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Agamben ha fissato questa paradossale continuità discontinua nel dispositivo onto-politico della macchina antropologica, che nel tentativo di fissare il proprio dell’Uomo permette il transito di interi gruppi umani nell’animalità, esponendoli così alla sacertà come uccidibilità senza crimine (Agamben 2002). Tale dispositivo antropo-zoo-genico, che corrisponde alla tradizione stessa del pensiero occidentale, tenta infatti, nel suo moto incessante, di risolvere il mysterium conjuntionis fra zoé e bíos, vita animale e vita umana, ossia dell’emersione stessa della seconda dalla prima. Producendo però inevitabilmente una zona di indistinzione ed eccezione, nel modo dell’inclusione di un fuori (il barbaro e lo schiavo, l’enfant sauvage, insomma l’animale dalle fattezze umane, nella macchina antica), o dell’esclusione di un dentro (l’uomo animale, ossia l’ebreo e i suoi sostituiti, ma anche l’oltrecomatoso, nella macchina moderna). In entrambi i casi, il centro della macchina è perfettamente vuoto come lo è ogni spazio di eccezione, e il missing link della conjunctio che essa dovrebbe elaborare rilancia all’infinito un’operazione di cesure e riarticolazioni il cui risultato non è mai né una vita animale né umana, ma una nuda vita, ossia un vita separata da sé stessa. Ogni tentativo di far funzionare la macchina altrimenti produrrebbe allora lo stesso risultato: la proposta messianica di Agamben è allora di applicare la dialettica in arresto di Benjamin; non tentare più di risolvere il mistero della congiunzione, ma indagare le procedure della disgiunzione biopolitica, così da arrestare la macchina e impedire una nuova operazione dialettica tra Natura e Uomo. Ciò che allora più conterà in tale coppia sarà proprio il tra che la separa impendendone la congiunzione, e, sospendendo reciprocamente i due termini, apre a qualcosa che, insediandosi nell’intervallo, non è più né Uomo né Animale, Umanità o Natura. Secondo un altro topos benjminiano, vita insalvabile nella notte salva, abbandonata e inoperosa, consegnata al gioco e alla voluttà.
M49 cancella le sue tracce, finge e finge di fingere: traccia percorsi depistanti, doppi del suo stesso sviamento, della sua deriva gioiosa. Perché ancora più che sulle fughe e sui depistaggi, sull’agency soggettiva e attiva che l’Uomo non gli riconosce, è sull’agentività passiva, sul fare blocco con le forre e le stagioni, le pendenze della luce nella selva o nelle radure, i muschi, mille altre tracce non umane, che insiste Massimo Filippi nel volume omonimo di recente pubblicazione: M49. Un orso in fuga dall’umanità. Certo, questa fuga è un’evasione, un intreccio di diversivi e diversioni; ma è anche qualcosa come uno svago, una vacanza e un abbandono. Abbandonando l’Uomo e le prigioni che tagliano e organizzano lo spazio della sorveglianza e della cattura, egli si abbandona al possibile rischioso e improgrammabile di una vita insalvabile e perciò esposta a connessioni, contatti, contagi. Fuga, ma insieme linee di fuga lungo le quali egli diviene muschio, diviene forra, picco, bosco, cielo, pendenza di luce, calore, pietra, decodificando in flussi il codice che lo cattura come elemento tassonomico fisso, elemento di Stato e di codice di procedura: unorso non come specimen, ma in quanto molteplicità, e in quanto tale animaux, molteplicità degli animali catturati nel dispositivo di esclusione includente dell’antropogenesi prima ancora di ogni prigionia, eppure in rivolta.
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Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali
Recensioni / Dicembre 2015Vengono smembrati, disossati, cucinati e infine divorati. Vengono sfruttati, vivisezionati, modificati e poi sacrificati. Sono i corpi animali, i corpi che (ancora) non contano – o meglio: contano in termini nutritivi, economici e scientifici; contano, insomma, da un punto di vista antropocentrico. Sono materia prima, corpi senza vita che l’uomo plasma come vuole e di cui non piange le uccisioni. Sono piccoli blocchi, mattoncini di carne sui quali l’uomo ha fondato il suo impero, edificato e arroccato su principi di naturalità che soltanto oggi, con immensa lentezza e fatica, iniziano a essere minimamente scalfiti. La messa in discussione dei ruoli assegnati sulla base del naturalismo è un processo complicato ma necessario, in quanto mina la binarizzazione gerarchizzante di base: natura da una parte, cultura dall’altra. Compiere questo primo ma fondamentale passo porta alla ridefinizione dei ruoli svolti dagli esseri, abolendo l’assegnazione degli stessi “per natura” e sviluppando al contempo nuove concezioni e definizioni: ruolo come dimensione in cui muoversi e agire, ruolo come spazio in cui si fa e si disfa, ruolo come luogo libero che accoglie la performance dell’animale, umano e non. Il volume collettaneo Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali (Mimesis, 2015) si pone l’obiettivo di testare, come annuncia provocatoriamente il curatore Massimo Filippi nell’introduzione, il pensiero di Judith Butler sugli animali. Se la domanda cardine del pensiero butleriano è «A chi spetta una buona vita?», quale lavoro filosofico meglio del suo può essere utile da incorporare negli Animal Studies? Nonostante la pensatrice americana non abbia mai esteso il suo ragionamento agli animali non umani, all’interno dei suoi studi sono molteplici gli strumenti e i concetti potenzialmente utili (vita precaria, performatività, lutto…) alla demolizione delle binarizzazioni oppositive e al riconoscimento dell’altro non umano. Nella breve intervista presentata all’interno del volume, è la stessa Butler a elogiare i movimenti antispecisti per lo sforzo che stanno compiendo in questa direzione: «Sono convinta che questi movimenti si stiano sforzando di mettere in rilievo le reti di interdipendenza che normalmente non vengono riconosciute». Non resta dunque che limare le derive antropocentriche del pensiero butleriano e inaugurare nuove strade che ci portino lontano dalla norma vigente, mettendola in discussione come i movimenti femministi e queer hanno fatto nei decenni passati nei confronti del pensiero eteronormato, riscuotendo successi e raggiungimenti filosofici, sociali e mediatici allora insperati.
