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Isabelle Stengers nel tempo delle catastrofi
Recensioni / Novembre 2022Nel tempo delle catastrofi. Resistere alla barbarie a venire di Isabelle Stengers è un testo scritto nel 2008, recentemente uscito in traduzione italiana per Rosenberg & Sellier (2021). Si tratta, nelle parole del curatore Nicola Manghi, di un “pamphlet politico” (p. 7), scritto con l’intenzione, da parte dell’autrice, di “prendere parola” (p. 43), ossia di intervenire nel dibattito intorno al riscaldamento globale. A corredo del testo troviamo una ricca introduzione firmata dal curatore, insieme a un’intervista all’autrice tenuta nell’agosto del 2020: la prima ha il doppio merito di presentare al lettore da un lato la traiettoria e lo sviluppo del pensiero stengersiano (dall’interesse, pur eccentrico, per l’epistemologia sino alle più mature posizioni cosmologiche) e dall’altro di chiarire alcune questioni culturali (ma anche teoriche) che la voluta brevità del testo rende spesso poco più che implicite – per esempio il riferimento alle cosiddette Science wars, lo stretto rapporto intrattenuto dall’autrice con l’etnopsichiatria, la questione delle pratiche e dei praticiens; la seconda ci permette invece di misurare le intuizioni di Stengers alla luce degli sviluppi posteriori delle questioni connesse all’ecologia, come quella costruitasi attorno al termine passepartout “antropocene”.
È proprio a partire dalla lettura dell’intervista che emerge uno degli aspetti più impressionanti del testo, ovvero la sua capacità di anticipare molte questioni che sembrano effettivamente all’ordine del giorno: pur prendendo le mosse dall’onda lunga dell’altromondismo, degli scontri di Seattle e del dibattito sugli OGM, Stengers sa vedere lontano, ponendosi in una prospettiva deliberatamente “globale”, legata ai cambiamenti climatici e al destino del pianeta Terra, e intende al contempo ricalibrare le lotte che hanno caratterizzato la seconda metà del XX secolo, perlomeno dal ’68 in avanti, in una dimensione esplicitamente intersezionale (p. 50; p. 161). D’altra parte, l’asfittico scenario che Stengers vede squadernarsi all’orizzonte pare proprio richiedere un impegno di natura globale: si è infatti ormai triangolata un’alleanza «decisiva tra la razionalità scientifica, madre del progresso di tutti i saperi, uno Stato liberato dalle fonti di legittimità arcaiche che impedivano a una tale razionalità di svilupparsi, e lo sforzo industriale che le consente di tradursi in principio d’azione finalmente efficace» (p. 85). “Stato”, “Scienza” e “Impresa”, facendo progressivamente scomparire ogni “commons”, sembrano così perseguire unicamente la logica inflessibile della crescita, muta a qualsiasi riflessione rispetto alle conseguenze cui questa potrà in futuro condurre.
Eppure è proprio questo fosco scenario ad aver fatto germogliare condizioni che possono portare a una riapertura della questione o, per dir meglio, alla presa di consapevolezza della catastrofe imminente cui l’imperativo della crescita sembra ineluttabilmente condurre: si tratta dell’intrusione di “Gaia”, figura o quasi-essere (p. 66) in cui Stengers condensa la situazione propria della contemporaneità, così come l’estrema possibilità di pensare alternative rispetto allo stato di cose presente. Non si tratta tanto di quella “Gaia” ipotizzata dallo scienziato James Lovelock negli anni ‘60, sviluppata dalla biologa Lynn Margulis, e ripresa in tempi più recenti da Bruno Latour (p. 157), ossia di un essere senziente, corrispondente con la Terra e in grado di autoregolarsi, stabilizzando instancabilmente le proprie componenti; la Gaia nominata da Stengers è piuttosto un essere che, pur dotato di una sua propria «tenuta» (p. 66) e capace dunque di porre interrogativi concreti, risulta insensibile rispetto alle risposte da lei stimolate. Con accenti quasi leopardiani (p. 68), Stengers insiste sull’impassibilità di questo essere, pura trascendenza indifferente che non chiede nulla, ma che fa problema, che forza a pensare. È proprio la sua perentoria intrusione, cui dobbiamo dunque apprendere a renderci sensibili, a costituire una sfida decisiva e globale per il mondo contemporaneo.
Il testo – riassunto qui brutalmente – poggia nella sua interezza su un architrave speculativo significativo, che vorrei provare a dissezionare, ponendomi così in dialogo con alcune intuizioni presenti nell’introduzione del curatore (p. 9). Stengers convoca costantemente sulla scena due orientamenti ontologici “forti” che, tradizionalmente, si sono posizionati agli antipodi del pensiero occidentale, ovverosia il costruzionismo e il realismo. Da un lato, infatti, il testo è puntellato dal constante riferimento a una semantica della costruzione, della finzione e della composizione: Stengers ripete a più riprese che si tratta di «comporre con Gaia» (p. 75), di creare e inventare gli artifici (p. 142) e le condizioni per nuove lotte e pratiche che non siano il semplice prolungamento di quelle realizzate in passato. È infatti proprio la capacità di invenzione – che Stengers ha evidentemente mutuato dai propri studi epistemologici – ad aver fatto sviluppare la scienza moderna e l’intero mondo ad essa connesso, dal caso Galilei (p. 88) in avanti. Allo stesso tempo, però, il riferimento a Gaia come a una “intrusione” nel mondo contemporaneo conduce il discorso stengersiano nei pressi di un deciso realismo: Gaia è infatti un ostacolo reale, un essere che, seppur non direttamente interessato alle nostre risposte, pone delle domande cui dobbiamo provare a corrispondere, per evitare la catastrofe. Più in generale, è la contingenza del reale, per Stengers, a poter stimolare la capacità del pensiero di attivarsi, di uscire cioè dall’impasse della “stupidità”: qui il riferimento esplicito sono ovviamente le riflessioni che Gilles Deleuze (e prima di lui Antonin Artaud) ha dedicato al tema della genesi del pensiero (pp. 124-125), intesa come attività che si realizza solo “da fuori” a partire da uno stimolo dotato di forza vincolante. Costruzionismo e realismo trovano così, nel testo di Stengers, ma più in generale nella sua opera, un produttivo punto di indistinzione: ciò che si deve poter inventare (un nuovo “possibile”, inteso come creazione irriducibile a ogni suo precedente o condizione) coincide con ciò che siamo costretti e forzati a costruire a partire da una contingenza che ci viene incontro (l’intrusione di Gaia).
Ecco allora che, una volta perimetrato l’orizzonte entro cui muoversi, con altrettanta chiarezza a emergere saranno gli antagonisti, rispettivamente o eccessivamente realisti o esclusivamente costruzionisti. A venir criticate sono innanzitutto le posizioni relativiste, cui spesso il pensiero di Stengers è stato associato con intento denigratorio (p. 27): l’insistenza sulla natura “costruita” delle teorie scientifiche e sulle domande di senso che non preesistono e devono dunque essere “fabbricate” a partire dall’intrusione di Gaia non implicano ipso facto una logica di tipo relativistico. La capacità di corrispondere alla contingenza non ha nulla di relativo, poiché impegna chi cerca a trovare la soluzione che abbia la migliore “efficacia” possibile. Detto in altri termini, è la contingenza a richiedere una serie di pratiche concrete e che siano in grado di funzionare adeguatamente, le quali si sganceranno così inevitabilmente da qualsiasi riferimento ad astratte e/o pacificate posizioni relativistiche. Il trattamento più ostico è però riservato a quanti si richiamano oggi acriticamente alla stagione illuminista e al pensiero di Marx: invece che rinvigorirne l’eredità, neoilluministi e marxisti si sono progressivamente trasformati in rentier (p. 125), tramutando nel privilegio di un realismo testardo ma inefficace l’originaria potenza creativa propria di questi due movimenti culturali. Con raffinatezza teorica, Stengers raccoglie sotto una stessa categoria quanti oggi si contrappongono frontalmente alle politiche economico-sociali, vagheggiando sterili pretese utopistiche a coloro che, animati da una passione triste per l’oggettività della Verità, si impegnano nel continuo smascheramento dell’irrazionalità propria di ciarlatanerie, imposture e inganni (p. 126). Ad accomunare queste due posizioni è una stessa storia, quella della nascita della modernità, tesa su un asse che produce da un lato il racconto «epico» (p. 143) dell’uomo che illumina il mondo con i raggi della propria ragione neutra e universale e, dall’altro, con uno stesso gesto, esclude e disprezza inesorabilmente il suo “altro”, d’ora in avanti liquidato come irrazionale. Si direbbe così che dove il relativismo esprime l’inventiva di costruzionismo poco incline alla contingenza del concreto, la tradizione illuminista e marxista commette l’errore opposto, incagliandosi nell’angusto spazio di un realismo “critico” che, senza l’ausilio di una matrice creativa, si rovescia in definitiva in uno sterile «canto di morte» (p. 121)
Si potrebbe dire, allora, che Stengers propone una via autonoma, tesa a trovare un equilibrio tra la componente di critica nei confronti dell’ipertrofia del capitalismo (p. 73) e il tentativo di non farsi catturare da una contrapposizione frontale che denuncerebbe un frettoloso tentativo di fornire risposte certe senza aver adeguatamente formulato il problema da cui partire (p. 59). Si tratta di una posizione la cui ambiguità Stengers non intende celare e che viene anzi definita come intimamente «preziosa» (p. 101). Non si può tuttavia negare, in questo contesto, una serie di debolezze cui la proposta dell’autrice va inevitabilmente incontro: in primo luogo con il riferimento un poco vago alla capacità di «fare attenzione» (p. 81) e la conseguente «arte del pharmakon» (p. 111), la capacità cioè di saper calibrare in giusta proporzione veleni e rimedi nei differenti tentativi di rispondere a Gaia; in secondo luogo nel riportare alla stregua di casi emblematici – esperienze certo interessanti ma forse non così pregnanti – le giurie di cittadini “sorveglianti” che tentano di monitorare il lavoro (spesso economicamente interessato) dei cosiddetti “esperti”. Più in generale, si ha talvolta l’impressione, leggendo Nel tempo delle catastrofi, che all’appello alla concretezza delle pratiche – che dividerebbero le scienze e le pratiche “viventi” dalla Scienza, dallo Stato e dell’Impresa capitalisticamente orientati – corrisponda spesso un lessico che tradisce una certa evanescenza e una natura gergale, chiusa nei suoi riferimenti e dunque poco intellegibile per chi non abbia dimestichezza con gli autori e i dibattiti al cui interno si inserisce la prospettiva stengersiana.
