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Tra abeti e tempeste
La tempesta Vaia ha segnato uno spartiacque storico per il territorio di Fiemme e per le comunità che lo abitano. A dispetto dei milioni di metri cubi di foresta caduti in una sola notte i danni sono stati contenuti, dato che meno del 6% dei boschi è stato danneggiato (PAT 2020: 10-13). Tuttavia, il disastro del 2018 ha evidenziato un'insospettata fragilità del territorio fiemmese e delle sue foreste, accelerando un cambiamento nella selvicoltura locale. Per i suoi risvolti drammatici, Vaia ha agito come una sorta di “crisi rivelatrice”, mostrando nel modo più traumatico come certe modalità storiche dell'abitare fossero ormai insostenibili. Anche se inaspettata, la fragilità di questo territorio non è una situazione emergenziale creata dalla tempesta: al contrario, è una condizione che si è lentamente costruita nel tempo, radicatasi insieme ai boschi della valle.
Nella fitocenosi (comunità interdipendente di piante) di questo territorio spicca in assoluto l'abete rosso (Picea abies), accompagnato dall'abete bianco (Abies alba) e, in percentuali minori, dal larice (Larix decidua). La preponderanza dell'abete rosso rappresenta il risultato di secoli di politiche forestali che hanno favorito la pianta per il suo alto valore commerciale: basti pensare che nella prima metà del Novecento le conifere nella Val di Fiemme sono passate dall'84% al 99,5% (Agnoletti & Biasi 2013: 250).
Molto di questo assetto ambientale è dovuto all'opera della Magnifica Comunità di Fiemme (MCF), che nei suoi nove secoli di esistenza ha letteralmente modellato i boschi della Valle. Tra le rare istituzioni d'origine medievale conservatesi sino ad oggi, la MCF possiede e gestisce più di 11.000 ettari di foreste come bene comunitario a nome dei vicini, i discendenti degli abitanti originari. Nonostante le profonde trasformazioni subite durante l'Ottocento, la MCF continua a essere un attore di primo piano nella gestione dei boschi fiemmesi, in collaborazione con altri enti privati e istituzioni pubbliche. Molto della capacità (e dell'efficacia) d'intervento della MCF nel post-Vaia è riconducibile proprio al particolare carattere del suo patrimonio silvo-pastorale, che soddisfa tutti i criteri di Elinor Ostrom per i commons (Ostrom 1990: 88-101), e che rende la Magnifica Comunità «an institutional arrangements for the cooperative (shared, joint, collective) use, management, and sometimes ownership of natural resources» (McKean 2000: 27).
Dal 1987 la MCF ha promosso un importante cambiamento delle sue politiche forestali, preferendo il taglio raso a strisce per favorire la rinnovazione naturale e incrementare così l'estensione complessiva del patrimonio boschivo, attualmente attestato sui 100 ettari annui (Cattoi 2000). La recente promozione dei servizi eco-sistemici ha valso all'istituzione fiemmese un riconoscimento internazionale da parte del Forest Stewardship Council, che ha certificato il valore dei boschi comunitari per lo stoccaggio del carbonio e la conservazione della biodiversità. Le foreste della valle assorbono circa 2 milioni di tonnellate di anidride carbonica ogni anno, che corrispondono a sedici volte la quantità prodotta da tutta la popolazione fiammazza (Bertagnolli 2020: 9).
Tuttavia, nonostante le indubbie potenzialità dei commons nella gestione sostenibile delle risorse naturali, Anna Tsing ci mette in guardia dall'idealizzare eccessivamente questi regimi di proprietà (Tsing 2015: 254). Il graduale passaggio dai prodotti forestali ai servizi eco-sistemici, ad esempio, ha ben poco di utopico, e consiste più concretamente nella monetizzazione delle relazioni ecologiche tra attori non-umani. Come osserva criticamente Kathryn Yusoff, questa nuova economia «represents a new ontology of biotic subjects – be they plant, animal, microbe or fungi – in which their value as entities is inscribed into capitalist modes of production as the defining characteristic of their life’s work» (Yusoff 2011: 2).
Detto questo, Latour ha recentemente sostenuto la necessità di trovare un nuovo nomos per rapportarci al pianeta (Latour 2017: 233), dunque perché non cominciare proprio da una diversa forma giuridica di governance dei territori? In questo senso la Magnifica Comunità di Fiemme costituisce un esempio prezioso per la sua eccezionalità storica e per il ruolo di gestore forestale della valle a nome della collettività dei suoi abitanti. Il suo modello di commons, come governo e godimento partecipato di beni comuni, mostra la capacità di tenere insieme comunità umana e fitocenosi, ponendosi oltre la dicotomia pubblico/privato propria del capitalismo e delle sue biopolitiche.
