecologia è un’uranologia (pp. 97-122).
3) I fiori fanno comprendere la natura puramente espressiva e dimostrativa (sessuale) degli attrattori, ossia di ciò che non definisce una natura o comunica un’essenza, bensì apre uno spazio di congiunzione e mescolamento, di moltiplicazione e variazione di forme – di alterazione. La logica dell’organismo individuale si rovescia: ci si trova nel pieno dell’esposizione alle possibilità della mutazione, del cambiamento (come della morte), nel pieno dell’espropriazione. La razionalità si converte nella ragione seminale, che si presenta come luogo di indifferenza e transizione tra “psichico” e “materiale” (come tra biologico e culturale, intensivo ed estensivo). In questo modo, la ragione diventa una forza moltiplicativa che “ripete” la stessa dinamica trasfiguratrice del cosmo: non restituisce un esistente a se stesso, attestandone l’identità, non riconduce a unità; piuttosto, apre al rinnovamento dei possibili, potenzia le connessioni, moltiplica e differenzia gli elementi, si sforza di mescolare gli incomparabili e gli incompossibili. La ragione è sessuale nella misura in cui fa tutt’uno con il processo attraverso il quale avviene un prolungamento e un rinnovamento delle sue istanze mediante un’invenzione di nuove forme di mescolamento: pensare significa rivolgersi alla sfera delle apparenze, non per rivelarne l’interiorità o per dirne l’essenza, bensì per metterle in comunicazione nella loro eterogeneità. La cosmologia è una cosmetica (pp. 123-138).
Come si sarà colto da questo rapido affresco, in chiave concettuale abbiamo a che fare con una generale problematizzazione del nesso tra forza e relazione, o tra dinamismo effettivo e pura soglia. Troviamo infatti discusso in generale il superamento di una gerarchia topologica che distingue tra luoghi in base a interiorità ed esteriorità, che pone posizioni fisse e non riesce così a cogliere – per esempio – le compenetrazioni e proiezioni reciproche, la reversibilità, le transizioni, l’immersione senza resti, la fluidità cosmica, la permeabilità, l’inclusione di tutto dentro tutto, l’amalgama perfetto, l’immediatezza della metamorfosi, l’intimità assoluta, i mediatori produttivi, la circolazione universale, l’identità formale tra passività e attività e tra essere e fare, l’esistenza come atto cosmogonico, le interpenetrazioni e influenze diffuse.
Un simile tentativo metafisico, com’è naturale, non solo non nasconde, ma fa anzi presto affiorare in superficie i propri tratti problematici (e non: le proprie contraddizioni), che mi sembrano essere principalmente due.
Il primo si potrebbe ribattezzare il rischio di “vegetocentrismo” o “plantocentrismo”, che di per sé è abbastanza chiaro: perché le piante offrirebbero l’accesso privilegiato al cosmo rispetto agli uomini e agli animali, e non potrebbero a quel punto farlo i sassi, o i batteri, e così via? O, detta altrimenti, siamo davvero sicuri che sia possibile prendere il fenomeno della vita come fenomeno per eccellenza cosmologico o cosmogonico? Insomma, fino a che punto la natura coincide con la vita (sappiamo infatti che non è così)? Queste questioni possono sembrare oziose, e il punto forse ancora più dirimente sta altrove: non è che le piante, più che essere la forma paradigmatica dell’essere al mondo, sono la forma paradigmatica di un determinato modo di essere al mondo? In particolare, qualcuno potrebbe notare, la totale aderenza, la completa immersione, la spiccata fluidità. la piena indistinzione tra “sé” e “mondo” che contraddistinguerebbero le piante, sembrano rappresentare l’affermazione di un orizzonte in cui non ci si può distinguere dal proprio ambiente e non si può modificarlo, ossia di una vita vegetativa nel senso (deleterio) comune del termine. Ancor più, qualcuno direbbe che si tratta dell’ipostatizzazione della forma di vita neoliberale o neocapitalistica o capitalista tout court, incentrata sull’esigenza di un adeguamento assoluto agli imperativi della flessibilità, della mobilità, della relazionalità, della deindividualizzazione, e via discorrendo.