Ciononostante Nel tempo delle catastrofi è un saggio certamente significativo poiché prova a concettualizzare in modi innovativi la maniera in cui rispondere ai problemi posti dalla contemporaneità senza richiamare in causa la grande narrazione dell’uomo emancipatore – come nel caso della modernità illuministica che si nasconde ancora oggi dietro il dibattito sull’antropocene – e senza, al contempo, ricadere in sterili e regressive forme di preservazionismo ecologico. Per fare ciò, Stengers ha in fondo scritto un testo squisitamente filosofico, per tre ragioni essenziali: in primo luogo perché «saggia» (p. 52) il modo in cui tenere insieme concettualmente creazione e resistenza, percepito e percipiente (p. 35); in secondo luogo perché ci mostra come alla base di ogni trasformazione del mondo non debba risiedere la veemenza con cui si intende imporre una risposta certa quanto prima di tutto la capacità di saper porre la giusta domanda alla realtà (p. 51); infine, perché collega l’esperienza tutta politica della sperimentazione a quella «gioia-evento» (p. 152) che già Spinoza aveva rinvenuto quale motore per la “produzione-scoperta” (anche qui, costruzionismo-realismo) del proprio adeguato modo di vita.
di Giulio Piatti
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Bernard Stiegler e la miseria simbolica
Recensioni / Aprile 2022Non c’è evoluzione tecnologica senza che, nel più profondo, avvenga una mutazione del capitalismo
G. Deleuze, Proscritto alle società di controlloPer cogliere il senso complessivo del denso lavoro di Bernard Stiegler, La miseria simbolica. L’epoca iperindustriale 1 (Meltemi, 2021) iniziamo con l’interrogare i termini che compongono il titolo dell’opera. In cosa consiste per l’autore “la miseria simbolica” che caratterizza le nostre società in quella che egli definisce l’“epoca iperindustriale?”
«La nostra epoca – scrive Stiegler – si caratterizza come presa di controllo del simbolico da parte della tecnologia industriale, laddove l’estetica è diventata al contempo l’arma e il teatro della guerra economica» (p. 25). L’effetto di un tale conflitto sugli individui è la miseria simbolica, vale a dire «la perdita di individuazione derivante a sua volta dalla perdita di partecipazione alla produzione di simboli, designanti, questi, tanto i frutti della vita intellettiva (concetti, idee, teoremi, saperi) che quelli della vita sensibile (arti, saper-fare, costumi)» (p. 38).
Come l’autore annuncia nella Prefazione, il testo va considerato come un commento al Proscritto sulle società di controllo (in Pourparler, Quodlibet, 2019) di Gilles Deleuze. In quelle poche pagine, com’è ben noto, Deleuze sostiene che le “società disciplinari” analizzate da Michel Foucault, con l’organizzazione dei grandi ambienti di internamento (famiglia, scuola, fabbrica, ospedale, carcere) che caratterizza la loro logica, e storicamente collocabili tra il XVIII e l’inizio del XX sec., siano ormai state sostituite dalle società di controllo, la cui peculiarità consiste nell’estensione, nell’intensificazione e nella complessificazione della logica dei processi distintivi della rivoluzione industriale applicati anche alla sfera simbolica del desiderio. Nell’attuale forma di capitalismo, che Stiegler definisce con Jeremy Rifkin «culturale» (p. 83), la dimensione estetica – qui intesa in senso ampio come dimensione del sentire in generale, e nella quale soltanto è possibile costituire un “io” e un “noi” a partire da un pathos comune – viene sistematicamente presa nelle maglie del calcolo, il cui dominio, anche grazie al recente processo di digitalizzazione, si è esteso ormai ben al di là della sfera della produzione, «nella integralità dei dispositivi caratteristici di ciò che Simondon chiama l’individuazione psichica e collettiva» (p. 82).
Nell’epoca iperindustriale la legge del capitale non è più la produzione, ma «il marketing in quanto controllo dei tempi di coscienza e dei corpi attraverso la macchinazione della vita quotidiana» (p. 83), così come il luogo paradigmatico non è più la fabbrica, ma l’impresa. L’iperindustrializzazione – è questa la tesi di Stiegler – ha dunque un riscontro paradossale: da un lato fa apparire una nuova immagine dell’individuo, il consumatore, dall’altro la generalizzazione del calcolo impedisce, o quantomeno ostacola fortemente, il processo di individuazione stesso che, solo, rende l’individuo possibile.
Del saggio deleuziano, Stiegler non condivide soltanto l’analisi insieme storica e logica relativa all’insediamento progressivo di un nuovo regime di dominazione, quello, cioè, caratteristico delle società di controllo, e che comporta una notevole perdita di individuazione, vale a dire la miseria simbolica, ma fa pienamente suo, se così possiamo esprimerci, anche lo spirito politico battagliero, che anima quelle pagine e che ben si esprime in queste parole, che lo stesso Stiegler cita: «Non è il caso né di avere paura né di sperare, bisogna cercare nuove armi» (Deleuze, 2019, p. 235). Come ben specifica Rosella Corda nell’Introduzione, il lavoro di Stiegler non si limita infatti «alla costatazione sterile o alla rassegnazione diagnostica», ma si pone l’obiettivo di trovare, «proprio in questo disperare, mancare di speranza, un po’ di possibile» (Stiegler, 2021, p. 9)
La questione delle armi, come esplicitamente afferma l’autore, è la «questione della tecnica in generale» – ovvero la questione cardine su cui ruota tutta l’opera di Stiegler fin dal suo primo lavoro La technique et le temps 1. La faute d’Épimethée, –, la quale è anche questione del politico, questione, cioè, «del destino di un noi» (Stiegler 2021, p. 38). La questione della tèchne, che, ricordiamolo, per Stiegler è un pharmakon, vale a dire insieme veleno e antidoto, si articola qui nell’ipotesi di un’organologia generale, la quale si pone l’obiettivo di indagare, dal punto di vista di una prospettiva antropologico-filosofica, la genesi del processo di ominazione. La domanda a cui l’organologia risponde è dunque una domanda sulla seconda natura dell’uomo, vale a dire sulla natura “originariamente” protesica, e cioè tecnica, dell’uomo. Un’adeguata interrogazione della secondarietà che contraddistingue l’umano rappresenta una condizione senza la quale non è possibile comprendere l’epoca attuale e la sua miseria simbolica, né risulta possibile – ed è questo ciò che più conta per Stiegler – indicare delle vie alternative a tale stato di miseria.
Il progetto di un’organologia generale prevede lo studio congiunto di quelle che Stiegler considera le «tre grandi organizzazioni che formano la potenza estetica dell’uomo: il suo corpo con la sua organizzazione fisiologica, i suoi organi artificiali (tecniche, oggetti, utensili, strumenti, opere d’arte) e le sue organizzazioni sociali che risultano dalla articolazione degli artefatti e dei corpi (pp. 31-32)». Il concetto chiave su cui l’autore costruisce tale progetto è il concetto di ritenzione terziaria, il quale, a differenza dei concetti di ritenzione primaria e di ritenzione secondaria con i quali Husserl indicava rispettivamente la dimensione della percezione e la dimensione dell’immaginazione, indica la dimensione artificiale della produzione da parte dell’uomo di oggetti di memoria esteriorizzata, come ad es. lo smartphone, i libri, gli edifici, le targhe commemorative, i film.
Nel terzo capitolo del libro “Allegoria del formicaio. La perdita di individuazione nell’epoca iperindustriale”, Stiegler ricostruisce per tappe storiche il processo di produzione delle ritenzioni terziarie, che egli chiama epifilogenesi. «L’ambiente epifilogenetico – scrive l’autore – come insieme delle ritenzioni terziarie costituisce il supporto dell’ambiente preindividuale permettendo l’individuazione del genere» (p. 89). Essendo l’epifilogensi il «deposito di memoria che è specifico di una forma di vita unica, quella del genere umano» (p. 66), ed essendo la natura dell’uomo già da sempre tecnica, la storia dell’epifilogenesi segna le tappe dell’individuazione dell’uomo, in particolare dell’uomo occidentale. Senza poter approfondire i vari passaggi che caratterizzano questa storia, che è anche la storia di una lotta per la definizione delle criteriologie dei dispositivi ritenzionali («processo di grammatizzazione», p. 90), ci preme mettere in luce il fatto che secondo Stiegler questo processo ha raggiunto un punto limite nell’epoca iperindustriale. Il processo di individuazione rischia cioè di annullarsi in favore di una «ipersincronizzazione» (p. 96) – ben resa dall’allegoria del formicaio – in cui la differenza tra “io” e “noi” collassa nel “si”, ovvero in quella condizione che Stiegler chiama anche di «mal-essere» (p. 98), tale per cui gli individui, non avendo più accesso alla produzione di simboli, perdono la loro singolarità e la correlata possibilità di proiettarsi in un “noi” e, dunque, in una dimensione politica. Privati di singolarità, gli individui cercano di singolarizzarsi mediante gli artefatti che il mercato mette loro a disposizione, il quale sfrutta la miseria propria del consumo stesso, e così facendo fanno esperienza del loro fallimento: «non si amano più e si rivelano sempre meno capaci di amare» (p. 99).
Concediamoci ora una considerazione generale sul senso dell’opera di un autore come Stiegler. Se ci soffermassimo soltanto sul lato diagnostico, sulla pars destruens del suo discorso correremmo il rischio di eludere l’aspetto più rilevante dello sforzo intellettuale – e non solo – dell’opera e della vita di Stiegler, il quale riguarda l’impegno con cui l’autore ha da sempre tentato di rispondere alla domanda: “che fare?”. Se infatti considerassimo solo l’aspetto analitico della sua opera, finiremmo per giudicare Stiegler, come pure è stato fatto soprattutto dopo la pubblicazione de La società automatica. 1. L’avvenire del lavoro (Meltemi, 2019), un autore catastrofista. Per quanto la situazione diagnosticata dall’autore sia effettivamente catastrofica, Stiegler, come si è detto, non cede nemmeno per un attimo al catastrofismo. È questo un punto battuto da tutti i curatori delle edizioni italiane recenti delle opere di Stiegler, sulla cui insistenza, potremmo dire, Meltemi ha costruito la cifra peculiare della sua operazione editoriale, che ha portato alla pubblicazione dei due volumi sulla miseria simbolica (Stiegler, 2021; La miseria simbolica. 2. La catastrofe del sentire) e a quello sulla società automatica (Stiegler, 2019) nella serie “Culture radicali” diretta da Gruppo Ippolita.
Come scrive Giuseppe Allegri in un articolo online su OPERAVIVA dal titolo Dentro, oltre e contro la società automatica, «il ricercare e l’agire di Stiegler si oppone radicalmente a qualsiasi visione apocalittica che altri rintracciano nel suo pensiero, del tutto inspiegabilmente e proprio leggendo il volume sulla Società automatica, mentre la postura del Nostro è anche e soprattutto quella progettuale e sperimentale, per la promozione e il sostegno di collettivi di ricerca che coinvolgano e che già coinvolgono ampi spezzoni di società, associazionismo di base e frammenti di classe dirigente, disposti ad accettare e orientare la trasformazione tecno-digitale e socio-economica nel senso di un ripensamento radicale delle categorie e delle pratiche sociali per maggiore autodeterminazione, dignità, felicità in favore dei molti» (https://operavivamagazine.org/dentro-oltre-e-contro-la-societa-automatica/). Lo stesso Allegri, autore della postfazione al testo qui recensito, e significativamente titolata Ricchezza delle pratiche inventive, fa un lungo elenco delle attività che hanno impegnato Stiegler dalla fine degli anni Novanta fino alla sua scomparsa nell’agosto del 2020, e che lo hanno coinvolto nella fondazione di «nuove istituzioni», quali, tra le molte altre, citiamo Ars Industrialis, «la cui “ragione sociale” è quella di un’associazione europea per una politica industriale delle tecnologie dello spirito», o «IRI – Institute pour la Recherche et l’Innovation presso il Centre Pompidou, all’interno del quale è riuscito a promuovere una rete di Digital Studies inaugurata nel 2012»,o che lo hanno visto collaborare al «progetto avviato nel maggio 2016 di Territoire Apprenant Contributif, che coinvolge i 9 comuni di Paris Nord/Seine-Saint-Denis» (pp. 160-161).
