A Juan Carrito, benché sia morto libero
Basterebbe un colpo d’occhio al panorama filosofico più recente per ammettere che la critica dell’antropocentrismo sia diventato un tema comune a molteplici orientamenti di pensiero, anche divergenti fra di loro: dal posthuman al realismo speculativo, dal new materialism all’ecopessimismo fino ai pensieri queer e decoloniali, la protesta contro le pretese di centralità ed eccezionalità umana sembrano proliferare alla stessa velocità con cui la minaccia d’estinzione – per lo più rappresentata dal global warming, benché la guerra atomica sembri aver conquistato una nuova giovinezza – si abbatte sulla specie homo sapiens. La sincronia non è casuale e non è soltanto il prodotto di un qualche senso di colpa collettivo per la distruttività dell’azione antropica. È piuttosto il pianeta stesso inteso come tessuto di forze e agentività aliene a fare irruzione s’una scena per millenni ritagliata a misura umana. Va da sé che non ogni critica all’antropocentrismo è anche una critica antiumanista nel senso in cui l’abbiamo conosciuta nel secolo scorso, cioè di quell’Uomo prodotto da sapere-poteri recenti o da una lunga tradizione metafisica e per tagli sacrificali (l’Uomo è sempre maschio, bianco, occidentale, adulto, eterosessuale e cisgender, abile); né, tanto meno, un antispecismo. Ma anche dove manca un’esplicita convergenza, affinità, limitrofie e promiscuità restano innegabili e l’innesto sempre possibile. In qualche modo tutte queste tensioni, vecchie e nuove, sembrano spingersi a vicenda. Sarebbe per esempio difficile negare che la riflessione di Derrida sull’animale non abbia avuto, pur con picchi discontinui, un ruolo da detonatore generale: se nell’opera del filosofo franco-algerino l’avvio di una decostruzione esplicita dell’umanismo risale almeno alla fine degli anni sessanta del secolo scorso, la pubblicazione postuma della conferenza sull’animale autobiografico sotto il titolo L’animale che dunque sono (Derrida, 2006), ha scoperto, per così dire, tutte le carte del gioco critico e insieme rovesciato sul tavolo il rimosso della tradizione antiumanista. Già il concetto (ma qui ne va della concettualità del concetto stesso) di traccia, come delineato fin da Della grammatologia (Derrida, 1998), precedendo e eccedendo le opposizioni tradizionali della metafisica trasmesse alla linguistica, sollecita dalle fondamenta la centralità assegnata al linguaggio umano: la traccia infatti non esiste né come linguaggio né come sistema di segni generale, né come significato né come significante, né come fonema né come grafema, non esistendo in generale secondo i principi dell’ontologia tradizionale che informa anche quei saperi che se ne vorrebbero immuni. Precedendo tutto il sistema delle opposizioni classiche, la traccia, cancellandosi, ne permette l’emersione e al tempo stesso le eccede come un tutt’altro intrinseco e necessario che decostruisce la fondazione della presenza a sé della coscienza attraverso l’autoaffezione della phoné, senza con questo fare a sua volta origine: un sistema di tracce si configura infatti come un gioco di derivazione alla deriva e senza inizio, priva di significante trascendentale; gioco d’iterazione differenziale di simulacri e supplementi. Perciò con scrittura non si deve intendere qualcosa di semplicemente opposto al linguaggio orale: Derrida utilizza questo lessema perché nella tradizione fonologocentrica la scrittura è sempre considerata derivata rispetto alla vocalità costituente del soggetto umano, e, in questo senso, impura e minacciosa; ma è quello stesso predicato della scrittura ad essere generalizzato in maniera da incrinare la presunzione d’origine in generale: scrittura in Derrida non è la parola scritta (che resta pensata sul calco di quella parlata), ma l’essere-derivato di ogni origine. È chiaro dunque che traccia e scrittura precedono ogni soggettività umana, aprendone costantemente la crisi. Ma tale crisi è complessa: nella conferenza intitolata ai Fini dell’uomo (Derrida, 1997, 153-185), la parola fine, nella sua equivocità, indica al tempo stesso la fine e il fine che intrecciano, nella tradizione, critica e rilancio del concetto di Uomo, provocando periodicamente una rottura dialettica della tradizione stessa: non una morte dunque, ma un rilevamento (Aufhebung) dell’Uomo. Molti testi (Derrida 2004; 2009-2010; 2010; 2011) disegneranno da qui in poi una traiettoria dall’andamento carsico, fino ad una sorta di resa dei conti con quello stesso antiumanismo che nell’annuncio ripetuto della morte dell’Uomo occulta ciò che, posto in opposizione ad esso, ne permette l’autocostituzione e il ciclo dialettico delle resurrezioni: l’Animale come singolare generale e indifferenziato, separato dall’Uomo da un confine unico e non suddivisibile, iscritto ancor prima che nel linguaggio, nella capacità di rispondere piuttosto che di reagire secondo il catalogo programmato di un etogramma inderogabile; nel pudore e dunque nella nudità e nella capacità di simulare e dissimulare (il lacaniano fingere di fingere: l’Animale non cancellerebbe le proprie tracce); e perciò di rapportarsi all’ente, a sé, alla morte, secondo la modalità dell’in quanto tale. Proprietà esclusivamente umane che, concatenate in una stessa serie, aprirebbero selettivamente l’accesso alla verità, al mondo, alla presenza a sé della coscienza, all’intenzionalità e alla libertà. Se la strategia di Derrida è quella di una redistribuzione di tale esclusività in violazione all’interdetto a suddividere il confine, permettendo così di riconoscere, nell’identità forzata dell’Animale, una molteplicità di forme di organizzazione della vita e singolarità irriducibili, è lo stesso proprio dell’Uomo (anche quando il proprio designa una carenza o una mancanza) ad venirne così colpito in maniera irreversibile, disseminandosi in un’improprietà comune e non dialettizzabile che piega il potere (nel suo valore sostantivale e verbale) verso una certa passività e dunque vulnerabilità condivise fra i viventi. A venirne scossa non è soltanto l’ontologia, ma insieme l’etica, il diritto, le scienze, la politica: e perciò la legittimazione implicita di ciò che, in riferimento alla zootecnica, Derrida chiama sterminio per moltiplicazione. filosofie per fughe animali
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