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Edoardo Greblo – Etica dell’immigrazione. Una Introduzione
Recensioni / Settembre 2015Con il suo ultimo lavoro Etica dell’immigrazione. Una introduzione, pubblicato quest’anno per i tipi di Mimesis nella collana SX, Edoardo Greblo introduce per la prima volta in veste organica in lingua italiana il recente dibattito filosofico sul tema dell’immigrazione. Come giustamente rilevato nell’introduzione, se lo studio dei processi migratori è stato affrontato da molti punti di vista (storico, economico, geografico, sociologico, demografico ecc.) e il decennale dibattito sul multiculturalismo ha occupato gran parte degli studiosi di filosofia politica, solo recentemente la filosofia pratica ha rotto il silenzio «riguardo al fenomeno che pure rappresenta l’antefatto o il presupposto, sia dal punto di vista concettuale sia dal punto di vista materiale, della sfida lanciata dalle nuove e diverse ‘culture’ alle vecchie e omogenee identità nazionali». Infatti, tra le diverse fasi proprie delle migrazioni (emigrazione, primo ingresso, diversi stadi dell’integrazione), è l’attraversamento dei confini di uno Stato, e le corrispondenti politiche di prima ammissione, a rappresentare il punto di frizione che ci obbliga a una riconfigurazione delle nostre mappe normative in merito a cittadinanza, divisione del lavoro e welfare, oltreché a far emergere la natura della società di transito o di arrivo al di là della retorica del dibattito pubblico interno. In altri termini, l’immigrazione rappresenta per il sistema di suddivisione politico amministrativo territoriale basato sulla forma Stato-nazione l’elemento disfunzionale in grado di innescare e mantenere vivo il processo di auto-riflessione che è oltretutto la caratteristica strutturale fondamentale delle democrazie liberali. In particolare l’autore si concentra sull’immigrazione motivata da ragioni di ordine economico, avanzando l’ipotesi certamente condivisibile che i movimenti di attraversamento dei confini debbano essere letti nel quadro delle interdipendenze economiche globali. Tant’è che le condizioni di primo accesso riservate a rifugiati e richiedenti asilo si rifanno a norme morali e giuridiche condivise (Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati e relativo protocollo del 1967), mentre le politiche di prima ammissione rivolte a coloro che non rientrano in queste categorie rappresentano «l’aspetto più controverso e meno sviluppato di un’etica dell’immigrazione».
Attraverso una pubblicazione agile e dal carattere introduttivo, Greblo passa in rassegna le principali voci del dibattito contemporaneo, facendole interagire a partire dall’assunto realistico del legittimo interesse degli Stati a porre limiti e vincoli al “privilegio” di immigrare. Ne risulta una suddivisione tra due alternative teoriche cui corrispondono i due capitoli principali: quella dei sostenitori dei confini chiusi e quella a favore dei confini aperti. Entrando nello specifico, in queste pagine si delineano due sfere di influenza che vedono quali centri di gravitazione rispettivamente le riflessioni di Michael Walzer e di Joseph Carens – che l’autore ha il merito di introdurre in uno dei pochi contributi disponibili in italiano.