Specificamente per quel che riguarda La miseria simbolica 1. L’epoca iperindustriale, in tutte le pagine che compongono i quattro capitoli del libro, finanche nei punti in cui la disperazione emerge in maniera più forte, e, anzi, soprattutto lì, la domanda sul “che fare?” e la ricerca continua di quella che con una bella espressione Stiegler definisce l’«energia zoppicante della chance» (p. 124) non scompaiono mai dall’orizzonte. In particolare, si ha un riscontro evidente dell’insistenza con cui Stiegler si spende per “cercare nuove armi” nell’analisi dei due film On connaît la chanson di Alain Resnais e Tiresia di Bertrand Bonello, che egli conduce rispettivamente nel secondo (Come se ci mancassimo o di come trovare delle armi a partire da Parole parole parole… (On connaît la chanson) di Alain Resnais”) e nel quarto capitolo (“Tiresia e la guerra del tempo. A proposito di un film di Bertrand Bonello”) del testo.
Nel film di Resnais il nostro autore trova esemplarmente tracciata, nel modo in cui il regista compone e scompone cliché attraverso l’utilizzo della tecnica del sampling e più specificamente attraverso la ripetizione ventriloqua che i personaggi si trovano a fare dei ritornelli di alcune famosissime canzoni francesi, la via «per una nuova capacità di immaginare/sentire» (p. 15), che prenda le mosse proprio da quel processo che fa scomparire la differenza tra “io” e “noi” nel “si”, ma tentando di invertirne la direzione.
di Gian Marco Galasso
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Il contrario della solitudine. Un femminismo in comune
Recensioni / Febbraio 2021Originariamente pubblicato con il titolo Feminismo em comun. Para todas, todes e todos (2018), Il contrario della solitudine. Manifesto per un femminismo in comune (2020) scritto da Marcia Tiburi è ospitato da effequ nella collana Saggi Pop. La casa editrice ha il merito di introdurre Marcia Tiburi, filosofa e femminista brasiliana altrimenti inedita al panorama italiano, selezionando all’interno della sua vasta produzione (filosofica, letteraria, artistica) un testo esplicitamente posizionato nella lotta femminista. Nella traduzione italiana, a cura di Eloisa Del Giudice, la scelta del titolo abdica a un calco letterale dell’originale portoghese, tuttavia senza alterare la proposta di un femminismo radicalmente democratico, costruito attraverso la messa in comune del dissenso di tutte, tuttə e tutti (todas, todes e todos) all’indirizzo del dispositivo patriarcale.
Ispirandosi a Foucault, Tiburi definisce il patriarcato come una forma di potere e sapere che ordina i discorsi sul criterio predicativo della verità. In altre parole, le istituzioni patriarcali autorizzano come veri i discorsi dell’ʻuomo biancoʼ (p. 52, 92), mentre dispongono su una scala di gradi gerarchici discorsi altri, a ciascuno dei quali viene negato un contenuto veritativo e di conseguenza un’autonomia politica. In ultima istanza, l’ordine veritativo della politica e l’ordine politico della verità sono una e una medesima cosa nel regime di pensiero autoritario. A ben vedere, il tema dell’autoritarismo è il denominatore comune delle più recenti pubblicazioni di Tiburi: a partire da Como conversar com um fascista: reflexões sobre o cotidiano autoritário brasileiro (2015), dove l’autrice intraprende una decostruzione dei microfascismi quotidiani; venendo all’analisi portata avanti sul piano estetico in Ridículo político: uma investigação sobre o risível, a manipulação da imagem e o esteticamente correto (2017), testo nel quale il terrorismo istituzionale è osservato nel suo carattere farsesco entro la cornice storica del golpe di Michel Temer a seguito dell’impeachment ai danni di Dilma Rousseff; approdando infine a Il contrario della solitudine (2020), diciassette brevi capitoli in cui la lotta comune per una democrazia radicalmente femminista consiste nella critica dell’autoritarismo quale si declina nella struttura patriarcale e nella sua verità grottesca (talmente terrificante da risultare ridicola, talmente ridicola da suscitare terrore): l'ideologia di genere (p. 60). Quest’ultima viene criticamente discussa nel settimo e nel decimo capitolo dopo essere stata inquadrata nel quarto capitolo fra le verità assolute del patriarcato, così riassumibili: l’identità è naturale; la sessualità è binaria; la differenza di genere stabilisce i ruoli sociali; il polo maschile gode di superiorità; il polo femminile soffre di inferiorità (p. 38).
Finché l’ideologia patriarcale pretenderà di far corrispondere i ruoli sociali a una presupposta naturalità dei sessi, a loro volta bipartiti per via assiologica, il lavoro non smetterà di essere «un vero problema di genere» (p. 27). Se il sesso è alla base della divisione del lavoro, allora il genere è la versione compiutamente socializzata del lavoro sessuale e sessualizzato. Per tale ragione, sostiene Tiburi, «non possiamo pensare al femminismo senza pensare al lavoro» (ibidem). Il binomio donna e lavoro pone la riflessione non solo sul versante politico, ma anche su quello economico. Tuttavia, Tiburi prescinde da una contestualizzazione storica e da una ricostruzione genealogica di alcuni concetti chiave a partire dai quali svolge l'argomentazione. Concetti come ʻpatriarcatoʼ e ʻcapitalismoʼ, per esempio, rischiano di risultare frettolosamente sorvolati, impedendo una più profonda comprensione del posizionamento teorico dell’autrice. Il ritmo sincopato tipico del pamphlet certamente imprime al manifesto la forza dialettica del pensiero critico, giocando però a detrimento di una riflessione sulle condizioni di possibilità della presa di parola da parte di Tiburi. Solo raccogliendo le tracce disseminate nel testo possiamo tentare di risalire alle premesse storiche e filosofiche di ʻpatriarcatoʼ e ʻcapitalismoʼ dalle quali Tiburi muove. Vale la pena riportare estesamente un passaggio:
Se pensiamo in termini di segni usati per identificare i corpi, diremo che la donna è l’essere identificato per servire al mondo del privilegio patriarcale. Sotto il segno del capitalismo, il mondo è entrato in un divenire donna così com’è entrato in un divenire nero nel senso di identificazione con lo scopo dell’asservimento generale di tutti. Alcuni femminismi sono riusciti a trasformare il segno donna in qualcosa di positivo, ma sta di fatto che, nel patriarcato – che equivale al capitalismo –, le donne sono sempre state figure negative, un ʻaltroʼ creato per l'asservimento (pp. 77-78).
Da un punto di vista storico, l’equivalenza di patriarcato e capitalismo circoscrive il focus sul patriarcato in epoca moderna, sebbene la storia del patriarcato sia notoriamente più longeva. Da un punto di vista filosofico, notiamo come Tiburi ponga l’accento sulla trasformazione impressa nel patriarcato dall’emergere del capitalismo. Tiburi non sembra chiedersi, piuttosto, come il patriarcato si trasformi a partire da se stesso: né in senso diacronico rispetto a sistemi patriarcali che precedono la modernità né in senso sincronico rispetto a sistemi altri dal patriarcato. Il sistema capitalista è indubbiamente uno di quei sistemi altri che in epoca moderna entra in accoppiamento strutturale con il sistema patriarcale. Nonostante s’intersechino, i due sistemi sono comunque operativamente autonomi.
Non converrebbe risalire a quel contratto sociale grazie al quale gli uomini si sono associati, eguali detentori di diritti civili e politici? Seguendo la pista genealogica tracciata da Carole Pateman (2015; ed. or. 1998), filosofa e femminista critica nei confronti di una certa tradizione del pensiero liberale moderno, la negatività attribuita alle donne cui si riferisce Tiburi potrebbe riconfigurarsi come diritto originario degli uomini di negare la politicità degli spazi femminili – siano essi i corpi stessi delle donne o i territori assegnati alle loro cure. Il contratto lavorativo è solo un volto del contratto sociale, quel volto che è stato negato con maggiori difficoltà dal momento che ha chiamato in causa fin da subito una classe di uomini a servizio di un’altra classe di uomini. L’altro volto del contratto sociale è il contratto sessuale, il quale ha sancito l’eguaglianza degli uomini – ognuno essendo proprietario di se stesso – al costo dell’asservimento delle donne. Dunque, potrebbe essere ricondotta alle premesse storiche e filosofiche di cui sopra la dialettica serva-signore che Tiburi ravvisa nella condizione orizzontale occupata positivamente dagli uomini in relazione alla condizione verticale che vede le donne occupare il polo negativo (Tiburi 2020, p. 45). A questo proposito, Tiburi afferma:
Il patriarcato si costituisce attraverso un’equazione: da un lato stanno gli uomini e il potere, dall’altro le donne e la violenza. Il potere che ratifica la violenza contro l’altro sta al sadismo come la sottomissione sta al masochismo. Le donne non possono esercitare il potere politico, economico e di conoscenza, e sono vittime della violenza. Gli uomini esercitano il potere e la violenza contro le donne. Per questo il movimento femminista è anche una lotta contro la violenza esercitata nell’intento di distruggere le donne quando non servono sessualmente, maternamente o sensualmente, quando non producono, non consumano e anche quando criticano questo stato ingiusto. Questo stato di cose verrà trasformato solo dirigendoci verso la produzione di una coscienza femminista veramente radicale (pp. 104-105).
Una prima questione riguarda il valore d’uso per il quale «i corpi sono stati misurati» (p. 23). Il titolo del terzo capitolo, Siamo tutte lavoratrici, rimanda infatti a «la più ampia sfera del lavoro, nella quale è in gioco ciò che si fa per l’altro per necessità di sopravvivenza» (ibidem). Questi pochi indizi ci permettono quantomeno di leggere fra le righe una concezione estesa del lavoro che, se portata alle sue estreme conseguenze, agevolerebbe una teoria generale dello sfruttamento. Le implicazioni di uno sfruttamento generale non vengono approfondite da Tiburi, mentre sono state sviscerate da Christine Delphy, sociologa e femminista francese. Nonostante si riallacci a una scuola di pensiero e a un contesto storico differente, la riflessione di Tiburi potrebbe trovare un'alleata nella definizione primaria di sfruttamento offerta da Delphy: «appropriazione del lavoro altrui» (Delphy 2020, p. 89). Alla distinzione di due economie – il modo di produzione patriarcale (o domestico) e il modo di produzione capitalista – corrisponde il vantaggio di individuare altrettanti beneficiari del profitto: da una parte, nella casa, il capofamiglia che estorce gratuitamente lavoro domestico; dall’altra parte, nella fabbrica, il capitalista che estorce plusvalore a fronte della forza-lavoro salariata. Se, al contrario, si cede all’insidiosa equivalenza di capitalismo e patriarcato – sulla quale Tiburi non fa dovuta chiarezza – si rischia di sovrapporre l’economia capitalista all’economia patriarcale. In sintesi, se il mercato viene naturalizzato come il modello privilegiato delle relazioni domestiche, la donna diventa automaticamente riproduttrice di forza-lavoro, ossia di quella merce (il lavoratore) che produce plusvalore (profitto capitalista), perdendo così per strada la violenza dello sfruttamento specificamente domestico. Riconoscendo autonomia sistemica ai diversi modi di sfruttamento non s’incorre, a nostro avviso, nella depoliticizzazione della sfera domestica: semmai, si fa luce sulla gestione politica dello sfruttamento domestico. In base alle nostre ultime considerazioni, il seguente stralcio di Tiburi può essere letto dirimendo il più possibile gli equivoci, a condizione di dare rilievo alla similitudine introdotta dalla particella ʻcomeʼ – a condizione, cioè, di cogliere il peso metaforico implicito nell’equivalenza:
Ora, il lavoratore è il servo del capitalismo, il che equivale a dire che è come la donna del capitalismo. La donna del lavoratore, dal canto suo, è come la sua serva. Questo significa che, di fronte a una donna, sia essa nella condizione di sposa o puttana, il suo sfruttatore – sia esso a sua volta sfruttato, come nel caso del lavoratore – è in un modo o nell'altro un capitalista (Tiburi 2020, p. 78).