Sotto questo punto di vista, l’uranologia di Coccia, nel suo sforzo di emanciparsi dalla subordinazione alla logica terrestre, mostra in effetti un fianco debole. Di per sé, si potrebbe anche sostenere che in realtà la condizione contemporanea (al di là dell’etichetta con cui si sceglie di connotarla) non fa altro che (finalmente) rivelare dei tratti che da sempre hanno fatto parte della realtà umana o naturale, liberandosi di una postura demistificatrice rispetto ai processi in atto. Ma, allora, bisogna proprio per questo anche evitare di assumere acriticamente come posizioni metafisiche “pure” ciò che altro non è che il tentativo di rendere concepibile un dato orizzonte, ossia di “trasporlo” in concetti adeguati a comprenderlo o figurarlo. Altrimenti, il rischio è di presentare idee e concetti filosofici come se piovessero dal cielo, mentre essi sono davvero un fatto relazionale, che concerne il nostro rapporto con il mondo. Detta diversamente, non si tratta tanto di imputare a Coccia di aver terminato per offrire una lettura apologetica dell’esistente, bensì – al limite – di evidenziare che non si è ancora spinto fino in fondo nel riconoscere la ramificazione (a valle come a monte) dei concetti e problemi a partire da cui articola la propria prospettiva.
Il secondo tratto problematico è correlato: riguarda il modo in cui intendere e praticare la conoscenza in generale e la filosofia in particolare. Coccia assume una posizione ben delineata in merito (pp. 141-151): il regionalismo specialistico è animato da intenti “morali” (ossia organizzativi, istituzionali, ordinativi, disciplinari, corporativi, ecc.) più che gnoseologici, e produce di fatto una limitazione della volontà di sapere, una messa a freno degli eccessi della curiosità. In questo modo, si perderebbe di vista il fatto che cose e idee sono molto meno disciplinate degli uomini: si mescolano di continuo, in modo eterogeneo, disparato e imprevedibile. Di conseguenza, la filosofia dovrebbe rapportarsi a esse senza mediazioni disciplinari e canoni normalizzanti, senza procedure, protocolli e metodi prestabiliti, senza lo scopo di ricondurle a un’unità superiore, alla comunanza di una forma, una natura o un ordine. La filosofia cercherebbe di cogliere e restituire quell’unità senza fusione sostanziale che è il clima, l’atmosfera, ossia il mondo, nel quale niente è ontologicamente separato dal resto – anzi, dovrebbe creare tale unità: la filosofia dovrebbe con ciò svolgere un’operazione di autotrofia speculativa, per cui anziché trarre nutrimento sempre ed esclusivamente da idee e verità che hanno già ricevuto il sigillo ufficiale di una qualche disciplina, anziché costruirsi a partire da elementi cognitivi già strutturati e ordinati, si devono invece trasformare in idee materie, oggetti o eventi di qualsiasi tipo. Proprio come fanno le piante, capaci di trasformare in vita qualsiasi frammento di terra, aria e luce: «una cosmologia proteiforme e liminare, indifferente ai luoghi, alle forme, alle maniere in cui viene praticata» (p. 147).
