Nel corso del Novecento i concetti di forma e di struttura subiscono un radicale ripensamento. Emblematico è il caso della matematica: sebbene la nozione di struttura avesse fatto la sua comparsa già nel secolo precedente in ambito algebrico e insiemistico, solo in questo secolo si assiste al tentativo di ripensare l'intera scienza alla luce di tale nozione. Mediante ripetuti procedimenti di messa in isomorfismi, campi eterogenei della matematica (algebra, geometria, analisi, teoria dei numeri, ecc.) sono ricondotti alle trasformazioni trasversali di cui partecipano. Si pensi per esempio al progetto bourbakista di una “architettura della matematica” e ai suoi sviluppi odierni in teoria delle categorie: focalizzando l'attenzione non più sulle strutture ma sulle funzioni, una simile prospettiva si emancipa dal sospetto di “essenzialismo” per dare conto del processo stesso di formazione che dà luogo alle strutture.
Altro ambito in cui il concetto di forma acquista un ruolo centrale è quello della psicologia: dal primo decennio del secolo, un intero movimento, la Gestalttheorie, assume la forma (sinonimo di unità strutturata) come proprio oggetto d’indagine e fonda esplicitamente (Köhler, Wertheimer) la propria teoria della percezione sul postulato di un isomorfismo, almeno nomologico, tra piano fenomenico e fisiologico. Inoltre è proprio da tali ricerche, in particolare da quelle di Meinong ed Ehrenfels, che la fenomenologia eredita una specifica attenzione al rapporto tra parte e intero: dall’elaborazione formale delle intuizioni gestaltiste sulla percezione, come quella sulla differenza tra parti indipendenti e non indipendenti, Husserl getta nuovi basi per la riflessione mereologica.
Lo statuto e la genesi della struttura si ritrova al centro delle analisi strutturaliste, la cui definizione di struttura può essere sintetizzata, prendendo a prestito le parole di Piaget, come un sistema unitario di trasformazioni auto-regolatrici riscontrabile in diversi ambiti del reale e, dunque, oggetto di diverse discipline (linguistica, semiotica, antropologia). Insieme a simili indagini, si assiste alla riformulazione delle filosofie della forma: quelle di Ruyer e Simondon, entrambe fortemente influenzate dai più aggiornati dibattiti scientifici, possono essere prese a esempio giacché rintracciano nella forma una nozione imprescindibile per dar conto dei vari livelli del reale, sia esso fisico o biologico o psicologico.
Anche in altri domini di ricerca, e con altre declinazioni, seppur tangenti alle analisi avanzate in filosofia, prende corpo la formalizzazione della cosiddetta teoria sistemica, soprattutto a partire dai contributi della teoria dei sistemi generali di von Bertalanffy, della cibernetica di Wiener e della teoria dell'informazione di Shannon. Da questa si avviano tanto le indagini sulla morfogenesi e sull'autopoiesi di Maturana e Varela quanto quelle sulla morfogenesi di René Thom, a loro volta riprese, rafforzate e reinnestate in ambito strutturale da Jean Petitot attraverso la proposta di uno strutturalismo morfodinamico o strutturalismo naturalizzato.
Da quest’orizzonte di problemi, sopra succintamente delineato, il sesto numero di “Philosophy Kitchen” intende chiamare a indagare i caratteri epistemologico e ontologico dell'isomorfismo – strettamente connesso a nozioni quali forma e formazione, struttura e strutturazione –, nel tentativo di fare chiarezza sulla valenza della loro relazione. Primo obiettivo sarà dunque quello di appurare la natura, l'evoluzione storica e gli slittamenti di significato che l'isomorfismo, inteso come corrispondenza tra modelli o strutture aventi domini omogenei, ha assunto all'interno delle diverse discipline nel corso del Novecento.
Sul piano epistemologico, si può affermare che l'isomorfismo assume una portata metodica se applicato, in qualità di strumento, a strutture afferenti a livelli diversi di realtà, talvolta apparentemente distanti. Ci si propone allora di valutare la possibilità di generalizzare un simile strumento d’indagine, in vista dell'accrescimento e dell'organizzazione del sapere.