Una seconda questione, che torna a più riprese nel testo, riguarda i marcatori di oppressione (p. 33), ovvero tutti i segni identitari che vengono eterodiretti dal patriarcato. Nella misura in cui quest’ultimo è «caratterizzato dall'associazione intersezionale di genere-razza-classe-sessualità e – aggiungiamo – età e plasticità» (p. 54), il femminismo sarà chiamato a cambiare di segno la rete di intersezioni. Le insidie della investitura dialettica sono inevitabilmente tenute in conto, pertanto un’autocritica interna al femminismo sarà una condizione necessaria (sebbene, da sola, non sufficiente) affinché la lotta non si configuri né come un'ʻutopia matriarcaleʼ né come un “femminismo di moda” (ivi p. 40). In primo luogo, allora, il femminismo è una teoria e una pratica etico-politica della coscienza di sé: mettendo in discussione una possibile deriva autoritaria del femminismo stesso, la lotta potrà resistere non solo a un'inversione della marcatura per mera sostituzione di servi e padrone, vittime e carnefici (p. 103), ma anche a una femminilizzazione del patriarcato. Con l’ultima espressione alludiamo a un femminismo di Stato, ovvero a una cattura del femminismo da parte dello Stato patriarcale, tale da sancire il passaggio dal femminismo (bistrattato) al femminile (elogiato) (p. 62).
In secondo luogo, il femminismo è una teoria e una pratica poetico-politica indirizzata al «riscatto delle parole» (p. 96), vale a dire a una risignificazione della marchiatura. Come possono le donne riscattarsi dalla sottomissione masochistica nella quale sono state collocate (anche da alcune tendenze femministe)? Come reinventare, dunque, le parole? Attraverso il dialogo, suggerisce Tiburi. Tutto l’opposto di una via pacificata al consenso, «il dialogo è un movimento tra presenze che differiscono tra loro» (p. 55). Sgravato dal bagaglio rappresentazionale della svolta linguistica, il dialogo non è medium simbolico di resoconti più o meno fallaci, più o meno devianti di una realtà patriarcale presupposta come unica e vera. Al contrario, il dialogo è il processo con cui territori di senso prima sommersi emergono per collisione.
«In quanto riconoscimento del nostro spazio nella natura e motto della costruzione politica» (p. 135), l’ecofemminismo indicato da Tiburi come «il futuro che dobbiamo conquistare» (ibidem) è un esempio emblematico della molteplicità di voci interne al femminismo. Dal lato ecologico, l’ecofemminismo pone l’accento sulla natura che è stata resa invisibile dal contratto sociale (Serres 2019); dal lato femminista, l’ecofemminismo denuncia la mossa essenzialista con la quale il naturalismo ha assimilato il polo femminile al polo naturale, concepiti entrambi come risorse infinitamente sfruttabili. Il fatto che all’interno di numerosi collettivi indigeni dell’Amazzonia, brasiliana e non, decisamente non tutte siano disposte a dichiararsi ʽecofemministeʼ la dice lunga sulla pluralità di prospettive che difficilmente si lasciano riassumere in un’unica espressione. In breve, quante sono le voci a prendere parola altrettanti sono i femminismi, quanti sono i concetti di ʻnaturaʼ e ʻcorpoʼ espressi altrettante sono le lotte ecologiche e femministe mobilitate.
Affinché lo spazio di parola dell'altra (Tiburi 2020, p. 66) non sia trasformato dall’egemonia concettuale dell’occidente in uno spazio di morte filosofica, il dialogo non potrà che far emergere, anziché negare, le differenze con le quali, agendo di concerto, pensare concetti talmente singolari da avere in comune almeno la lotta: la convergente dissonanza di molteplici istanze anti-patriarcali.
di Giulia Gottardo
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Bibliografia
C. Delphy, Per una teoria generale dello sfruttamento. Forme contemporanee di estorsione del lavoro, trad. it. di D. Ardilli, ombre corte, Verona 2020.
C. Pateman, Il contratto sessuale. I fondamenti nascosti della società moderna, Moretti & Vitali, Bergamo, 2015.
M. Serres, Il contratto naturale, trad. it. di A. Serra, Feltrinelli, Milano 2019.
M. Tiburi, Como conversar com um fascista: reflexões sobre o cotidiano autoritário brasileiro, Record, Rio de Janeiro 2015.
M. Tiburi, Ridículo político: uma investigação sobre o risível, a manipulação da imagem e o esteticamente correto, Record, Rio de Janeiro 2017.
M. Tiburi, Il contrario della solitudine. Manifesto per un femminismo in comune, trad. it. di E. Del Giudice, effequ, Firenze 2020.
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Con Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica (2020) Roberto Esposito porta avanti la riflessione per una filosofia politica affermativa che da tempo muove le sue pubblicazioni. La presa di distanza dalle filosofie che pensano le proprie categorie a partire dal loro rovescio negativo (l’amico a partire dal nemico, la vita a partire dalla morte) è esplicito in Politica e negazione (2018) ma rintracciabile fin da Communitas (1998). D’altra parte in Pensiero istituente si chiarisce anche il distacco dell’autore dalla parte della biopolitica e da quella filosofia affermativa che dimentichi di articolare in maniera produttiva la negatività e il conflitto come caratteristiche imprescindibili del politico. La novità del saggio è proprio la definizione di una terza posizione all’interno della quale Esposito stesso si colloca: egli la delinea tornando a Machiavelli ma soprattutto attraverso l’opera di un autore di cui fin qui poco si era occupato e che, almeno per quel che riguarda la recezione italiana, rientra ancora tra i minori, Claude Lefort. È alla sua posizione, definita appunto istituente, che si riferisce il titolo del nostro testo e che costituisce la proposta positiva di Esposito.
L’articolazione del libro in tre capitoli restituisce la partizione proposta dall’autore tra un paradigma destituente che fa capo alla tradizione heideggeriana, un paradigma costituente fatto risalire all’opera di Deleuze, e infine un pensiero istituente, neo-machiavelliano o conflittualista, lefortiano. Se l’ultimo paradigma è la pars costruens del discorso di Esposito, Heidegger e Deleuze rappresentano invece due tendenze, tra loro opposte ma ugualmente degenerative, che caratterizzano la crisi del pensiero politico contemporaneo. Ripercorrerne le elaborazioni è così un modo per prendere posizione rispetto al dibattito, italiano e non, che ad essi è debitore, si pensi per esempio ad Agamben o a Nancy per il primo ed a Negri e Hardt per il secondo.
Le tre posizioni si collocano all’interno di un orizzonte che Esposito definisce «ontologico politico post-fondazionale» e corrispondono ad altrettante declinazioni possibili del rapporto tra essere, politica e differenza. A caratterizzare questa impostazione sarebbe secondo l’autore la particolare consapevolezza della dipendenza reciproca di ontologia e politica: da una parte la presupposizione di concezioni sull’essere (sullo spazio, sul tempo, sull’uomo) implicita in ogni azione politica, dall’altra il fatto che l’elaborazione di posizioni ontologiche, a partire dalla decisione su ciò che deve o meno essere considerato politico, dipende a sua volta da opzioni politiche. È su questo piano comune che riposa la possibilità di un confronto tra autori che si sono occupati in maniera quanto mai difforme di politica, sia per quel che riguarda la teorizzazione che la sua pratica concreta. L’impressione però è che ad emergere in Pensiero istituente, anche rispetto ad altri interventi dello stesso Esposito più situati rispetto a questioni di politica contemporanea, sia piuttosto l’ontologia della politica che non la concreta esigenza politica di un’ontologia.
Il primo capitolo del saggio è dedicato al paradigma destituente cui fanno capo le filosofie che, pensando la politica a partire dal suo fondamento negativo, hanno come esito una delegittimazione dell’azione politica. In questa prospettiva che vede la politica rinchiusa all’interno dei propri confini mondani, e compromessa con la violenza e il potere che ne fanno parte, ogni tentativo di realizzazione storica di qualsivoglia idea di bene o di giustizia è destinato a fallire. La critica di Esposito al pensiero heideggeriano ed al paradigma che rappresenta è che, a fronte di affermazioni teoricamente rivoluzionarie, essi finiscano per essere praticamente inerti e spoliticizzanti (p. XIII).
Benché Esposito ne ripercorra quasi interamente l’opera, non è tanto l’Heidegger degli anni Trenta a rappresentare nella maniera più chiara questo paradigma. Qui, ancora, l’adesione al regime nazista si accompagna a un discorso positivo sulla messa in opera e quindi a una possibilità positiva di politica, benché Heidegger la immagini guidata dalla filosofia in un primo tempo (cfr. il Discorso del rettorato, 1933), e in seguito la concepisca in analogia alla creazione dell’opera d’arte, condotta da parte degli individui “più unici” in grado di dare unità simbolica e politica a un popolo (cfr. i corsi del 1934-35 su Hölderlin e L’origine dell’opera d’arte, 1935). È piuttosto dagli anni Quaranta che Heidegger comincia a maturare la sfiducia nei confronti dell’azione che andrà consolidando negli scritti del secondo dopoguerra. Già nel corso del ’42 su l’Ister di Hölderlin, Heidegger non pensa più la politica come un’opera da realizzare ma come un evento che emerge dalla polis (p. 46). Se però ancora nella polis una politica sembra possibile, in un mondo sempre più dominato dalla tecnica l’azione politica non è in grado di sottrarsi alla sua razionalità: il passaggio dall’idea greca di una realtà operante alla concezione romana del reale come creato e dell’agire come causa efficiente fa sì che l’azione politica venga a far parte della stessa logica della tecnica e della macchinazione che vorrebbe contrastare (cfr. Scienza e meditazione, 1953). In questo contesto l’unica azione possibile è un lasciar essere, una revoca dell’azione e della volontà che in Heidegger si tinge di tinte poetico meditative (cfr. Gelassenheit, 1983).
Come già accennato, Heidegger non è l’unico autore ascritto al paradigma destituente. In Categorie dell’impolitico (1988), che si può dire si muova all’interno di questa prospettiva, Esposito si era rivolto tra gli altri a Weil, Broch, Bataille che anche in Pensiero istituente non manca di citare. Se la lezione di altri autori «destituenti» non porta a esiti così smaccatamente spoliticizzanti come quelli di Heidegger egli è però portatore dell’opinione condivisa sulla limitatezza, sulla non fondatezza dell’agire umano e sulla sua implicazione nella necessità del mondo. Come commenta Esposito seguendo Schürmann: «A venir meno, con la distruzione metafisica praticata da Heidegger, non è l’agire, ma la possibilità che questo continui a essere legittimato da un principio esterno. Ormai la praxis non è più fondabile da parte della theoria» (p. 65).