Tornando a Vaia, il suo potenziale distruttivo è stato l'esito di un'imprevedibile combinazione tra pratiche culturali di lungo periodo, propaggini storiche del modello capitalista di sviluppo. In questo senso “Capitalocene” è forse un termine più adatto di “Antropocene” per mettere a fuoco la matrice culturale dietro simili cambiamenti, indicando al contempo precise responsabilità. Consideriamo ad esempio le politiche di gestione forestale nel Settecento: una valorizzazione capitalista del patrimonio naturale operata attraverso un paradigma scientifico-burocratico (Scott 1988) che ha modellato gran parte degli attuali boschi fiemmesi. L'esempio migliore è la valutazione redatta nel 1788 dalla Commissione austriaca sullo stato delle foreste. [1] Vengono individuati 88 boschi in tutta la valle, da cui si stima di ottenere 1.779.200 pezzi mercantili in 160 anni. Per ogni “turno” di vent'anni (fino al 1948) la relazione precisa il numero e la specie di alberi da abbattere e da piantare, un modello ideale definito «tendente alla perpetuità». Simili piani di rimboschimento artificiale hanno diffuso fustaie coetanee d'abete rosso in tutta la valle, rendendo più vulnerabile il soprassuolo forestale; questa specie possiede infatti un apparato radicale poco sviluppato in profondità, che la rende più vulnerabile agli sradicamenti da vento, specie a raffiche intense e multi-direzionali come quelle di Vaia (Corona 2019).
Per questa ragione, negli interventi di recupero e ripristino all'indomani della tempesta, si è cercato di controbilanciare questo retaggio storico iscritto nel patrimonio naturale. La sola MCF nel 2020 ha rimboschito quasi 40 ettari della valle, corrispondenti a circa 50.000 piantine coltivate nei due vivai forestali, con una buona quota di larici. È stata data la priorità a tre aree in particolare: la zona di Predazzo, il passo Lavazè e il Monte Corno, sulla base di ragioni paesaggistiche e di messa in sicurezza dei versanti, come nell'area sopra l'abitato di Predazzo. Dal canto suo, l'Ufficio distrettuale forestale di Cavalese (ente provinciale) ha rimboschito tre ettari con circa 7000 larici, prevedendo di piantarne altri 40.000 nei prossimi anni nelle aree più impervie. È interessante notare inoltre che due dei tre cantieri forestali sperimentali della Provincia Autonoma di Trento si trovano proprio in Val di Fiemme (PAT 2020: 64-69). Le piantine impiegate dalla MCF sono tutte ecotipi forestali locali, vale a dire varietà di piante con una forte caratterizzazione ambientale, ottenute da semi raccolti nella valle e coltivati nei vivai della stessa Magnifica Comunità.
Tutti questi interventi, benché indicativi di una svolta selvicolturale orientata alla sostenibilità, non bastano da soli a risolvere la fragilità del patrimonio forestale: i lunghi tempi di crescita degli alberi, infatti, rendono necessari secoli per cambiare la struttura dei boschi. Non si tratta di questioni limitate al mondo delle scienze forestali: la tempesta Vaia ha riportato i boschi e l'abitare la montagna al centro della scena e delle narrazioni pubbliche, mostrando nel modo più drammatico come il cambiamento climatico possa concretizzarsi all'interno dei territori (O'Reilly et al. 2020). L'intera comunità di Fiemme si è interrogata su quali strategie adottare per accelerare i tempi della rinnovazione, migliorando al contempo la resistenza e la resilienza dei boschi, senza apportare drastici cambiamenti a livello di specie.
Tra le tante proposte, una ci è sembrata particolarmente significativa per il suo decentramento della “consueta” prospettiva ecologica tra uomo e foresta. Si tratta di un'iniziativa sperimentale di micoselvicoltura (mycoforestry) sulle aree danneggiate da Vaia, impiegando inoculi di funghi per accelerare il processo di decomposizione e piantine micorrizate per rigenerare il territorio. L'associazione simbiotica di radici e micelio garantisce infatti una maggiore resistenza alla pianta, accelerandone lo sviluppo e proteggendola da parassiti e microorganismi nocivi. Sostenitori di questa strategia ecologica sono due membri della Magnifica Comunità di Fiemme: Ilario Cavada, tecnico forestale della MCF, e Andrea Daprà, micologo e guida escursionistica. Alla base del progetto c'è la consapevolezza che, attraverso il micelio, la pianta viene integrata in una più estesa rete sociale: un Wood Wide Web (Sheldrake 2020: 191-193). Questa tessitura di relazioni tra viventi, utile a rigenerare il territorio colpito da Vaia, si fonda su un approccio innovativo verso i funghi.
