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La narratologia oggi, almeno nelle Università italiane e francesi – ma la situazione non è migliore in altri paesi –, soffre anzitutto della mancanza di una chiara identità istituzionale: non dà nome a un settore disciplinare né – se non in casi eccezionali – a insegnamenti curriculari [1]. Per molti la narratologia è morta negli anni Ottanta, con l’esaurirsi dello strutturalismo, ovvero con la corrente critica che per la prima volta le ha dato un nome: narratologie è infatti un neologismo francese coniato da Tzvetan Todorov nel 1969 per indicare una «science du récit» applicabile tanto alla letteratura quanto a tutti gli altri generi discorsivi il cui baricentro è il racconto di una storia («contes populaires, mythes, films, rêves, etc», ); una «théorie de la narration» transdisciplinare (Todorov 1969, p. 10).
Eppure, una teoria della narrazione esiste da ben prima che Todorov le desse un nome consacrandone l’esistenza e la fortuna negli anni Settanta – gli anni di S/Z di Barthes (1970), di Figures III di Genette (1972) e di Logique du récit di Claude Bremond (1973), per limitarci al panorama francese [2]. Nel mondo occidentale, l’archetipo della teoria della narrazione è la Poetica di Aristotele. Si tratta di un fatto noto che troppo spesso viene dato per scontato, al punto che l’invocazione di questo modello è diventata negli anni quasi un luogo comune, un rituale d’obbligo che non necessariamente richiede riflessioni o spiegazioni.
Il libro di Antonino Sorci, La Condition narrative. La fable de l’aristotélisme, uscito per i Classiques Garnier nel 2023, costituisce precisamente un tentativo di rintracciare le radici di questo modello narratologico, di riflettere sulle sue ragioni e, in parte, di interrogarsi sul suo destino: «ce travail se propose de décrire, d’un point de vue nietzschéen, le réseau de concepts et de relations qui s’est formé, au sein de la théorie narrative, autour d’une interprétation partagée de la Poétique d’Aristote» (p. 11). Questa rete di concetti e relazioni che si è formata a partire da una interpretazione condivisa della Poetica viene giustamente battezzata aristotelismo narrativo e l’obiettivo del volume è anzitutto dispiegarla individuandone i punti fermi. Il libro è infatti diviso in due parti: la prima è dedicata alle ragioni storiche che hanno determinato la nascita dell’aristotelismo narrativo e a un suo inquadramento generale; la seconda consiste nell’individuazione e nel dispiegamento di quelli che vengono chiamati «i cinque concetti fondamentali» dell’aristotelismo narrativo: mimesis, mythos, telos, anagnorisis, catharsis. Infine (ma ci torneremo), la prospettiva dalla quale questa storia viene osservata è definita «nietzschiana» perché l’autore stesso non condivide sino in fondo la «favola» dell’aristotelismo cui dedica un intero libro: una prospettiva nietzschiana, dunque, sia perché critica e relativistica nei confronti del suo oggetto di indagine sia perché sorretta dalle critiche che lo stesso Nietzsche fa ad Aristotele nella Nascita della tragedia.
Anzitutto, dunque, nella prima parte del volume Sorci individua tre tappe fondamentali nella costituzione dell’aristotelismo narrativo:
1. La prima è l’esperienza della cosiddetta “scuola di Chicago”, espressione con la quale si indica di solito un gruppo di studiosi riunitisi attorno all’Università di Chicago a partire dal 1930, e a seguire i loro eredi di almeno due generazioni successive. Il manifesto di questa scuola è Critics and Criticism (1952) di Ronald Crane, mentre l’esito più noto e rilevante è The Rhetoric of Fiction (1961) di Wayne Booth: in entrambi, l’esplicito richiamo ad Aristotele serve ad avallare un’idea retorica dell’atto narrativo. Il plot (mythos) non è qui semplicemente una sequenza di eventi, ma un’arte della comunicazione in cui un autore con una precisa intenzione produce sul lettore determinati effetti.
2. La seconda tappa è lo strutturalismo francese degli anni Sessanta e Settanta, dove invece il centro è il mythos in sé, inteso come sequenza di eventi autosufficiente, sia perché autonoma dall’autore che la produce e dal lettore che la fruisce, sia perché indipendente dal vincolo di referenzialità (secondo un’interpretazione parziale del concetto di vraisemblable). Todorov, Barthes e Genette si rifanno continuamente ad Aristotele, ma il momento di consacrazione dell’aristotelismo strutturalista è la pubblicazione della nuova edizione francese della Poetica (Seuil 1980) curata dai filologi Roselyne Dupont-Roc e Jean Lallot e nata dalla loro collaborazione con Todorov e Genette. Traducendo mimesis «rappresentazione» anziché «imitazione», il legame tra mimesis e mythos viene rafforzato, con un gesto di appropriazione della Poetica che offre alla neonata narratologia una radice storica millenaria.
3. La terza tappa è la più recente e consiste nella valorizzazione della dimensione cognitiva ed etica della Poetica compiuta tanto da teorici cognitivisti come Monika Fludernik quanto da filosofe neo-aristoteliche come Martha Nussbaum. Il baricentro si sposta qui sul lettore, sollecitato al contempo nel processo cognitivo dell’esperienza estetica e in quello emotivo di purificazione delle passioni.