Un discorso specularmente inverso vale per il paradigma costituente rappresentato da Deleuze. La filosofia di Deleuze è definita costituente nel senso che essa pensa l’essere come una realtà creativa e produttiva di molteplicità. La critica di Esposito a questa posizione è che, per quanto non pacifica nel percorso di Deleuze, la coincidenza sempre più stretta di essere e differenza tenda a obliterarne la dimensione conflittuale, e il politico, che in questa dimensione si colloca, finisce per confondersi con il flusso del divenire perdendo rilievo specifico e forza critica. «Ciò che manca, in un’ontologia dell’immanenza assoluta, non è la trascendenza del potere, ma una teoria del conflitto politicamente articolata» (p. 115).
Anche in questo secondo capitolo Esposito ripercorre puntualmente l’evoluzione del pensiero di Deleuze. Secondo l’autore, in buona parte in consonanza con Žižek, il pensiero di Deleuze oscilla tra due ontologie divise dalla posizione di fronte al negativo. Ancora in Nietzsche e la filosofia il negativo viene inteso come il risultato dell’aggressività dell’affermarsi della differenza, dotato di una forza propria, e in Marcel Proust e i segni emerge come il segno di ciò che non è più, di ciò che è passato. A partire dagli anni ’60, con l’avvicinamento alle posizioni di Bergson, Deleuze tende invece a mettere da parte il negativo come falso problema. Nonostante qualche eccezione (cfr. per esempio Logica del senso, 1969), la sua ontologia si sposta interamente sul piano di immanenza cosicché l’essere stesso viene a coincidere con la differenza, ovvero con una realtà plurale e articolata in una molteplicità di organizzazioni (p. 107). Proprio quando, nella collaborazione con Guattari, l’interesse e il linguaggio di Deleuze si fa espressamente politico, la politica stessa finisce per perdere i confini del proprio ambito e viene a coincidere con il dispiegarsi del desiderio inteso come azione rivoluzionaria produttiva di realtà (p. 120). In questo contesto la critica al capitalismo che innerva i due volumi di Capitalismo e schizofrenia vede come unica azione politica possibile l’accelerazione degli stessi flussi di desiderio di cui il capitalismo è composto. La schizofrenia, la decodificazione di tali flussi e la dissoluzione degli ultimi vincoli che ancora li trattengono costituiscono l’unica strada per immaginare il superamento del capitale.
Nello stesso ordine di riflessioni si inseriscono, come già notato da Benjamin Noys (cfr. The Persistence of the Negative, 2010), autori come Lyotard e Baudrillard, ma Esposito vi fa convergere anche Negri e Hardt e per altro verso Vattimo. Il tratto che, pur nelle differenze specifiche, li accomuna è il tentativo di contrapporsi al capitale dall’interno, assecondandone la razionalità invece di contrastarla (p. 79). L’esito del paradigma costituente risulta simmetricamente opposto a quello heideggeriano, ovvero un pensiero dalla veste al contempo iperpolitica e spoliticizzante. Una nota a parte meritano invece due testi, Istinti e istituzioni (1955) e Empirismo e soggettività (1973), perché ci portano nella direzione che sarà propria del paradigma istituente. In questi testi, a partire dalla lettura di Hume, Deleuze interpreta l’istituzione come la zona d’incontro tra natura e cultura, ovvero tra il desiderio e la necessità di darvi una forma. Diversamente dalla lettura che ne è stata data dai francofortesi fino a Foucault, in questa prospettiva l’istituzione è l’affermazione di un modello possibile di soddisfazione degli istinti piuttosto che un dispositivo volto a frenarli, com’è invece la legge. Vedremo come ciò sia consonante con alcune posizioni lefortiane.
A queste ultime si rivolge il terzo e ultimo capitolo di Pensiero istituente. Lefort (1924-2010) è noto per essere stato fondatore insieme a Cornelius Castoriadis di Socialismo o Barbarie. Allievo di Merleua-Ponty, ne è stato anche esecutore testamentario curando e introducendo le edizioni di molti dei suoi testi, come Il visibile e l’invisibile (1964); L’institution. La passivité (2003); e Œuvres (2010). Questa matrice fenomenologica caratterizza fortemente il terzo paradigma delineato da Esposito. Qui l’istituire viene inteso come un processo di stabilizzazione dell’esperienza che si compie su un piano intersoggettivo: se da una parte l’istituzione consiste nelle azioni dei soggetti istituenti, essa ha allo stesso tempo una validità indipendente da ognuno di essi. In questo modo i singoli la tengono in vita modificandola, ma senza per questo crearla ex nihilo né tantomeno trovandola prederminata, ricevendola da altri e restituendola ad altri.
Ad istituire per Lefort è in primo luogo la politica, dove essa consiste nella messa in forma simbolica dei conflitti che dividono il sociale. Questa prospettiva, che segna anche il distacco da Marx, deve molto all’incontro con la letteratura etnografica e con Machiavelli (cfr. Le Travail de l'œuvre Machiavel, 1972). In particolare dal confronto con quest’ultimo, in parte anticipato nel Merleau-Ponty delle Note su Machiavelli (1949) e de Le avventure della dialettica (1955), si delineano due punti centrali dell’ontologia politica di Lefort: il simbolico come luogo del politico e l’ineluttabilità del conflitto. Come ribadisce Esposito «il potere ha a che fare più col discorso – cioè con la sua costruzione rappresentativa – che con i rapporti economici all’interno dei quali s’istituisce» (p. 178), in quanto sua immagine simbolica il politico eccede dal sociale e retroagisce su di esso. Se da una parte non si dà politica al di fuori della società su cui si esercita, infatti, d’altro canto anche la società non esiste propriamente come insieme riconoscibile prima di essere resa visibile tramite la sua rappresentazione politica (p. 169). D’altra parte, la comprensione del conflitto come dato ineluttabile delle società intende affermare che l’ordine politico è sì possibile ma sempre provvisorio, ovverosia che l’operazione di simbolizzazione e di messa in forma della società non è garantita dal suo fallimento proprio perché, se il politico non coincide col sociale, neppure il sociale coincide con se stesso. Ciò che distingue le diverse società è il modo in cui in esse il potere politico rappresenta il conflitto (p. 191). Da una parte, nelle cosiddette “società senza storia” o “stagnanti” la tendenza è quella a escludere e neutralizzare per quanto possibile il conflitto, con lo scopo di mantenere intatto un certo ordine. Diversamente, secondo Lefort, la democrazia moderna è l’unico sistema politico in grado di riconoscere e rappresentare l’essenza conflittuale della società (cfr. Sur la démocratie: le politique et l’institution du social, 1971). Attraverso le sue istituzioni volte non tanto a mantenere un certo potere quanto a salvaguardare la possibilità del suo passaggio di mano tra le parti in gioco, la democrazia dà forma a un potere vuoto, cioè infinitamente contendibile. Contraddicendo una valutazione comune ai più grandi pensatori politici novecenteschi, che intendono la modernità come un’epoca di spoliticizzazione, per Lefort la democrazia moderna è al contrario politica per eccellenza. Nell’istituzione democratica, infine, viene riconosciuto il risultato del ribaltamento dell’articolazione di diritto e potere messa in atto dalle rivoluzioni moderne, dove adesso è il diritto a fondare e a limitare il potere.
Anche in questo caso Lefort non è né il primo né l’unico ad aver tematizzato l’istituzione, egli ne condivide anzi il discorso con autori come Castoriadis, Ricoeur, ma anche Hariou e Santi Romano. In particolare attraverso quest’ultimo, cui Esposito dedica l’ultimo paragrafo del saggio, il discorso istituente viene aperto a una prospettiva che superi la dimensione statale. Romano riconosce l’istituzione anche nelle collettività organizzate alternative o addirittura competitive nei confronti dello Stato, facendo dell’istituire un processo in grado di accogliere le istanze mutevoli della società. Così anche per Esposito «tutt’altro che a un ordine consolidato di regole e leggi, l’istituire rimanda piuttosto a un compito – coincidente con quello della politica – destinato a mutare continuamente il quadro normativo entro cui agisce» (p. XIX).
di Anna Draghi
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Bruno Latour. Essere di questa terra
Recensioni / Giugno 2020Per chi voglia avvicinarsi agli ultimi sviluppi delle scienze sociali e della filosofia, la lettura di Bruno Latour è una tappa cruciale da molti anni ormai. Testi come Non siamo mai stati moderni (elèuthera, Milano 1995) o Politiche della Natura (Raffaello Cortina, Milano 2000) sono presenze fondamentali nelle bibliografie di chi si muove, per esempio, nelle environmental humanities o nel campo del postumano. Sarebbe però riduttivo limitare l’influenza di Latour a questi settori disciplinari, non solo per la difficoltà di assegnare i suoi scritti a una regione del sapere chiara e distinta. Attorno alle opere di Latour si sono affollati artisti, curatori, designer, architetti ed esponenti delle scienze dure. La grande fortuna di Latour mostra la dismisura della nostra fame di saperi ibridi, bastardi, capaci di attraversare più ambiti disciplinari. Gli scritti di Latour sono animati da un doppio movimento: da un lato, lo sguardo si posa fedele su alcuni grandi autori del canone filosofico occidentale come Heidegger e Schmitt, con un approccio che talvolta rasenta la filologia – o addirittura l’esegetica biblica, il primo ambito di specializzazione accademica scelto da Latour; dall’altro, le mani sono indaffarate in una pratica di pensiero tutta contemporanea, impegnate a lambiccare in un laboratorio entro il quale i concetti e i problemi più impellenti del pianeta vengono trattati come reagenti instabili.
Essere di questa terra. Guerra e pace al tempo dei conflitti ecologici (Rosenberg & Sellier, Torino 2019) costituisce un eccellente punto di ingresso in questo antro alchemico, questa zona di sperimentazione. Il calderone di Latour si versa qui in 5 articoli che illustrano lo sviluppo del suo pensiero dal 1995 al 2013: a Modernizzare o ecologizzare. Alla ricerca della settima città (1995) seguono Perché la critica ha finito il carburante. Dalle matters of fact alle matters of concern (2004), L’Antropocene e la distruzione dell’immagine del globo (2013) e infine Guerra e pace al tempo dei conflitti ecologici (2013). La brillante introduzione di Nicola Manghi mette a fuoco il criterio con cui questi materiali sono stati raccolti in un’unica antologia. Il fil rouge di queste indagini di Latour consiste nel «rapporto di forte continuità che gli studi di ecologia politica hanno con le ricerche di sociologia della scienza e "antropologia dei Moderni" precedentemente condotte» (p. 7). La ricostruzione storica proposta prende le mosse dagli studi sulla costruzione della competenza condotti da Latour ad Abidjan, la capitale della Costa d’Avorio, mostrando come essi conducano all’etnografia della vita di laboratorio che farà di Latour uno degli autori cardine dell’antropologia del pensiero scientifico. Tuttavia, nella produzione recente di Latour i riferimenti cambiano. I nuovi protagonisti sono due personaggi concettuali, Gaia e l’Antropocene, alternativi a concetti quali Natura e Modernità. Da un lato, nella concettualizzazione inventata da James Lovelock, Gaia è quel complesso mosaico di entità in costante e imprevedibile negoziato fra loro che materializzano su scala planetaria gli effetti dell’evoluzione della vita sulla Terra. Questo tempo evolutivo profondo si solidifica in un’opera di costruzione collettiva di mondi a cui hanno preso e prendono parte tutte le specie viventi; dall’altro, l’Antropocene trasforma la portata dell’agency umana depositandola in tracce geostoriche, prodotte come eccesso involontario dei sogni moderni di un perfetto controllo dell’ambiente da parte della specie umana.