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Micelio radicale
Le specie micorrize sono solo una delle quattro categorie in cui vengono classificati i miceti, insieme a saprofiti, parassiti ed endofiti (Stamets 2005: 19-34). Più che per la loro strategia di nutrimento, i funghi micorrizici c'interessano per la straordinaria capacità di stabilire connessioni e associazioni. La rete miceliare permette alle fitocenosi di raggiungere una complessità di unione (koinosis, per l'appunto) altrimenti impossibile. Ce ne fornisce un esempio lo studio di Beiler e colleghi (2010) riguardante le inter-connessioni tra abeti di Douglas e un fungo Rhizopogon. I ricercatori hanno mappato un'architettura miceliare che mette in comunicazione centinaia di alberi, i più grandi e maturi dei quali rappresentano degli snodi (hub) per la rete. Una simile associazione micorrizica permette di accelerare la rigenerazione della fitocenosi, supportando le piante più deboli attraverso la redistribuzione di risorse. Bisogna inoltre tenere conto che, normalmente, ogni albero intrattiene relazioni simbiotiche con diverse centinaia di specie fungine. Un simile compostaggio di specie, per rubare il gioco di parole di Haraway (2018: 25), ridefinisce il concetto classico di nicchia ecologica (Peay 2016).
Il dipanarsi delle ife – vere e proprie linee di vita (Ingold 2020) – non avviene attraverso un'espansione radicale, né puramente rizomatica. La ramificazione multi-direzionale si accompagna alla fusione tra ife (homing), generando un complesso apparato miceliare che rievoca quel corpo senza organi di deleuziana memoria. A loro volta, radici e micelio sono aggrovigliati (entangled) attraverso correlazioni che fanno saltare l'opposizione tra organizzazioni radicali e rizomatiche (tra radice e anti-radice), tra ospite e simbionte.
Il concetto di olobionte porta all'estremo questa situazione, mostrando come «what counts as “self” is dynamic and context-dependent» (Gilbert et al. 2012: 333). Introdotto inizialmente per descrivere i licheni, più che una somma di parti fisse e identità distinte gli olobionti costituiscono comunità integrate di specie, strutturate attorno alle relazioni simbiotiche (Gilbert et al. 2012: 334; Sheldrake 2020: 114). In altre parole, nell'olobionte «il tutto [holon] è una corrispondenza, non un assemblaggio» (Ingold 2020: 38). Licheni e micorrize rappresentano forme di vita che trasgrediscono i nostri concetti culturali di identità, e da cui Haraway ha preso spunto per il suo tentativo di riconfigurare l'umano come humusity (Haraway 2018: 54), un sostrato multi-specie di cui l'uomo è parte integrante.
Paul Stamets è senza dubbio uno dei migliori interpreti di queste “humusità”, e un pioniere nel campo della mycorestoration (Stamets 2005). In tale approccio, i funghi sono impiegati come «ingegneri di ecosistemi» (Sheldrake 2020: 181) per il risanamento degli habitat. La visione di Stamets è stata ripresa nella radical mycology Peter McCoy (2016), che oltre all'analisi micocentrica delle relazioni ecologiche si propone come un movimento “dal basso” (grassroots) per la diffusione di saperi e pratiche legate all'uso di funghi.
Le tecniche sviluppate e applicate da Stamets e McCoy comprendono il filtraggio delle acque (mycofiltration), l'eliminazione di rifiuti tossici (mycoremediation), la coltivazione di piante edibili (mycogardening), il contrasto agli insetti (mycopesticides) e il sostegno alla riforestazione (Stamets 2005: 69-79; McCoy 2016: 335-378). La mycoforestry cerca di ottimizzare ed estendere i benefici delle reti miceliari, rafforzando le nuove piante e aumentando la resistenza (e la resilienza) complessiva della fitocenosi. Due fattori sono fondamentali: la combinazione di funghi scelti (matching) e le tempistiche del loro utilizzo (timing). Per intervenire efficacemente occorre valutare anzitutto il miglior abbinamento possibile tra alberi e specie fungine, prediligendo le varietà locali, in grado inoltre di promuovere future relazioni con insetti e uccelli, a rinforzo dell'intera catena trofica (Stamets 2005: 74).