Quando il 26 ottobre 2015 l’International Agency for Research on Cancer – agenzia facente parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità – diffonde un comunicato con cui informa che le carni rosse sono probabilmente cancerogene e le carni rosse lavorate (insaccati e salumi) sono sicuramente cancerogene, un brivido di inquietudine – nella maggioranza dei casi carico di inesattezze scientifiche e macchiato di qualunquismo e semplificazioni – getta nello scompiglio l’opinione pubblica. Il dibattito che ne consegue è, ancora una volta, unidirezionale, tecnoscientifico e antropocentrico, ma permette di mettere in luce alcuni aspetti discussi in Corpi che non contano. La reazione alla diffusione del rapporto dello IARC infatti mette in evidenzia ciò che nell’ultimo saggio Federico Zappino definisce “norma sacrificale”. Si tratta della norma che, ancora più di quella eterosessuale, è stata forclusa, resa non evidente, inintelligibile. È il sacrificio perpetuo di miliardi di animali non umani, un sacrificio dal quale è complicato liberarci se si tengono presenti i desideri che esso soddisfa (il consumo di carne a tavola, per esempio) e la soggettivazione di cui è parte integrante. Come liberare l’uomo da un desiderio senza doverlo castrare e reprimere, si chiede Zappino? Seguendo le orme di Foucault, è bene lasciare spazio a nuovi desideri, creativi e fluidi, che possano accompagnare in modo libero la critica alla norma vigente, dando vita a nuove dimensioni da sperimentare.
Quando la norma resiste agli scossoni – come ha dimostrato la reazione al comunicato dell’OMS, veicolata attraverso messaggi pregni di “orgoglio carneo” e talvolta venati da caustico umorismo – allora è necessario intaccarla alla radice; questo è l’obiettivo che si pongono James Stanescu e Richard Iveson, che firmano un saggio a testa nel volume. Entrambi pongono l’accento sull’errore di considerare l’animale quale pre-condizione dell’umano. Si tratta di uno scivolone che coinvolge anche Judith Butler in Frames of war, in cui ancora una volta viene promulgata un’idea profondamente umanista e fondata su quell’eccezionalismo umano che dovrebbe essere la prima barriera da abbattere per intavolare una discussione critica sul rapporto interspecifico. In quest’ottica, lo stesso concetto di umano diventa norma, escludendo tutto ciò che non rientra in questa categoria dalla considerazione e relegandolo a un “grado zero” (l’animalità) su cui fondare il dominio dell’uomo sul mondo. La carne degli animali è quindi soltanto meat [carne morta] e non flesh [carne viva], è altro da noi umani, è soltanto materia inerte potenzialmente cancerosa – salsicce, wurstel, salumi, braciole, costolette – e, soprattutto, non è meritevole di lutto. La morte dell’animale per mano umana non è, dunque, omicidio, cioè morte degna di essere compianta, ma mera uccisione, morte senza ricordo, perché dovuta, necessaria e, ovviamente, naturale.
Accanto al concetto di lutto, a lungo esplorato da Butler nel corso della sua carriera, si affianca quello di vita precaria, punto cardine nell’applicazione del pensiero butleriano agli Animal Studies secondo Stanescu. La precarietà – essendo prima di tutto una condizione collettiva e non individuale – pone l’accento sulle connessioni e sulla relazione ed è, secondo Butler, un luogo da cui partire per riorganizzarsi e non uno stadio da superare. Inoltre, la precarietà è sia un luogo che una questione ontologica; un concetto cruciale ma da cui non dobbiamo difenderci, perché la minaccia reale è l’immunità con cui schermiamo la precarietà stessa, operando processi di disconoscimento nei confronti dell’Altro. «Tramite un rifiuto di affrontare la nostra finitudine corpeizzata e condivisa», scrive Stanescu, operiamo la prima spaccatura che ci separa dal bios dell’animale non umano. Solo muovendo dalla nostra precarietà possiamo comprendere che la carne che consumiamo e sfruttiamo in molteplici modi prima di essere lavorata (e diventare cancerogena) si muove, si nutre e si riproduce: è viva, ed è animale tanto quanto la nostra.
Ogni anno su questo pianeta vengono uccisi circa centocinquanta miliardi di animali non umani. Dati simili sono spesso inintelligibili, nascosti agli occhi dei più e radicati profondamente nella norma sacrificale. Come ricorda Marco Reggio nel suo intervento in Corpi che non contano, il pensiero butleriano può essere fondamentale per portare alla luce i rapporti di interdipendenza fra uomo e animali non umani e per mettere in discussione il concetto stesso di umano e il suo eccezionalismo. Fra le maglie della rete che tenta di opprimere e nascondere la solidarietà interspecifica, si fanno strada studi – come questo – che portano a galla verità soggiacenti, da sempre presenti ma, speriamo, ancora per poco ignorate.
di Danilo Zagaria