Gaia e l’Antropocene danno nuovo alimento a una delle missioni principali di Latour, la riconcettualizzazione dei rapporti fra scienza e società, fra natura e politica. Secondo Latour, la Modernità pensava di poter descrivere queste dicotomie concettuali considerando i loro termini reciprocamente autonomi, purificando tutte quelle entità ibride situate sulle frontiere fra i due domini. Latour propone piuttosto di ricondurre naturale e sociale a quell’ampia zona di indistinzione metamorfica in cui essi risiedono prima di essere depurati in una serie di binomi. Entro questa riconfigurazione dei rapporti costituzionali fra gli agenti, anche le scienze assumono un volto ben diverso. Ben lungi dal disincantamento weberiano, i saperi scientifici sono piuttosto pratiche di avventurosa moltiplicazione degli attori che compongono i nostri mondi. Pensare le scienze come operazioni di riduzione o meccanizzazione degli enti è un’allucinazione che appartiene solo alle autodescrizioni dei Moderni e che descrive male la natura pratica del lavoro scientifico. Se gli si rivolge uno sguardo etnografico, le scienze diventano processi di esplorazione di mondi brulicanti di agenti, sistemi per tracciare cartografie di reti cosmologiche. Agli occhi di Latour la conoscenza scientifica è dunque un’attività di continua costruzione dei fatti, ma questa pratica inventiva non è appannaggio esclusivo degli umani. Gli agenti della costruzione dei fatti scientifici vanno ben oltre alla concettualizzazione Moderna della “società”. Gli scienziati non sono i soli soggetti attivi nelle loro ricerche. I loro laboratori non sono luoghi in cui gli enti sono oggetti passivi, messi a completa disposizione, ma spazi di incontro fra umani e cose, mediatori indocili e mai del tutto controllabili, capaci di sgusciare dalle procedure di controllo per intraprendere corsi di azione imprevedibili.
L’articolo che inaugura l’antologia – Modernizzare o ecologizzare? – è un accesso insolito a Latour, ma chiarisce molti degli approcci e dei temi trattati negli anni successivi. Una domanda fondamentale lo guida: data la difficoltà con cui i partiti ecologisti si muovono nell’arena democratica, l’ecologia può essere sciolta in altre sfere del politico? In altre parole, i problemi e i conflitti che sorgono dalla natura possono essere ridotti a questioni di carattere amministrativo o economico? Latour riformula il problema. Il quesito è mal posto perché si richiama a una concezione dell’ecologia relativa a una natura staccata dal corpo sociale, universale ma passiva. In questo senso, l’ecologia si riduce a una serie di contenuti discreti che hanno a che vedere con le difficoltà che talvolta sorgono da un mondo senza umani, che si tratterebbe di tutelare, amministrare o utilizzare come risorsa. Latour propone invece di concettualizzare l’ecologia non come contenuto, ma come processo trasversale che attraversa in modo diffuso tutto l’ambito del politico. Compiuta questa riconcettualizzazione, ecologizzare il politico non significherà quindi tinteggiare di verde gli stendardi lasciando inalterati i corsi d’azione politici, ma «creare le procedure che permettano di seguire un insieme di quasi-oggetti i cui legami di subordinazione rimangono incerti e che obbligano dunque a un’attività politica di tipo nuovo che sia adatta a monitorarli» (p. 61).
Latour propone un aggiornamento concettuale analogo anche in Perché la critica ha finito il carburante? Secondo Latour la pur fondamentale eredità dello sguardo critico rischia di aggravare un già irrespirabile clima di sfiducia generalizzata. I maestri del sospetto sono diventati maestri della paranoia, complottisti sofisticati che dietro a ogni fenomeno vedono agitarsi le ombre titaniche di una serie di antagonisti dalle iniziali in maiuscolo: il Capitalismo, la Tecnoscienza, e così via. Latour conosce bene lo scenario che dipinge perché è stato ascritto alle fila dei suoi agitatori. Entro le science wars – animate fra gli altri da Alain Sokal – la sua antropologia delle scienze era stata considerata l’ennesimo colpo di maglio inferto alla struttura pericolante della fiducia pubblica nel discorso scientifico. Agli occhi dei critici di Latour, dire che i fatti scientifici sono costruiti implica che le scienze mentano, che inventino in modo arbitrario la realtà. Latour va in tutt’altra direzione. La missione di Latour è cosmopolitica, per dirla con Isabelle Stengers. Per Latour, «il critico non è colui che smaschera, ma colui che assembla» (p. 90), che intraprende un faticoso lavoro di composizione di un mondo comune. Non si tratta dunque di demolire i saperi, ma di rallentare la velocità con cui essi costruiscono le proprie unità di senso per risalire ai reticolati e alle assemblee di agenti che li rendono possibili.
Questo lavoro di montaggio e manutenzione di mondi tuttavia comporta dei rischi. Gli ultimi tre articoli si concentrano sugli scossoni epistemologici ed esistenziali assestati da Gaia e dall’Antropocene. La diagnosi di Latour è chiara: in un’epoca di catastrofi quotidiane, di ordinaria sommossa geostorica, gli strumenti offerti dalla Modernità sono ormai ferrivecchi quasi inservibili. «Nel modernismo, le persone non sono equipaggiate con un repertorio mentale ed emozionale adeguato ad affrontare eventi di una simile scala» (pp. 97-98). Non si tratta solo di conoscere meglio: i saperi affrontano inedite sfide di carattere affettivo, entro le quali la posta in gioco è anche l’elaborazione di nuove storie capaci di fornire alla specie umana delle tecniche della presenza, degli scafandri in grado di reggere l’insostenibile pressione ambientale odierna e a venire. Latour lo afferma con James Lovelock e Peter Sloterdijk: il compito è immunologico. Dobbiamo costruire membrane in grado di proteggerci dai capricci di una Gaia irritata e vendicativa. La natura meccanomorfa e indifferente dei Moderni è impraticabile, Gaia e l’Antropocene ci costringono ad assumere una forma di pur debole animismo, a pensare i viventi nonumani e le cose come vivi e attivi: «uno dei principali enigmi della storia dell’Occidente non è tanto che ‘vi siano popoli che ancora credono nell’animismo’, quanto la credenza, piuttosto ingenua, che molti continuano tuttavia a coltivare, in un mondo disanimato fatto di mera materia – e questo proprio nel momento in cui sono essi stessi a moltiplicare le agency, con le quali si trovano ogni giorno più intrecciati. Più ci addentriamo nella geostoria, e più questa credenza sembra difficile da capire» (p. 105).
Gaia, a differenza della Natura a cui eravamo abituati, non può essere dominata perché non può essere osservata dall’esterno, nel sorvolo offerto da una posizione trascendente e disincarnata. Gaia non è una figura di unificazione, non è un ambito di sintesi, un magnete capace di attrarre a nuovo consenso tutti i popoli della terra. Gaia è il nome di un processo in atto, non di un fondamento; con Gaia ci manca la terra sotto ai piedi. Gaia non è neppure raffigurabile come una sfera, un globo, una totalità intera; la sua immagine è piuttosto l’intrico di un grande numero di anelli e di onde d’azione che agiscono e retroagiscono diffondendo i propri effetti in maniera imprevedibile. Interagire con Gaia significa quindi muoversi a tentoni, provando a intercettarla e seguirla con il maggior numero di strumenti possibili. Fra questi strumenti ci sono anche le epistemologie, le storie che i saperi raccontano.
Di quali storie e immagini ha bisogno questo spaesamento generalizzato? Per Latour occorrono narrazioni ed esperienze che consentano di sviluppare «una fusione lenta e progressiva di virtù cognitive, emozionali ed estetiche, ottenuta grazie a mezzi tramite cui gli anelli si fanno sempre più visibili – strumenti e forme d’arte di ogni sorta. A ogni anello, diventiamo più sensibili e più reattivi ai fragili involucri che abitiamo» (p. 143). Questo addestramento a nuove arti dell’immaginazione e dell’attenzione è forse uno dei compiti più preziosi di chi voglia impegnarsi, oggi, a rovistare fra le rovine dei discorsi e delle pratiche che abbiamo ereditato, per sperimentare nuovi bricolage e per provare a inventare tesori costruiti con rottami.
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di Dario Bassani
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Secondo la ben nota, non solo tra i filosofi, “fallacia naturalistica” di Hume, è illecito dedurre dall’essere il dover essere, dai fatti i valori, dalle spiegazioni i desideri, dal vero il bene. Allo studio dell’essere, dei fatti, delle spiegazioni e della verità si sono da sempre dedicate le scienze “dure”, cioè le scienze naturali, che hanno carattere descrittivo, e mai normativo. L’economia, almeno nella sua accezione mainstream, è la scienza sociale generalmente ritenuta più vicina, nei suoi metodi, alle scienze naturali: a tale indirizzo “scientista” ha dato lustro l’opera di Paul Samuelson. Nel 1947 egli diede alle stampe un’opera fondamentale, dal titolo Foundations of Economic Analysis, in cui, tramite l’applicazione dei principi dell’equilibrio termodinamico alla teoria neoclassica dell’equilibrio, delineava un modello elegante ed efficace per una teoria generale dell’equilibrio economico: secondo Samuelson, così come fanno i sistemi fisici, anche i sistemi economici reagiscono alle modifiche esterne, minimizzandone l’impatto e preservando il loro stato di equilibrio. L’opera di Samuelson è rilevante anche per gli scopi teorici che si prefigge dal punto di vista metodologico: l’autore si propone infatti di procedere ad un lavoro di unificazione, attraverso il linguaggio della matematica, dei fondamenti della teoria neoclassica micro e macroeconomica. Nel 1970, egli fu il primo economista americano ed essere insignito del premio Nobel: i suoi meriti scientifici consistono nel progetto di formalizzazione matematica delle tesi elaborate dagli economisti neoclassici, operazione che permise di elevare il livello di analisi della scienza economica.
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Take Away #6 – Cyberpunk
Serial / Maggio 2015Se i poeti sono i legislatori non riconosciuti del mondo, gli scrittori di fantascienza sono i suoi buffoni di corte. Noi siamo Pazzi Saggi che fanno capriole, pronunciano profezie e si grattano in pubblico. Possiamo scherzare delle Grandi Idee perché le nostre sgargianti origini nelle riviste popolari ci fanno apparire innocui. Come scrittori di fs abbiamo ogni ragione di godercela: abbiamo influenza senza responsabilità. Pochissimi si sentono in obbligo di prenderci sul serio, e tuttavia le nostre idee penetrano nella cultura, si diffondono in maniera invisibile come una radiazione di fondo.