A oggi sono pochissimi gli esperimenti di micoselvicoltura nel mondo. Stamets ha condotto uno dei primi progetti presso Cortes Island (Canada), usando piantine micorrizate di abete per il rimboschimento di aree fortemente depauperate (Stamets 2005: 78-79). Gargano e Venturella (2017) hanno avanzato una proposta simile per i boschi siciliani; i due ricercatori suggerivano l'impiego di specie native (per esempio: Boletus, Pleurotos, Hericium) per una micoselvicoltura tesa sia a migliorare le condizioni della foresta, sia a ottenere funghi commercialmente pregiati. Più recentemente, il progetto LIFE MycoRestore pone come obiettivo principale «l'uso innovativo di risorse micologiche per il miglioramento di produttività e resilienza di foreste Mediterranee minacciate dai cambiamenti climatici» (https://mycorestore.eu/it/life-mycorestore-2/). [2] A questa breve lista potrebbe presto aggiungersi l'iniziativa fiemmese, attualmente al vaglio della Magnifica Comunità e del suo ufficio tecnico forestale.
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Micorrize e rigenerazione ambientale
Di fatto, la micoselvicoltura punta a rigenerare il territorio attraverso un'attenta manipolazione di corrispondenze – o nei termini di Haraway, instaurando parentele – tra specie vegetali e microorganismi. Ciò spiega la lunga preparazione richiesta per questi progetti e la definizione del loro protocollo sperimentale. La fase preliminare di ricerca, indispensabile, prevede un censimento delle specie fungine native per poter scegliere i miceti più idonei al progetto.
Non vanno sottovalutate le ripercussioni negative di combinazioni azzardate. Sia nelle pratiche intenzionali di mycorestoration, sia nel modellamento involontario degli ecosistemi (Sheldrake 2020: 222) possono verificarsi “dissonanze” rischiose tra funghi e fitocenosi. Occorre tenere presente la natura intrinsecamente politica dei territori, costantemente percorsi da tensioni e conflitti tra specie viventi. Latour è tornato recentemente sul tema, sottolineando come l'abitabilità di un territorio per certi organismi sia talvolta una condizione imprevista, realizzata attraverso l'azione inconsapevole o gli stessi scarti di altri organismi, come la presenza di ossigeno (Latour 2017: 105). Ne abbiamo un esempio nel magistrale lavoro di Anna Tsing sui tradizionali paesaggi satoyama in Giappone: si tratta di habitat creati con un design non-intenzionale e non-umano, particolarmente favorevoli alla crescita dei funghi matsutake su cui si è innestato un fiorente commercio (Tsing 2015: 152). L'antropologa americana mostra bene come questa specie non possa venire coltivata, dimostrando così una particolare resistenza alle logiche delle plantation ecologies (Besky 2020).
Le capacità simpoietiche dei funghi permettono loro di riconfigurare l'abitabilità del territorio, a favore o contro altre specie. Questa bio-architettura degli habitat, opportunamente cooptata dalla micoselvicoltura, può essere applicata con successo a molti aspetti del contesto fiemmese. Studi condotti in seguito al passaggio di Vivian (Wohlgemuth 2017) hanno mostrato come, dopo il disastro, ci sia un rischioso periodo-finestra (protection gap) in cui né gli alberi caduti, ormai marciti, né le nuove piante, ancora troppo giovani, riescono a proteggere le zone danneggiate. In questo caso, l'inoculazione di funghi saprofiti nei siti degli schianti può accelerare il processo di decomposizione del legno a terra, riassorbendo la biomassa come humus (Stamets 2005: 73). Attraverso una pianificazione attenta, questi funghi possono inoltre di inibire la diffusione di certe specie fungine a favore di altre, predisponendo così la ricezione delle nuove piante micorrizate.
L'inoculazione è particolarmente adatta a quei siti difficilmente raggiungibili e con numerosi schianti, ormai praticamente privi di valore commerciale. I campioni di micelio per l'inoculo possono essere preparati in situ, selezionando e prelevando i funghi direttamente nei boschi della valle; in seguito occorre coltivare il micelio su un substrato adatto (per esempio dei listelli di legno), che verrà poi inserito direttamente nel corpo dell'albero morto.
