-
-
PK#15 \ settembre 2021
a cura di Philosophy Kitchen
Alla base di qualsivoglia discorso che potremmo definire in senso lato “ecologico” vi è l’idea che vi siano buone ragioni per prendere congedo da una separazione netta tra la sfera naturale e quella abitata da enti parlanti che operano con artefatti e simboli. Resta, certo, la differenza ontologica tra specie naturali e artefatti rimane, naturalmente, ma ciò non implica che si debba continuare a pensare gli animali umani, gli altri animali e gli esseri viventi in generale attribuendo a questa differenza una funzione discriminatoria fondamentale. Si è rivelato pertanto produttivo puntare lo sguardo in direzione della struttura violenta di ogni dispositivo che, sfruttando le risorse retoriche offerte da una nozione di natura intesa come luogo dell’immutabile, intende rendere impensabile la modificazione di specifiche pratiche sociali. A ciò ha dato un contributo decisivo il pensiero femminista, il quale, mirando a decostruire la logica del dominio patriarcale, non poteva non incrociare la logica che governa tutte quelle forme di antropocentrismo che, direttamente o indirettamente, giustificano il dominio violento degli umani su animali di altre specie e, più in generale, sugli enti naturali. Non a caso, Donna Haraway, una delle pensatrici femministe più importanti, ha dato contributi teorici decisivi alla riflessione sulla questione ecologica. Se da un lato certe forme di ecofemminismo inducono alla perplessità per via dei loro tratti misticheggianti e neopagani (si pensi qui principalmente a Starhawk), resta vero che le istanze femministe non possono non costituire il punto di partenza privilegiato per iniziare a porre le basi sia filosofiche, sia etico-politiche della questione ecologica.
Da un punto di vista prettamente teoretico, invece, va segnalato come nello scenario filosofico contemporaneo, si sia installato – anche se non fino al punto da diventare egemone – un regime discorsivo che privilegia un’ontologia del processo, in virtù della quale l’insieme degli enti che popolano il pianeta Terra è un insieme che comprende il pianeta stesso che li ospita. Tale regime discorsivo (che volentieri ospita il riferimento ad autori come A.N. Whitehead, G. Simondon, G. Deleuze, F. Guattari, I. Stengers, B. Latour) permette di comprendere come i salti e le discontinuità tra l’inorganico e l’organico non comportino cesure nette, confini invalicabili, ma siano eventi che attestano l’accadere di osmosi e di interazioni. Tra essi va compreso anche quell’evento singolare che, in seno al collettivo degli enti che assieme formano l’ecosistema, è la comparsa della cognizione: evento singolare tra altri, quest’ultima si configura solo più come un sottoinsieme di atti, che solitamente definiamo “mentali”, i quali permettono a ciò che un tempo si chiamava “natura” di riflettersi, di coimplicarsi in un gioco di rimandi tra processi dotati ciascuno di una propria durata e di una propria consistenza. Da qui il quesito seguente: come concepire un’ontologia dei processi che descriva come le singolarità e gli eventi coesistano disseminandosi in seno a tali processi, senza mai trascenderli?
Si enuncia, a partire da qui, un’ulteriore implicazione del pensiero ecologico: l’unità che marca la consistenza ontologica di un individuo emerge come un simulacro, se non come una comoda scorciatoia concettuale, per essere sostituita da apparati descrittivi che, nel nominare un ente, intendono annetterlo al resto con cui esso si intreccia simbioticamente. Entro tale prospettiva, i viventi si configurano come olobionti (questo il felice neologismo coniato da L. Margulis): associazioni, composizioni o assemblaggi di un ospite e dei membri di altre specie che vivono al suo interno o attorno ad esso, e che insieme formano un’unità ecologica. È di questa unità sistemica che ha senso occuparsi, e non degli individui che la compongono (nel solco di autori come D. Haraway e I.E. Wallin). La simbiosi è una delle cause per spiegare la comparsa della novità evolutiva e l’origine di nuove specie nel mondo, completando così il quadro delle teorie evolutive tra stasi e salti. Acquistano, in tale contesto, tutta la loro importanza altre forme di vita, come virus, batteri o vegetali (che un pensiero incapace di abbracciare davvero la rivoluzione introdotta dal postumanesimo relegava in un secondo piano), i quali hanno un’organizzazione decentrata, che ben corrisponde al modello della rete. Ciò li induce a integrare le informazioni provenienti dall’ambiente conformemente a una processualità lungo la quale i confini tra un individuo e l’altro sfumano in modo significativo. E allora siamo portati a chiederci: come una teoria dei simbionti, o degli olobionti, può fornire un contributo a radicalizzare quella trasformazione delle scienze del vivente in atto ormai da parecchio tempo secondo la quale il rapporto tra l’individuo e la nicchia che lo ospita va compreso utilizzando dispositivi concettuali che superino la distinzione classica tutto/parti?