Questi due paragrafi formano l'incipit della prefazione di Bruce Sterling alla raccolta di racconti di William Gibson dal titolo La notte che bruciammo Chrome. E' la dichiarazione poetica di uno dei nomi più importanti della fantascienza cyberpunk, premessa a quella che è forse la prima raccolta di racconti cyberpunk prodotta dall'indiscusso padre di questo filone fantascientifico produttivo e visionario, e contiene una delle intuizioni più utili a concepire il funzionamento non solo della letteratura, ma dei segni e della loro propagazione nella semiosfera – concetto che con la sua maggiore fluidità e una metaforica spaziale assolve nel contemporaneo il ruolo che nella modernità toccava alla cultura. Come una “radiazione di fondo”, ci dice Sterling, le idee che trovano spazio all'estrema periferia del campo letterario, in un genere nemmeno degno fino a qualche decennio fa di essere incluso nella definizione di letteratura, e tutt'al più tollerato come passatempo, espandono il campo sul quale si esercitano al punto da dimostrare una capacità di penetrazione ineguagliata persino dai tentativi più lucidi e consapevoli di esercitare una forma di influenza sulla realtà. Il cyberpunk, genere di nicchia se mai ce ne fu uno, anticipa di anni non solo le tecnologie – inventando la rete prima della rete, e le biotecnologie prima delle biotecnologie – ma anche le forme di vita urbane ed economiche.
Ma non vi è solo una certa ironia, nel fatto che tante intuizioni penetranti si siano concentrate in una serie di romanzi, piuttosto che nelle proiezioni assai più serie di scienziati e filosofi. Ciò che Sterling sembrerebbe suggerire, anzi, è che proprio il ruolo defilato, estremamente libero di chi scrive romanzi universalmente considerati irrilevanti dal punto di vista letterario, come la fantascienza fino a tempi assai recenti, permette uno sfruttamento pieno delle potenzialità dell'immaginazione.
Messi di fronte al fatto compiuto della trasformazione tecnica delle nostre vite, che la sci-fi ha da lungo tempo subodorata, non possiamo fare oggi a meno di chiederci come è divenuta possibile questa preveggenza contemporanea, e cercare di indagarne i metodi – se ve ne sono – e le possibilità. In più, occorrerà domandarsi che cosa ci dice davvero la fantascienza sul futuro, sul presente, sulla trasformazione dell'umano?
Benché uno sviluppo coerente e completo di questi temi richieda un tempo ben più lungo di quello che una rubrica come questa – notoriamente consumabile in piedi – può permettersi di esigere dai lettori, proveremo a rispondere a queste domande, e starà a voi scusare la lunghezza con l'interesse, o la povertà dell'elaborazione con la fretta.
Una prima spiegazione della chiaroveggenza della fantascienza ha a che fare con il puro gioco: laddove è permesso e anzi consigliabile lasciarsi alle spalle ogni preoccupazione di serietà, ci si può muovere con la più grande disinvoltura. Protetto dalla cornice della fiction, un autore di romanzi non deve difendere le sue posizioni, motivare proiezioni, addurre dati, studi precedenti, né gli è richiesto il consenso della comunità scientifica. Può utilizzare ciò che sa giustificare, ma anche ciò che non sa giustificare, o anche solo ciò che gli sembra di sapere, cercando di costruire una storia coerente.
In più, libero di ogni scrupolo morale nei confronti dello scenario della propria narrazione, può essere spietato nell'immaginare le conseguenze paradossali del progresso. Il mondo della narrazione gira in folle, in esso il dolore non deve essere elaborato, esorcizzato attraverso procedure retoriche, preso in carica da una coscienza capace infine di risolverlo. La tragedia è l'elemento stesso che fa procedere la storia: spietato, il romanziere è autorizzato a frugarne spudoratamente le viscere. E' questo un atteggiamento impossibile da tenere per uno scienziato nell'esercizio delle sue funzioni, e assai improbabile anche per un filosofo, che per quanto scandaloso o cupo deve pur sempre assicurare alla sua opera un finale edificante, non foss'altro che il rinnovato atto di fede nei confronti dell'essere umano.
La sospensione dell'incredulità che incornicia il laboratorio del romanziere gli permette una felice assoluzione: l'opera non entra nel discorso, e dunque non è soggetta all'ingombrante fardello della verità. Al tempo stesso, essa si sottopone a un diverso test: quello dei lettori. Tali lettori – lo dimostra una certa persistente scollatura fra il giudizio di critica e quello di pubblico – scelgono, apprezzano e rigettano non in base a categorie formali o tematiche, ma secondo regole di attrazione e repulsione più profonde, che hanno a che fare col desiderio.
A tal proposito possiamo ricordare che proprio all'inizio di Vita activa, ormai divenuto un classico della filosofia contemporanea, una parentesi illuminante di Hannah Arendt recita: “La novità era soltanto che uno dei giornali americani più rispettabili riportò in prima pagina ciò che era confinato fino ad allora in una letteratura non precisamente rispettabile, la fantascienza (alla quale, purtroppo, nessuno ha ancora dedicato l'attenzione che merita come veicolo di desideri e sentimenti di massa).”
Nelle parole della Arendt ritroviamo la dicotomia che abbiamo accennato: espulsa dal senso comune – ancora oggi il termine nerd conserva il vago sentore dello stigma sociale che accompagnava gli occhialuti secchioni che ora governano il mondo – la fantascienza affonda le radici nel sentire comune, e forse vi è qualcosa di essenziale nella connessione fra l'indecente, il non rispettabile, e il desiderio e sentimento collettivo che di preferenza vi si riversa.
Come risultato di tutto ciò, troviamo nella migliore fantascienza non solo una spiccata dote di chiaroveggenza riguardo alle successive trasformazioni tecnologiche, ma anche e soprattutto la capacità di riconoscere tali trasformazioni come attinenti l'umano. Il cyberspazio, per decenni pensato nella realtà come opportunità di “scambio di informazioni”, appare fin dall'inizio nella letteratura cyberpunk per quello che ha cominciato ad essere solo da un decennio: la tentazione di evadere dalla propria gabbia di carne per vivere una vita espansa, disincarnata, sublimata attraverso nuvole sfavillanti di dati, incontrando gli altri solo sulla superficie liscia della matrice.
Allo stesso modo, è il cyberpunk a segnare una frattura mai letta abbastanza in profondità con la fantascienza riguardante mondi nei quali la scienza ha “risolto” la realtà o l'ha trasformata in un incubo totalitario. Nei bassifondi abitati da cyborg tossicodipendenti, si mette in scena un mondo nel quale il grande capitale dipende dall'esistenza di spazi deregolamentati almeno quanto dall'esistenza di luoghi disciplinati, e in cui il potere non passa attraverso l'eliminazione dei margini incontrollabili, ma attraverso la loro funzionalizzazione nell'orizzonte di una rivoluzione tecnologica continua. Fra gli agglomerati burocratici, tecnologici e finanziari formati dalle multinazionali, i punk del cyberspazio sono coloro che si muovono sfruttando minuscoli spazi di manovra, vivendo vite di straforo, contando solo sul proprio talento e coraggio per un colpo gobbo che ha il sapore del riscatto esistenziale.
Nessun genere letterario, si può dire, cattura altrettanto bene la precarietà come condizione esistenziale, né la biopolitica come orizzonte definitivo del potere. Il destino dell'umano, nell'epoca del cybercapitalismo, è lì ad aspettarci, messo su carta ormai già venticinque anni fa.
Per fortuna è solo fantascienza.
di Lorenzo Palombini
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Take Away #4 – Società della comunicazione
Serial / Aprile 2015La società contemporanea potrebbe essere a ben diritto essere descritta come società della comunicazione. Con ciò non si vuole ovviamente significare che solo di recente gli esseri umani abbiano appreso a comunicare gli uni con gli altri, né che di recente la comunicazione fra esseri umani abbia fatto grandi passi in avanti: entrambe queste posizioni sarebbero risibili dal momento che la capacità di scambiare messaggi di vario genere è probabilmente più antica della stessa specie homo sapiens, e che proprio nell'età dello strapotere mediatico lo spazio del fraintendimento e dell'ambiguità nella comunicazione pubblica e privata sembra essersi dilatato e dismisura.
Che cosa vogliamo dire dunque quando parliamo di società della comunicazione? Una delle risposte possibili è che attraverso tale etichetta vogliamo descrivere una società nella quale le pratiche comunicative hanno assunto un carattere sempre più centrale e irrinunciabile.
Alle funzioni classiche e per così dire “naturali” della comunicazione – avvertire gli altri dell'avvicinarsi di un predatore, descrivere la posizione di risorse naturali, manifestare la propria subalternità o superiorità rispetto ad un altro individuo nel branco – e alle funzioni più evolute del linguaggio – dimostrare un teorema matematico, esaltare la bellezza di un tramonto estivo, proporre una organizzazione sociale più egualitaria – nell'era contemporanea che abitiamo se ne sono aggiunte innumerevoli altre, come numerosi filosofi e teorici hanno osservato. Fra tutti, basti ricordare l'avvertimento di Guy Debord ne “la società dello spettacolo”, laddove definisce appunto lo spettacolo – termine con il quale egli designa la quasi totalità delle pratiche della comunicazione pubblica e privata, pubblicitaria e politica – in questi termini: lo spettacolo è il capitale giunto a un tale grado di accumulazione da divenire immagine. Il capitale, elemento più puro della struttura sociale, in termini marxisti, diventa sovrastruttura, dipende dalla sovrastruttura. Per di più, ciò non avviene in forza di un indebolimento, ma di un salto qualitativo dovuto alla progressiva accumulazione. Che si voglia partecipare o meno dell'ostilità dichiarata di Debord verso un tale processo, è oggi un fatto che nella sua analisi si ritrovino elementi fondamentali ad una interpretazione del cortocircuito fra rappresentazione e produzione, immagine e merce.
Di questo cortocircuito, che non ci permette più di considerare il linguaggio come una forma di rappresentazione più o meno accurata della realtà, e ci obbliga a considerarlo come il principale strumento di costruzione e trasformazione della realtà in cui viviamo, si è col tempo sviluppata una teoria meno militante e più neutrale, indebitamente chiamata scienza, che tocca le sue vette più alte nel marketing di prodotti[1]. Per rendere più chiara possibile la transizione fra una società in cui le relazioni e le pratiche sono interpretate, giustificate e guidate da una serie di dispositivi simbolici e retorici, e una società nella quale relazioni e pratiche sono costituite da una serie di dispositivi simbolici e retorici, il modo più semplice è dunque quello di esaminare uno dei concetti base di tale scienza della comunicazione. Laddove essa tuttavia se ne serve come di uno strumento, sta a noi, che ci muoviamo fuori dalla filosofia con un andamento filosofico, farne un problema.
Il concetto in questione è quello di target: sfruttando una metafora balistica, il marketing insegna che la comunicazione deve essere, soprattutto, mirata. Ragionando sull'interlocutore ideale, e sulla risposta emotiva che si vuole suscitare, il buon comunicatore saprà come articolare il proprio messaggio. Senza soffermarci sul fatto che il concetto di target lascia ben poco spazio a ciò che si vuole dire – ed è piuttosto evidente che i linguaggi propagandistici e pubblicitari non vogliono dire nulla, mirano semplicemente a un effetto – consideriamo come funziona un caso specifico di targeting.
Ad un primo sguardo, la questione potrebbe sembrare tanto semplice da risultare addirittura banale: si definisce in base a criteri demografici e sociografici il target, vale a dire il pubblico specifico, si studiano i linguaggi e gli argomenti ai quali tale segmento di popolazione risponde più prontamente, e si confeziona un messaggio ad hoc. Fin qui, nulla di nuovo: pur disponendo di strumenti statistici meno raffinati, la precauzione di regolarsi sull'auditorio non era di certo ignota ai retori romani del II secolo. Il modo di procedere dei moderni pubblicitari, tuttavia, deve discostarsi da quello degli antichi retori, per il fatto che mentre Cicerone doveva convincere il suo auditorio di aver bene agito, il moderno comunicatore deve convincere il telespettatore a comprare il prodotto reclamizzato, e per quanto una preposizione possa essere una particella minuscola e trascurata, c'è tutta la differenza del mondo fra convincere di e convincere a. Nel primo caso è coinvolto il giudizio dell'ascoltatore, nel secondo la sua propensione a compiere un'azione. Da questa differenza ne seguono altre, a cascata.