Il nucleo della disputa, che mette in relazione non solo questi due autori ma una numerosa schiera di studiosi, può essere ricondotto al differente grado di intensità riconosciuto al diritto di libera circolazione degli individui rispetto al valore assegnato all’autonomia politica della comunità di arrivo, alla sostenibilità economica dell’accoglienza nei termini di una tenuta del sistema di welfare e all’effettiva capacità di aiuto e redistribuzione della ricchezza globale. La posizione di Walzer e dei sostenitori dei “confini chiusi” assegna all’autonomia politica il valore preponderante rispetto alla libertà di movimento degli individui, riconoscendo al potere del sovrano popolare democratico la facoltà di definire liberamente le regole di attraversamento dei propri confini quale condizione di possibilità stessa dell’esistenza della comunità politica in quanto tale, «ossia di un mondo delimitato in cui abbiano luogo delle distribuzioni». Le pratiche di chiusura democratica sarebbero quindi giustificabili al fine di proteggere le culture etno-nazionali in quanto generatrici delle comunità unitarie, da cui si deduce la priorità morale verso i connazionali che hanno contribuito a costruirle nel tempo per mezzo della libertà di associazione, che sta alla base dell’autodeterminazione democratica, e che giustifica a sua volta sicurezza pubblica e stabilità economica preservando gli assetti di welfare da una crisi di sovraccarico. La posizione di Carens e dei sostenitori dei “confini aperti” considera invece la libertà di circolazione alla stregua di un diritto umano fondamentale, ovvero un diritto che non deriva da legami di cittadinanza ma inerente i singoli, a prescindere dalla loro appartenenza a una comunità giuridica. Una coerente applicazione dei principi liberali non riconosce agli Stati che si definiscono tali una libertà discrezionale in materia di immigrazione; la tensione tra autodeterminazione collettiva e diritti umani deve essere scaricata a favore di quest’ultimi dal momento che nella prospettiva individualistica del liberalismo l’analogia tra autodeterminazione personale e collettiva non regge. I diritti morali in capo a collettivi possono essere ricondotti solamente agli individui uti singuli in quanto unici ad averne titolo. Secondo tale prospettiva le attuali restrizioni all’immigrazione sarebbero paragonabili dunque alle barriere feudali del passato e non troverebbero giustificazione poiché equiparabili a criteri di distribuzione inaccettabili come razza e sesso.
A partire da questa sostanziale alternativa il discorso si snoda ripercorrendo le riflessioni
dei molti ricercatori impegnati su questi temi nell’ultimo decennio, permettendo al lettore di farsi un’idea sulla complessità del problema affrontato e sulla sua pervasività in seno al lessico più consolidato della filosofia politica. Per fare qualche esempio, segnaliamo le riflessioni di David Miller e Veit Bader sul rapporto immigrazione, difesa dell’identità e tutela dei diritti umani; di Arash Abizadeh, Christopher Wellman, Phillip Cole e Ryan Pevnick sulla relazione tra libertà di associazione e autodeterminazione politica; di Jef Huysmans e Stephen Macedo sulle conseguenze che il fenomeno immigratorio produce rispetto a welfare e sicurezza; di Onora O’Neill e Michael Blake su immigrazione e libertà di movimento transnazionale; infine di Frederick Whelan, Shelley Wilcox, Thomas Pogge sulla relazione tra libertà di circolazione, lotta alla povertà e promozione della redistribuzione della ricchezza a livello globale.Quello che emerge in conclusione è l’opportunità di una soluzione intermedia, che sappia dare il giusto peso alle legittime pretese di entrambi gli argomenti ma allo stesso tempo sia in grado di indicare una direzione da seguire per una politica attiva, capace di evitare, per quanto possibile, le contraddizioni insite in prese di posizioni troppo rigide. Greblo riserva al terzo breve capitolo questo compito, trovando nella proposta dei confini «porosi» di Seyla Benhabib una possibile soluzione. Secondo la filosofa turco-americana, se nella prospettiva moralmente ideale è inaccettabile negare agli esseri umani il diritto fondamentale di circolazione, dal momento che non esiste alcuna pretesa ultima al diritto di occupazione di un luogo, tuttavia anche la democrazia ha bisogno di confini per funzionare realisticamente. È infatti necessario circoscrivere la rappresentanza quantomeno per sapere quale entità democratica è responsabile e nei confronti di chi. Questi limiti non possono però essere considerati frontiere invalicabili ma soltanto confini «porosi», poiché la struttura stessa dell’ordinamento democratico fonda la propria legittimità e quella delle sue leggi sulla partecipazione diretta di tutti coloro che sono tenuti a prestarvi obbedienza. Il fatto che coloro della cui inclusione o esclusione dal demos si decide non possano a loro volta partecipare al processo decisionale ci impone vincoli di auto-riflessione e mediazione tra obblighi universali e necessità di autodeterminazione che si traducono in un processo di perenne riconfigurazione dei confini.
di Alberto Giustiniano