Ora, questa concezione “meteologica” o “atmosferica” della filosofia, per la quale essa è una sorta di condizione atmosferica che può sorgere all’improvviso in ogni luogo e momento, ha senza dubbio un elemento di rilevanza: suggerire che la filosofia dovrebbe essere considerata non come la costruzione di un campo di conoscenza specifico superiore che si “sovrimpone” su altri campi, ma come un costante movimento di sorvolo, ogni volta attento a tutto ciò che sta accadendo e mutando nel campo della ragione e della conoscenza, per giungere a modificare il modo in cui idee e conoscenze si concatenano e i saperi sono attraversati. Insomma, Coccia ha – a mio parere – il merito di ricordare che la filosofia deve essere coraggiosa, e accettare di essere impegnata nell’attraversamento concettuale del mondo, non nel commento di libri, nella discussione di soggetti astratti, nella ripresa di argomenti tradizionali, facenti perlopiù parte di un canone riconosciuto come “propriamente filosofico”. Ed è persino brillante quando osserva che la filosofia non potrà mai essere una disciplina per la semplice ragione che è ciò che diventa il sapere una volta che si è riconosciuto che non c’è nessuna disciplina – morale come epistemologica – possibile, nessuna dottrina scolastica da sancire.
Né, va aggiunto, ci si deve lasciare distrarre dai toni del discorso e dalle sfumature retoriche per connotarla come una posizione “irrazionalista” o “letteraria”, perché si tratta di una visione che anche un filosofo strettamente analitico come R. Casati ha presentato (lasciando ora da parte le evidenti diversità tra i due approcci): la filosofia come pratica “artistica” diffusa ovunque e pronta ad affiorare nel momento in cui occorre e viene sollecitata una qualche forma di negoziazione concettuale che permetta di attraversare diversi punti di vista o pratiche o discipline.
Ciononostante, resta sempre vero – cosa che l’esposizione di Coccia sembra lasciare troppo sullo sfondo – che non può esservi tale «autotrofia speculativa» senza un lavoro faticoso e certosino di rifinitura concettuale, rischiaramento tematico, affinamento problematico e articolazione sistematica, pena il pericolo di esaurire l’elaborazione in prese di posizione accorate ma euforiche, convinte ma entusiastiche, originali ma fideistiche.
In definitiva, questo lavoro di Coccia, al di là di un certo – si può letteralmente dire – afflato “pantemistico” (una sorta di mistica a sfondo panteista, per intenderci), pone delle questioni filosofiche che non possono essere ignorate, e le pone portandole ai loro esiti più estremi, forse proprio per questo esprimibili prevalentemente in termini più evocativi e in senso lato poetici – soprattutto se pensiamo alle circostanze biografiche e personali che hanno mosso l’autore (gli studi in un liceo agricolo e la scomparsa del fratello gemello nel pieno della giovinezza).
Ma, appunto, ciò non toglie che siano temi che hanno una notevole portata filosofica. Prendiamo per esempio il fatto decisamente banale della presenza del mio corpo nel mondo: esso segna i miei confini rispetto al mondo, mi individua, fa sì che sia proprio “io” a essere nel “mondo”. Eppure, da un certo punto di vista (lo notava già Whitehead), dove cominciano i confini del “mio” corpo, in realtà sta cominciando la natura in me, il mondo in me, sta cioè cominciando il mio essere del mondo (che il corpo sia “naturale” significa semplicemente questo). Il lavoro di Coccia consente di esplicitare molto bene l’insieme di aspetti connessi a una simile condizione: ormai è persino scontato riconoscere che non si può separare l’uomo dalla natura, come la mente dal corpo, ma una simile affermazione quanto può essere presa alla lettera? Che cosa davvero può significare? Essere in rapporto significa che non c’è distinzione? Detta sinteticamente, lo snodo filosofico che si profila è affermare il legame di tutto con tutto e insieme lo slancio della forza differenziatrice: le cose effettivamente si separano, ma lo fanno soltanto perché sono in rapporto.
Si potranno dunque imputare al lavoro di Coccia i limiti sopra riscontrati, ma un testo filosofico – alla fine – merita tanta più considerazione quanto più rende possibile l’articolazione di problemi al contempo genuini e difficili: sotto questo prospetto, questo libro dunque va decisamente tenuto in conto e preso come termine di confronto.
di Giacomo Pezzano