Allo stato attuale i possibili candidati alla sperimentazione sono funghi del genere Armillaria, Trametes e Fomes. Per quanto riguarda l'Armillaria, conosciuta comunemente come chiodino, nella valle sono presenti due specie: gallica eostoyae. Quest'ultima vanta un record insospettabile: si tratta infatti del più grande organismo esistente sul pianeta, il cui micelio occupa in Oregon una superficie di centinaia di ettari, collegando tra loro migliaia di alberi (Ferguson et al. 2003). Fungo parassita e saprofita, per la sua invasività l'Armillaria è guardata con sospetto dai tecnici forestali, una fama che potrebbe ostacolarne l'impiego nelle aree di saggio. Parte di questo atteggiamento deriva dalla generale considerazione dei miceti nel mondo forestale italiano, un campo che significativamente compete ai patologi forestali. Tuttavia, come osserva Ilario Cavada, l'Armillaria ostoyae è una specie presente nella valle e già all'opera nelle aree schiantate da Vaia, così come le altre due specie idonee all'inoculo e appartenenti alla famiglia delle poliporacee.
Il Trametes pini (come il T. versicolor) è un fungo della carie bianca, tra i pochissimi esseri viventi in grado di metabolizzare la lignina. Andrea Daprà ne suggerisce l'abbinamento con un fungo della carie marrone come lo Schizophyllum commune, altrettanto presente nella valle e in grado di digerire la cellulosa. L'inoculazione di entrambe le specie permetterebbe di degradare rapidamente l'intera struttura dell'albero morto. Infine le specie Fomes fomentarius eLaricifomes officinalis, anch'esse agenti della carie del legno: il secondo predilige le conifere – i larici in particolare – e si presta dunque alla composizione dei boschi fiemmesi.
Una delle attività principali del progetto riguarda il rimboschimento con piante preventivamente micorrizate nei vivai della Magnifica Comunità. Abbiamo già accennato ai vivai in quota della MCF: vi sono coltivate solo sementi raccolte e validate dal “Centro Nazionale per lo Studio e la Conservazione della Biodiversità forestale” di Peri, gestito dall'Arma dei Carabinieri, che certificano la provenienza e la qualità dei semi. La micorrizazione di queste piante con miceli autoctoni costituirebbe dunque un ulteriore grado di territorializzazione della selvicoltura fiemmese, e un altrettanto importante superamento del modello monocolturale. In effetti, la coltura del micelio ha modalità antitetiche rispetto alla replicazione di semplificazioni di vita vegetale immesse nel mercato globale (Besky 2020). Come commenta Stamets, «getting a mycelia mat to infuse through a virgin habitat is both an art and a science» (Stamets 2005: 125), un esercizio di humusità basato sulla capacità di calibrare corrispondenze tra specie vegetali e miceti.
Pensando alla composizione forestale tipica della Val di Fiemme, due potenziali micorrize sono quelle tra abete rosso e Hyndrum repandum, e tra pini e il Pisolithus tinctorius o il più conosciuto porcino (Boletus edulis) (Stamets 2005: 75). Si tratta ovviamente di associazioni che devono essere calibrate per ogni singola area di saggio. A seconda delle caratteristiche del sito possono venire applicate varie forme di matching e di interventi micoselvicolturali. Per esempio, zone con forte presenza di residui legnosi saranno destinate al solo inoculo di funghi decompositori. L'attività primaria rimane però la messa a dimora delle piantine micorrizate, monitorandone la crescita e confrontandone lo sviluppo con quello di altri siti rimboschiti con tecniche tradizionali. In sintesi, il progetto fiemmese rappresenta il tentativo di passare da una selvicoltura auto-poietica a una simpoietica, cooptando culturalmente le proprietà (ri)generative del micelio. Una proposta affascinante, ma che solleva anche aspetti critici.
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Conclusioni
Il progetto fiemmese di micoselvicoltura si situa all'intersezione tra più scale, anzitutto quella temporale: i primi risultati significativi sulla creazione di reti miceliari estese e sulla loro efficacia si avranno solo dopo 10-15 anni, tempistiche piuttosto lunghe se rapportate ai ritmi umani. Del resto, lo stesso report della PAT sui rimboschimenti post-Vaia afferma che le nuove foreste «cominceranno a svolgere realmente le loro funzioni tra 30-60 anni» (PAT 2020: 65). Il lavoro dei tecnici forestali, per usare una bella immagine di Ilario Cavada, è una staffetta tra generazioni, che accompagnano la foresta nel suo sviluppo secolare. A sua volta, nella mycoforestry la riconfigurazione del terreno è affidata a una staffetta attentamente calibrata di specie fungine con tempi assai più veloci.