«Che ne è del femminile nell'analisi di un uomo?» Domanda tutt’altro che semplice e ingenua quella postami da una collega psicoanalista e che dava il là a queste note. Tale domanda infatti presuppone non solo che il femminile riguardi un uomo, non meno di una donna, ma anche che l'esperienza analitica possa incidere sul modo in cui un uomo può fare posto e trattare il femminile che lo abita piuttosto che espellerlo sulla via di quelle che, con Freud, possiamo chiamare le “insegne falliche”. Lungi dall'essere riducibile all'organo sessuale maschile, il fallo è piuttosto quel simbolo che, nel linguaggio, viene a rappresentare ciò che l'essere parlante incontra come mancanza fondamentale che specifica del suo essere al mondo. In un certo senso la scoperta freudiana dell'inconscio va di pari passo alla constatazione che, a livello dell'inconscio, esiste una certa “democrazia” tra i sessi per ciò che concerne il fallo. Proprio in quanto il fallo non coincide con l'organo, il pene, esso riguarda entrambe i sessi, pertanto, almeno per il discorso analitico, non è su questo piano che si può operare la differenziazione sessuale tra maschile e femminile. Il fallo è una risposta in termini di avere/non avere a una questione che concerne l'essere nel suo rapporto con il reale del sesso e, al contempo, con il linguaggio in cui esso viene al mondo. Il fallo, dunque, apre e struttura il campo della significazione dell'esperienza umana, introducendo il soggetto a una dialettica fondata sul dono, dialettica che, per quanto illusoria, renderebbe possibile lo scambio tra l'uno e l'altro.
Concepire la differenza tra maschile e femminile a partire dalla logica fallica, logica binaria, fondata sull'opposizione di un più a un meno, lascia aperta l'idea o quanto meno l'illusione che tale differenza sia “eliminabile” in base a un principio di parità tra i sessi del tipo: “Ciò che non ho oggi potrò averlo un domani o, al rovescio, ciò che ho posso prodigarmi a donarlo all'altro, riconosciuto come sprovvisto di tale bene”. Si tratta della dialettica dello scambio che, lungi dall'essere istintivamente predeterminata o “naturale”, tenta di organizzare il rapporto tra gli umani delimitandone il campo della più parte delle manifestazioni cosiddette affettive che presiedono alle condotte dell'individuo nel rapporto coi suoi simili: gelosia, invidia, aggressività, oblatività, amore narcisistico... In questo senso la logica fallica tenderebbe a situare la differenza sessuale lungo una scala graduata che va dal più al meno, in una sorta di gerarchia che determina anche tutte le sfumature immaginarie del potere. Come detto poco fa non è tuttavia su questo piano che, già a detta di Freud, si iscrive la differenza tra maschile e femminile, non meno che sul piano dei caratteri primari che ci si ritrova tra le gambe o, ancora, a partire della prevalenza di una lettera X o Y scritta geneticamente su un'elica alla quale oggi l'essere parlante cerca sempre più di ancorare il suo destino.
Lacan, riprendendo la lettera freudiana, esplora inizialmente la differenza tra i sessi passando anch'egli attraverso la dialettica del fallo, ma operando al contempo uno spostamento e una nuova condensazione rispetto al Freud che troviamo nel testo La significazione del fallo. In relazione al fallo l'uomo si situerebbe dal lato dell'averlo, a differenza della donna che viceversa tenderebbe a collocarsi dal lato dell'esserlo. Queste due differenti posizioni in relazione al fallo specificherebbero la commedia dei sessi e tutta la parata amorosa, soprattutto per ciò che concerne la dimensione del desiderio che interviene tra il maschile e il femminile, qui presi come posizioni sessuate al di là del sesso “biologico”. Biologico è qui tra virgolette in quanto, per ciò che concerne l'essere parlante, il ritrovarsi dal lato uomo o donna non può prescindere dal linguaggio, dalla dimensione simbolica e da come ciascuno, letteralmente, la incarna. Per tale ragione, almeno per il discorso analitico, è improprio parlare di identità sessuale, per il semplice fatto che rispetto all'assunzione del sesso entra in gioco un impossibile, l'impossibile di fare Uno. Il sesso non solo non fa identità ma, al rovescio, è proprio ciò su cui ciascun soggetto incontra la sua disparità assoluta, l'alterità sia nel rapporto con l'altro da sé che in se stesso.
Ebbene, sia in Freud che in Lacan, il femminile, proprio perché non prendibile nella logica regolata dal fallo, a cui può essere invece ricondotto il maschile, si presenta come l'alterità per eccellenza, come quel “continente nero” che sfugge alla presa da parte del simbolico, del linguaggio e che piuttosto rinvia al reale del corpo godente. Lacan non indietreggerà di fronte a questo “continente nero” e negli ultimi anni del suo insegnamento riprenderà la questione del femminile proprio a partire dall'elaborazione di un godimento Altro non regolato e sottomesso alla logica fallica, godimento caratterizzato da una certainfinitezza a cui una donna, non meno di un uomo, può accedere senza tuttavia poterne dire niente poiché strutturalmente imprendibile dal linguaggio. Lacan esplorerà il godimento propriamente femminile non solo a partire dall'elaborazione dell'esperienza analitica, ma anche attraverso lo studio delle testimonianze di alcuni mistici, quali San Giovanni della Croce e Santa Teresa D'Avila.