Questi orientamenti critici, pur nella diversità a volte anche radicale delle loro posizioni, sono accumunati dalla condivisione dei cinque concetti fondamentali dell’aristotelismo narrativo: mimesis, mythos, telos, anagnorisis, catharsis. Ovviamente, a seconda che l’accento sia posto sull’autore (approccio retorico), sul testo (approccio strutturalista) o sul lettore (approcci cognitivo ed etico), questi concetti chiave possono essere anche profondamente ripensati (l’idea di telos, per esempio, diventerà di volta in volta il telos dell’autore che scrive l’opera, il telos delle funzioni interne al testo, il telos che muove il lettore). Ma non vengono mai meno. La narrazione è una rappresentazione di azioni umane (mimesis) che si dà nella forma di un intrigo (mythos) dotato di un inizio, di un mezzo e di una fine (o meglio, di un fine, un telos); questa rappresentazione, attraverso diversi meccanismi di conoscenza e riconoscimento (anagnorisis), suscita delle emozioni, come la pietà e la paura, e ne garantisce la purificazione (catharsis).
Per Sorci, dei cinque concetti, la catarsi è insieme il più importante e il più problematico. È il più importante perché è quello che più chiaramente ha garantito nei secoli l’efficacia e il valore sociale dell’atto narrativo: è la risposta aristotelica alla condanna platonica della poesia imitativa, bandita dalla Città ideale perché inutile e pericolosa. Il potere catartico delle narrazioni è la garanzia della loro utilità, di qui «l’acquis le plus important de la tradition néo-aristotélicienne de la narrativité : le questionnement des narratologues au sujet des pouvoirs des récits permet de comprendre ceux-ci comme des instruments capables d’éclairer le sens de la condition humaine et du monde dans lequel nous vivons» (p. 288). Se oggi nelle scienze umane e sociali si parla di «svolta narrativa» è anche perché l’aristotelismo ha posto le basi filosofiche per pensare la narrazione come un fenomeno in grado di riconfigurare la nostra esperienza umana (secondo la rilettura della Poetica offerta da Paul Ricoeur in Tempo e racconto). La narratologia diventa così un mezzo per pensare il nostro essere nel mondo. «Le modèle néo-aristotélicien représente de nos jours l’ancre de sauvetage qui a empêché au navire de la recherche narratologique de couler définitivement face à un situation à l’intérieur de laquelle des auteurs n’ont pas hésité à dresser son acte de décès» (p. 12). È solo rivendicando la sua vocazione filosofica che la narratologia ha potuto sopravvivere, uscendo dall’ambito ristretto della critica testuale e dell’analisi del discorso per essere recuperata da altre discipline, come la psicoanalisi, l’antropologia e la sociologia.
Ma a che prezzo? Anzitutto, come ricordavo all’inizio, al prezzo di perdere l’identità e il prestigio che aveva avuto negli anni del suo apogeo in Francia (Baroni 2016, pp. 226-230). In secondo luogo – ed è il punto che spinge Sorci a guardare con sospetto alle proposte fondate sul potere catartico delle narrazioni –, al prezzo di servire da ancoraggio teorico a una visione conciliante ed ecumenica del fenomeno narrativo, secondo l’idea nussbaumiana di una letteratura educatrice e riparatrice, fondata sul caring e sulla reparation (si pensi, in ambito francese, a Réparer le monde di Alexandre Gefen).
Il capitolo sulla catarsi è il più critico ed è l’ultimo del libro prima delle Conclusioni, dove finalmente diventa chiaro quello cui nell’Introduzione Sorci aveva solo accennato: questo è un libro sull’aristotelismo narrativo suo malgrado, perché chi scrive non condivide l’idea della catarsi tragica e preferisce opporgli una visione dionisiaca del fenomeno estetico, fondata non tanto sul piacere del mythos quanto su quello della musica e dello spettacolo, secondo la prospettiva proposta da Nietzsche nella Nascita della tragedia. «Une narratologie non-aristotélicienne me semble nécessaire afin d’explorer toute appréhension du texte qui ne se fonde pas sur la clarification du sens et des émotions. Sans nier la capacité de certains récits à nous éduquer et à nous faire progresser, une narratologie non-aristotélicienne pourrait être utile afin d’explorer les formes d’interaction qui ne sont pas orientées vers le perfectionnement moral des citoyens» (p. 289).
La pars destruens è chiara. Ma la pars construens? Cosa significa sostituire l’aristotelismo narrativo con una visione nietzschiana del fenomeno estetico? Per esempio, cosa vuol dire, concretamente, quando si parla di un un’opera letteraria, preferire a una visione interessata alla coerenza del mythos un approccio che guardi alla musica e allo spettacolo? Aristotele e Nietzsche pensavano alla tragedia come a qualcosa che doveva essere messo in scena, ma di fronte a un racconto scritto, come dobbiamo pensare le idee di musica e spettacolo? Ancora, in che senso il riso è un’emozione non catartica da preferire alla pietà e alla paura?
La brevissima conclusione della Condition narrative lascia aperti troppi interrogativi, abbozza una proposta di cui non si ha però modo di vedere i contorni e, soprattutto, getta una luce negativa su una «favola» che per pagine e pagine ci è stata narrata senza chiederci di sospendere la nostra incredulità (i dubbi di Sorci nei confronti del modello aristotelico sembrano cioè minori delle sue certezze). Ma, appunto, si tratta di una luce troppo flebile per oscurare ciò che l’ha preceduta, perché probabilmente una favola alternativa a quella aristotelica ancora non ci è stata raccontata – e chissà se questa favola sarebbe un mythos auspicabile.
Gloria Scarfone
Note
[1] Su questo problema riflette Baroni 2016.
[2] Negli Stati Uniti sono per esempio gli anni di Cohn 1978.
Bibliografia
Baroni, R. (2016). L’empire de la narratologie, ses défis et ses faiblesses. Questions de communication, 30, pp. 219-238
Todorov, T. (1969). Grammaire du Décaméron. Mouton: La Haye.
Cohn, D. (1978). Transparent Minds. Narratives Modes for Presenting Consciousness in Fiction. Princeton University Press: Princeton.