Queste differenze temporali non sono cifre astratte, ma l'espressione di ritmi viventi che le pratiche di micoselvicoltura cercano di accordare tra loro; un simile compostaggio di specie (microorganismi, funghi, vegetali, umani) è al contempo un componimento di vite. Ma se le interfacce tra scale sono, come nota Elena Bougleux, «spaces to inhabit» (Bougleux 2015: 70), si pone il problema di armonizzare questa convivenza anche in termini politici (Latour 2017); e non si tratta di mantenere dei domini separati, bensì di esercitare forme distinte di potere sul medesimo territorio.
In effetti, questa “convivenza politica” è uno dei fattori che ha permesso la sopravvivenza della Magnifica Comunità di Fiemme nel corso dei secoli: una valle contesa in passato tra dominio eminente del Principe vescovo e dominio utile degli abitanti, tra undici Regole sottoposte alla medesima autorità comunitaria, tra due giurisdizione signorili rivali, e che oggi è divisa tra cittadini e vicini, tra tre identità linguistiche diverse (italiano, tedesco e ladino) e tra differenti regimi di proprietà. La domanda che dobbiamo porci – e che resta tutt'ora aperta – è se la Magnifica Comunità riuscirà a estendere questo retaggio storico alle relazioni ecologiche con gli esseri non-umani. Se nell'analisi schmittiana la ricerca di un nomos planetario dipendeva dal trovare un nuovo sistema di misure e rapporti espressi nello spazio, oggi dipende piuttosto da una redistribuzione della agency tra viventi (Latour 2017: 235).
Per questo motivo la sfida principale per il progetto fiemmese diventa quella di non ricadere nei modi di (ri)produzione capitalista cui fanno riferimento Yusoff, Besky e Tsing. Come gli stessi servizi eco-sistemici, anche le pratiche micoselvicolturali possono diventare un mezzo per una valorizzazione capitalista del patrimonio naturale, la stessa che ha orientato le politiche forestali negli ultimi secoli. Alberi e funghi finirebbero così reificati come “fornitori di servizi”, riportando la relazione simpoietica a un ennesimo spazio di speculazione economica (Yusoff 2011: 5).
Al contempo, ci sono diversi fattori che rendono la Magnifica Comunità un ente ideale per supportare questo progetto: la sua terzietà rispetto al binomio pubblico-privato, che le garantisce una discreta autonomia decisionale; una libertà riflessa anche sotto l'aspetto operativo-scientifico, avendo un proprio Ufficio tecnico forestale; un lungo percorso volto alla sostenibilità ambientale, che trova espressione nelle certificazioni forestali; una conoscenza approfondita e specifica del territorio comunitario; lo stretto legame tra selvicoltura ed economia locale, con un filiera del legno che coinvolge direttamente quasi 300 famiglie.
Non dobbiamo nemmeno sottovalutare l'agency dei miceti, particolarmente imprevedibili e resistenti alle logiche umane, capaci – come osserva Tsing – di mostrarci possibilità di vita tra le brecce e le rovine del capitalismo. La stessa mycorestoration è più di un insieme di tecniche: per i suoi pionieri è una filosofia sociale «that describes cultural phenomena through a framework inspired by the unique qualities of fungal biology and ecology» (McCoy 2016: VII). Cogliamo l'invito di Sheldrake e Stamets a lasciare che il nostro pensiero venga micorrizato dai funghi, delegando parte del nostro potere a questi tessitori di relazioni simpoietiche.
di Nicola Martellozzo
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Note
[1] Archivio della Magnifica Comunità di Fiemme (Cavalese), Miscellanea, sc. 68, ms.n. 369, Atti dell’indagine della commissione austriaco-trentina sullo stato dei boschi della valle di Fiemme, 1787-1789.
[2] Questo progetto di micoselvicoltura – il primo finanziato dall'Unione Europea – prevede un accordo tra otto stakeholder principalmente spagnoli, ma alcune attività si svolgono anche in Italia. Nel Comune di San Godenzo e nella riserva di Vallombrosa sono già state condotte due inoculazioni di micelio, rispettivamente in un fustaia di abete bianco e un castagneto abbandonato. Sono stati impiegate sei diverse specie locali di Trichoderma,Clonostachys rosea, Amanita sp. pl., Lactarius salmonicolor e Laccaria laccata, tutti funghi simbionti o endofiti ben conosciuti per le loro capacità come agenti di biocontrollo dei papatogeni presenti nel suolo.