Torno ora alla domanda di partenza postami dalla collega: «Che ne è del femminile nell'analisi di un uomo?». Non saprei! Ciò che tuttavia da questo non sapere posso dire è che l'analisi si è per me caratterizzata come una sorta di percorso a ostacoli, dove ogni ostacolo rappresentava l'identificazione inconscia prelevata nel campo dell'Altro a cui il mio essere si era come abbarbicato nell'impossibile tentativo di darsi un'identità, un Io con cui rispondere alla meno peggio al proprio essere nel mondo. Ebbene l'analisi, con mia grande sorpresa e non senza orrore, conduceva alla caduta di queste identificazioni che, in ultimo, scoprivo ruotare attorno a un unico perno, a un'identificazione primaria agita rispetto al padre, inteso qui come funzione più ancora che come individuo. La caduta di queste identificazioni “falliche”, su cui tanto il sintomo quanto l'Io si sostenevano, lasciava ora il posto al confronto con un altro “substrato identificatorio” che, con Freud, potremmo chiamare identificazioni per “appoggio” o anaclitiche, radicate in misura maggiore al legame col materno, legame tanto oscuro quanto difficile da sbrogliare, per il carattere tenace di un attaccamento ancorato più alla parzialità di alcuni oggetti afferenti al corpo (bocca, ano, sguardo, voce) che al linguaggio, ovvero all'Altro simbolico. Allora se qualcosa del femminile ha potuto trovare posto nella mia analisi è stato non solo nell'andare appunto al di là delle identificazioni falliche inconsce su cui l'Io si sosteneva, ma anche operando il distacco da quegli oggetti parziali su cui il soggetto basava la sua singolare e ripetitiva modalità di godimento. In questo litorale ritagliato tra il linguaggio ridotto alla sua dimensione di catena significante insensata e il corpo preso non tanto nella sua forma o immagine quanto nella sua esperienza pulsionale, il femminile poteva tratteggiarsi quale effetto “leggero” di un atto che apriva al nuovo, all'impensato, all'inedito, all'intima alterità.
Il fatto che il femminile non si possa dire non toglie tuttavia che, a posteriori, ogni soggetto, uno per uno, non possa rintracciare le contingenze in cui tale incontro avrà potuto effettuarsi. Almeno questo è quanto Freud, prima, e Lacan, dopo, invitano gli analisti a fare. Forse le colleghe analiste potranno, ancora una volta e un domani, tornare a dirne ulteriormente qualcosa e a interrogare i colleghi analisti proprio su questo enigma.
Lo statuto del corpo in psicoanalisi assume un valore diverso dall’organismo vivente nella sua funzionalità biologica. Freud sin dall’inizio si è preoccupato di sottolineare come l’inconscio abbia effetti sul corpo, e con l’isteria, attraverso l’osservazione dei sintomi presentati nel corpo, giunse alla costruzione della teoria delle pulsioni per spiegare l’eccesso di eccitazione nel corpo e la ricerca di una soddisfazione che si ottiene al di là del soddisfacimento di un bisogno.
Nel testo Introduzione alla Psicoanalisi (1989) Freud scrive: «Una pulsione si differenzia da uno stimolo per il fatto che trae origini da fonti di stimolazione interne al corpo, agisce come una forza costante e la persona non le si può sottrarre con la fuga, come può fare di fronte allo stimolo esterno. Nella pulsione si possono distinguere: fonte, oggetto e meta. La fonte è uno stato di eccitamento nel corpo, la meta l’eliminazione di tale eccitamento; lungo il percorso dalla fonte alla meta la pulsione diviene psichicamente attiva» (p. 205). Già in Pulsioni e loro destini (1976) affermava che «la pulsione ci appare come un concetto limite tra lo psichico e il somatico, come il rappresentante psichico degli stimoli che traggono origine dall’interno del corpo e pervengono alla psiche, come una misura delle operazioni che vengono richieste alla sfera psichica in forza della sua connessione con quella corporea» (p. 17). Lacan riprenderà la teoria delle pulsioni di Freud articolandola, però, al linguaggio; infatti egli sottolineò come il significante entri nel corpo rendendolo corpo vivente, che diventa quindi sostanza godente. Pertanto, avviene un effetto di scrittura che il significante esercita sulla superficie corporea, e il significante stesso può farsi veicolo di godimento introducendo del godimento supplementare nel corpo vivente. Dunque, quando parliamo di corpo non ci riferiamo all’organismo, a quello che ci viene dato; inoltre è necessario distinguere il corpo dall’organismo biologico e dal soggetto. Uno degli effetti del linguaggio è di separare il corpo dal soggetto; questo effetto di divisione, di separazione tra il soggetto e il corpo è possibile solo attraverso l’intervento del linguaggio: il corpo deve costituirsi, non si nasce con un corpo. Vale a dire che il corpo si costruisce secondariamente, essendo effetto della parola.