Per formulare un giudizio, o una obiezione, bisogna adoperare strumenti razionali, e la razionalità è innanzitutto un criterio negativo: deve prevenire l'errore. Dunque il retore antico, maestro di razionalità – anche se in malafede e per i suoi scopi –, mostrava paragoni, elaborava categorie, si serviva di topoi retorici, vale a dire luoghi comuni, per dimostrare di essere nel giusto e difendersi dalle obiezioni. Vinceva laddove otteneva quella speciale passività che è il consenso.
Per agire – e per comprare – al contrario, bisogna volere, e la volontà è una spinta positiva, dunque il comunicatore moderno dev'essere maestro di desiderio, scuotere l'inerzia con immagini che “bucano lo schermo”. Egli deve intercettare la volontà del suo pubblico, non il consenso. E dunque, dopo aver effettuato uno studio attento del target, deve cercare di capire non cosa vuole il pubblico, ma come gli si potrebbe far volere proprio quella cosa lì, che deve volere per poterla comprare. È qui che troviamo esibito il nuovo ruolo che nella nostra società assume la comunicazione: i bisogni più malleabili, quelli più facili da ridirezionare, sono bisogni comunicativi, riguardanti il nostro posto nel mondo e la relazione con gli altri esseri umani che lo abitano. Come abbiamo detto, questa è l'era della comunicazione perché piuttosto che rappresentare il mondo il linguaggio lo costituisce. Così accade che il prodotto reclamizzato sia reclamizzato non in quanto prodotto, ma in quanto segno, matrice di una possibilità comunicativa: è esattamente questo, fra l'altro, il significato del concetto di branding.
Lo studio del target non si riflette solo nella scelta delle parole e dei linguaggi adatti alla comprensione di questo o quel segmento sociale, ma serve a raddoppiare narrativamente il soggetto: ciò che lo spettatore vede sullo schermo è la narrazione di un processo comunicativo: nei panni del locutore troviamo una rappresentazione idealizzata e tuttavia riconoscibile del consumatore, mentre nei panni del codice che permette l'espressione di un senso e lo svilupparsi di pratiche simboliche troviamo la merce. Tutto il resto – l'atmosfera, il contesto – è l'esaltazione del successo dell'attività comunicativa.
Siccome la comunicazione si basa su una relazione, il targeting non deve riguardare solo colui che deve consumare, ma anche la relazione in base alla quale il consumo diviene significativo: così nel caso dei prodotti per bambini, una scenetta familiare individuerà il ruolo del prodotto nella comunicazione che esso permette fra madre e figlio, nel caso di una macchina di lusso, una scena di seduzione metterà in evidenza il ruolo comunicativo dell'automobile nel rapporto fra l'uomo di potere ed una bellissima donna.
Va rilevato, tuttavia, che le relazioni comunicative che la nuova retorica del marketing costruisce, hanno una forte componente di virtualità: se uno dei due termini – il locutore – benché idealizzato, si ispira ad un soggetto reale, appunto il target della campagna pubblicitaria che deve riconoscervisi, l'altro – il destinatario del messaggio nel processo comunicativo rappresentato – può benissimo essere del tutto virtuale. Di fatto, un tale stile comunicativo ci inganna sistematicamente sulla natura dei nostri rapporti con gli altri, proponendoci interazioni virtuali ed emotivamente sovraccariche come modello delle nostre relazioni quotidiane, che diverranno, se a tali modelli prestiamo fede, vieppiù insoddisfacenti e vuote.
All'ideale filosofico della chiarezza, che si sviluppa in una pratica della vita comune, per conoscere se stessi e gli altri coinvolgendoli in un vero dialogo, abbiamo così man mano sostituito una pratica quotidiana di analfabetizzazione emotiva e sociale. La cosa peggiore è che l'abbiamo fatto con l'unico intento di vendere più saponette.
[1] Dando ancora ragione a Debord, che teorizza la relazione fondamentale fra merce e spettacolo: “In questo movimento essenziale dello spettacolo, che consiste nel riprendere in sé tutto ciò che nell'attività umana esisteva allo stato fluido, per possederlo allo stato coagulato […], noi riconosciamo la nostra vecchia nemica che sa così bene apparire a prima vista come una cosa triviale, ovvia, mentre è al contrario così complessa e così piena di sottigliezze metafisiche, la merce.” La società dello spettacolo, paragrafo 35
di Lorenzo Palombini
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Paolo Vignola, ne L’attenzione altrove. Sintomatologie di quel che ci accade, si pone un obiettivo ambizioso: praticare una critica radicale della società e del pensiero filosofico contemporanei, a partire da una prospettiva che l’autore chiama sintomatologica. La società contemporanea, caratterizzata da un’economia capitalistica sempre più pervasiva, ingenera nell’uomo, secondo Vignola, una serie di sintomi, come la sofferenza, la precarietà esistenziale, i disturbi dell’attenzione e un più generale deterioramento dei rapporti interpersonali, che, se diagnosticati con chiarezza, possono aprire la strada a un ripensamento critico del mondo odierno.
Il punto di avvio del libro di Vignola risiede nel rovesciamento di un classico filosofico del Novecento, Il disagio della civiltà. Com’è noto, Freud individua, all’origine della società umana, un processo di sublimazione e regolazione delle passioni umane, che, sebbene provochi una pesante ricaduta sulla salute psico-fisica dell’uomo, risulta in ogni caso inevitabile e necessario. Se con questa intuizione Freud, per Vignola, ha il merito di porre la possibilità di una prospettiva sintomatologica, concentrandosi sui sintomi insalubri che una società è in grado di ingenerare sui suoi individui, la posizione freudiana risulta tuttavia pericolosamente normalizzante, poiché non allarga il proprio discorso dall’individuo alla considerazione critica della società nel suo complesso, limitandosi invece a fornire gli strumenti per una forzata adeguazione dell’individuo a essa. Occorre quindi rovesciare il discorso di Freud, appoggiandosi a chi, nel corso del Novecento, ha praticato, più o meno consapevolmente, una vera e propria sintomatologia. Vignola si confronta così con un gran numero di autori – Foucault, Adorno e Horckheimer, Stiegler, Sloterdijk e Carr, tra gli altri - ibridandone con perizia i concetti: la sintomatologia non è infatti una disciplina nuova, nuovo è forse il tentativo di una sua esplicita sistematizzazione filosofica.
Per poter sfuggire alle secche che caratterizzano la posizione di Freud, serve una sostanziale ridefinizione dei concetti di normale e patologico nei confronti del dato sociale. È qui che Vignola si confronta con Georges Canguilhem e l’idea che il mancato adattamento a un ambiente sociale non sia di per sé patologico, ma che anzi manifesti un diversoorientamento del soggetto, volto a una trasformazione in senso normativo della realtà. Tale trasformazione può essere intesa, in accordo questa volta con Gilbert Simondon, come un processo di individuazione, che, in quanto tale, non riguarda tanto il singolo individuo, quanto una realtà preindividuale e collettiva. Il passaggio dal sintomo alla cura, dalla critica all’adombramento di un’alternativa, come ripete a più riprese Vignola, è infatti pensabile soltanto a partire da un noi che rifugga le componenti individualistiche e narcisistiche tipiche della società contemporanea. Il libro non si limita così a evidenziare la salute precaria che caratterizza la realtà sociale odierna nel suo complesso, ma propone anche una possibile linea di fuga, all’insegna dello stoicismo, nella versione corretta e riveduta da Gilles Deleuze: si tratta di controeffettuare il sintomo, inteso come evento, per rendersi, in questo modo, «degni di quel che ci accade» (p. 36).
Se c’è un protagonista, all’interno de L’attenzione altrove, questi è proprio Deleuze, filosofo che da sempre accompagna la riflessione di Vignola, la cui brillante scrittura sembra ormai averne introiettato il lessico. È poi proprio a partire dal Deleuze di Critica e clinica che nasce il progetto di una prospettiva sintomatologica. Secondo Deleuze, infatti, i grandi scrittori della letteratura mondiale sono al contempo i più grandi clinici e sintomatologi della civiltà a loro contemporanea. Il problema di Vignola è allora quello di traslare la possibilità di una sintomatologia da un ambito profetico-letterario a un campo transdisciplinare, che sappia includere sociologia, antropologia e riflessione filosofica.
Per analizzare i sintomi patologici presenti nella società contemporanea, Vignola si confronta a più riprese con i mezzi di comunicazione digitali. L’esplosione dei social network e, più in generale, del web 2.0 ha portato infatti a una serie di pesanti ricadute sulla capacità di attenzione dell’uomo: la velocità, la dispersione e l’overload di informazioni che caratterizzano la rete hanno infatti trasformato la capacità di concentrazione, non più in grado di sedimentarsi con pazienza, ma brevemente iperstimolata da fonti sempre più varie e disparate. Gli effetti di istupidimento collettivo, soprattutto sui cosiddetti nativi digitali, vanno così di pari passo con una mole di informazioni disponibili sempre in aumento. Da qui una captazione dell’attenzione da parte delle più avanzate strategie di marketing, attive in quella che Stiegler chiama telecrazia.
Accanto a una sintomatologia sociale, Vignola si lancia poi in una vera e propria sintomatologia filosofica: si propone cioè di utilizzare la prospettiva sintomatologica, facendola agire all’interno del pensiero filosofico, che sembra oggi attraversato da una crisi profonda. Mancano infatti uno spazio e un tempo propri al filosofare, attività che ha da sempre richiesto, come sostiene Sloterdijk, uno sguardo differente e allenato. La filosofia deve costituirsi come un esercizio di ascesi teoretica, che necessita di un intenso sforzo di concentrazione. Far agire la prospettiva sintomatologica nei confronti delle teoria filosofica, significa allora chiarire le possibilità della filosofia come disciplina che deve dirigere l’attenzione verso un altrove, verso un nuovo re-incantamento del reale, capace di liberare energie in vista di una trasformazione di se stessa e della realtà sociale.
I sintomi individuati da Vignola non sono in definitiva differenti rispetto a quelli presenti in analisi, anche recenti, che diversi filosofi hanno dedicato al rapporto tra economia capitalistica e società: sfaldamento dei legami interpersonali, individualismo esasperato, consumo reiterato, sfruttamento delle facoltà affettive. C’è da chiedersi se queste analisi, che partono spesso da una premessa empirica – e quindi passibile di un certo soggettivismo –, non insistano troppo sulla pervasività del sistema economico sull’individuo. Non esistono oggi esperienze, realtà e sentimenti autonomi o, comunque, interpretabili sotto un segno positivo? La società contemporanea è soltanto un’escrescenza del neoliberismo capitalista o possiede, al suo interno, elementi che, come l’esplosione della rete, la rendono complessa e difficilmente sistematizzabile? Al netto di questi quesiti, L’attenzione altrove si presenta certamente come un percorso affascinante tra un ricco numero di autori, capace di porre alla società di oggi una serie di domande necessarie e ineludibili, che affondano le loro radici nella richiesta di una vita migliore, a partire dalla quale ci si possa prendere cura, con nuova attenzione, della sfera affettiva.
di Giulio Piatti