“New York is shit” (concettualmente, “tanta roba”), dichiara Irma, tra le personalità di spicco della scena teche creativa newyorkese contemporanea mentre girovaghiamo nella nuovissima sede di Grand Central Tech, tra Madison e Park Avenue, e dalle cui finestre si guarda l’iconica Grand Central Station, simbolo storico di degrado e rinascita contemporanea urbana. Forse Foucault si è immaginato uno spazio così, una città cosìquando, a ragione, aveva detto che «quella attuale potrebbe […] essere considerata l’epoca dello spazio. Viviamo nell’epoca del simultaneo, nell’epoca della giustapposizione, nell’epoca del vicino e del lontano, del fianco a fianco, del disperso. Viviamo in un momento in cui il mondo si sperimenta […] come un reticolo che incrocia dei punti e che intreccia la sua matassa» (Foucault 2010). In effetti, a New York c’è “il mondo” e nel mondo c’è New York: dello spazio si è fatto il mito e del mito uno spazio. Pensateci: anche se non ci siete mai stati, già sapete come vi sentireste, conoscete le sue strade, godete dei suoi sapori e vi immaginate in modo chiaro: non è questa l’essenza del mito? Uno script da seguire rispetto a un certo modo di stare al mondo?
Seguire il filo del dispiegarsi del mito, il suo fissarsi negli oggetti e sui muri, nelle parole dette e taciute, è importante e lo è per diverse ragioni, in primis per svelarsi in quanto soggetti assoggettati al suo discorso. In altre parole, per esser un po’ meno governati (Foucault, 2007), è necessario comprendere bene la presa discorsiva a cui siamo assoggettati. E’ un gesto che mostrerebbe a tutti gli effetti la vulnerabilità dell’uomo rispetto all’ambiente già fatto in cui nasce. Non è forse paradossale che in un mondo sempre più pervaso da oggetti che regolano, delimitano, direzionano il discorrere e il trascorrere quotidiano della vita, gli umani amino, forse ancor più che in passato, narrar di se stessi una storia finalmente libera da vincoli? Il controllo è una cosa assai strana: nessuno ama riconoscere la presa che altri esercitano su di sé, neppure il masochista che gode di questo, ma ancora meno quella esercitata dai non-umani, quasi che il controllo e il potere esistessero soprattutto in stati d’eccezione, i soli degni d’essere ricordati nelle pagine dei libri di storia. «L’illusione della libertà psichica dell’individuo», scriveva Freud ne L’Interpretazione dei Sogni con riferimento alle resistenza a prendere i sogni (notturni, in questo caso) sul serio. Questa resistenza si rinviene, come il padre della psicoanalisi ha argomentato in più occasioni, anche con rifermento ai sogni diurni, alle fantasie e, più in generale, aggiungerei, agli spazi immaginari. Questi ultimi, si può supporre, si collocano in una sorta di curioso spazio altro, di soglia, abitato da umani e non-umani e dotato in certo senso di “vita propria”. In effetti, il problema dell’immaginario sta proprio in questo, ovvero nel fatto che si spinga, nei suoi effetti, molto al di là di quanto sia stato autorizzato a spingersi: questo perché è governato, nel caso del sogno diurno, da “Sua maestà” l’Io (con il conclamato vizietto di credersi onnipotente) oppure, nel caso del sogno notturno, da indisciplinate pulsioni inconsce che incessantemente ambiscono a “sfondare” gli argini creati per contenerli. Paradossalmente - questo il secondo paradosso - nel momento in cui si rinviene un continuo richiamo all’immaginario, ci si nutre di esso secondo una certa letteratura critica e da un punto di vista pratico si fonda la politica sulle sue fragili basi, al tempo stesso si nega con forza la presa che esso stesso ha su di noi. Non è forse fantasioso dire di “cambiare il mondo” tramite l’innovazione? Eppure non è forse vero che, a parte per i cinici, questo è il lessico divenuto ormai familiare, circolante e dominante nello spazio sociale contemporaneo? Un buon esercizio per approfondire la questione consiste nel mettere al lavoro il concetto analitico di “fantasia”, iniziando innanzitutto col dire che è cosa serissima.
di Anna Paola Quaglia
Freud, S. (2010), Introduzione alla psicoanalisi (1915), trad. ita. di Tonin Dogana M. e Sagittario E., Torino, Bollati Boringhieri, pp. 606.
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