Le prime teorie di Lacan sul corpo risalgono al 1949, alla teoria dello stadio dello specchio, in cui egli sostiene che il corpo è determinato dalla sua immagine. Nello stadio dello specchio, Lacan ci mostra che, affinché si riconosca come un corpo intero e unificato, al soggetto è necessario un altro, dunque è solo per identificazione con l’immagine dell’altro che il bimbo acquisisce l’immagine del proprio corpo. Ciò nonostante la condizione per l’identificazione immaginaria è il suo accesso alla struttura del linguaggio, ossia al registro simbolico. Perciò la costituzione dell’immagine corporea è un effetto che viene dal simbolico. L’immagine del corpo è ciò che dà consistenza all’Io che quindi si costituisce per il tramite dell’immagine del corpo. Già Freud nel testo L’Io e l’Es (1977) aveva messo in connessione l’Io con il corpo affermando che l’Io è un’entità corporea ed è il luogo su cui si proiettano le sensazioni provenienti dalla superficie del corpo (cfr. p. 488). L’Io è un Io-corpo dice Freud (ivi, p. 490). Il corpo immaginario è una forma completa, senza fratture, e ciò avviene per mezzo della rappresentazione di sé che il bambino intercetta nello specchio.
Nel 1972-73, nel Seminario XX Ancora (2011), Lacan torna alla questione del corpo intrecciandola con il godimento; infatti introduce il concetto di corpo come sostanza che gode: «[…] non sappiamo che cos’è un essere vivente, sappiamo soltanto che un corpo è qualcosa che si gode», introduce cioè il corpo nella sua dimensione più pulsionale. Il soggetto dell’inconscio, costituito dal significante, lascia il posto al parlessere ovvero a un essere attraversato dal linguaggio e toccato dal godimento del corpo. Il corpo parlante ha due godimenti, il godimento della parola e il godimento del corpo. Nel parlessere, c'è contemporaneamente godimento del corpo e godimento che si relega fuori corpo, godimento della parola.
Nel 1975 Lacan affronta di nuovo il concetto di corpo nel Seminario XXIII, Il Sinthomo(2006) definendo il corpo come supporto dell’immaginario, rimarcandone però la sua posizione nello spazio e quindi la sua consistenza. Lacan utilizza il termine di pelle per indicare che ciò di cui si tratta è una superficie, ma nel senso di sacco, pelle come sacco che avviluppa, che contiene al suo interno gli organi corporei uniti (cfr. p. 61). Il corpo non è soltanto l’immagine, al punto che l’immaginario implica il godimento, il reale. Il reale, il godimento, che è al di fuori del senso, ma non al di fuori del corpo, è la consistenza del parlessere. Il corpo come sostanza godente, luogo del godimento e per godere, è il supporto del parlessere. Il corpo, dunque, come tempio del godimento, e perché sia tempio del godimento, e non tempio del puro significante, il corpo deve essere vivente. Ma che cosa vuol dire corpo vivente? è la domanda di Jacques-Alain Miller nel suo testo Biologia lacaniana. Egli dice che non si tratta unicamente del corpo immaginario (non si tratta cioè del corpo che è operativo nello stadio dello specchio), ma non si tratta neppure del corpo simbolico. In questo contesto, parti del corpo umano possono essere elevate alla dignità di significanti. Come il fallo per Freud e il seno per Melanie Klein. Non si tratta dunque né di un corpo immagine, né di un corpo simbolizzato. Per Miller (2000), si tratta invece di un corpo vivente, e «[…] il godimento stesso è impensabile senza il corpo vivente: il corpo vivente è la condizione del godimento» (p. 20).
Bibliografia:
S. Freud (1989). Introduzione alla psicoanalisi. In Id., Opere, vol. 11: Torino: Bollati Boringhieri
Id. (1976). Pulsioni e loro destini. In Id., Opere, vol. 8. Torino: Bollati Boringhieri
Id. (1977). L’Io e l’Es. In Id., Opere, vol. 9. Torino: Bollati Boringhieri
J. Lacan (2011), Il seminario, Libro X, Ancora (1972-73). Torino: Einaudi
Id. (2006). Il seminario, Libro XXIII, Il Sinthomo (1975-76). Roma: Astrolabio
J.-A. Miller (2000). Biologia Lacaniana ed eventi di corpo, “La Psicoanalisi” (28)