Ad ontologie del processo e della simbiosi si affiancano epistemologie che mettono in primo piano il pensiero della complessità sistemica (si fa qui riferimento ad autori come G. Bateson, R. Ashby, H. von Foerster, H. Atlan, N. Luhmann). Qui la riflessione teorica sull’intreccio tra i viventi e le nicchie che li ospitano diventa la via maestra per affrontare ciò che più comunemente viene in mente quando si evoca il termine ecologia, ovvero il suo presentarsi principalmente nella forma di problema, di richiesta di soluzioni a fronte di una situazione avvertita come critica in senso globale. Ora, è pressoché impossibile andare oltre questa generalissima affermazione senza incontrare infiniti punti di vista, descrizioni, strategie, pratiche e provvedimenti diversissimi tra loro e in alcuni casi in profonda contraddizione l’uno con l’altro. Emerge così che la domanda su come risolvere la crisi ecologica è in realtà una domanda su noi stessi, in quanto enti coimplicati nel sistema che si vorrebbe preservare dalla catastrofe. In senso epistemologico, l’ecologia può essere vista come una nozione autologica, o meglio come la forma attraverso la quale il paradosso della fondazione ultima si dà nel reticolo di saperi della contemporaneità. Come una sorta di interrogazione di livello superiore rispetto a quelle dei diversi sistemi specializzati, un’osservazione che ha per oggetto un campo problematico nel quale l’osservatore (l’interrogante) è sempre incluso. Questo significa che la domanda ecologica sfida i differenti sistemi specializzati della società contemporanea – le diverse discipline che si prefiggono di conoscere il mondo “fissando” in esso i loro oggetti e costruendo programmi applicativi per essi – mettendoli di fronte non ad un oggetto che rientra nel campo di osservazione che li caratterizza ma al contrario a quell’oggetto costitutivamente esterno a loro e tuttavia decisivo per la loro coerenza e stabilità interna. La domanda ecologica tematizza così il comune di tutti i sistemi specializzati della società, senza tuttavia renderlo disponibile, se non nella forma della “complessità indeterminabile”. Possiamo allora domandarci: quali effetti epistemici produce il concetto di “ecologia” sul discorso scientifico e sociale? Come si riarticolano, in tale contesto, i rapporti tra epistemologia e ontologia in vista di una nuova forma di stabilità di stati ed eventi postcatastrofica?
Tra tutti i sistemi che, sia globalmente che localmente, hanno un interesse privilegiato a confrontarsi con il deterioramento delle condizioni di vita sul pianeta vi sono i sistemi politici e quelli giuridici, strettamente intrecciati tra loro. È ragionevole supporre che, se continuano a darsi nella forma dell’ordinamento post-westfalico, le istanze chiamate a prendere decisioni vincolanti per tutti non faranno altro – e ciò ben al di là dell’occidente europeo – che gestire la tragedia dei beni comuni acuendo le ineguaglianze e le ingiustizie, garantendo ad alcuni e negando ad altri l’accesso a risorse che diverranno sempre più scarse e preziose. Nato per proteggere la proprietà, il diritto, anche nelle sue articolazioni istituzionali internazionali, non sembra capace di garantire a tutti l’accesso a risorse vitali divenute più scarse, né di porre limiti all’azione di coloro che, con il loro operato, producono, seppur indirettamente, danni rilevanti all’ecosistema. Se il diritto serve a generare libertà, in primis la libertà d’impresa, il costo che si dovrebbe pagare per accettare una limitazione all’agire ecologicamente dannoso coinciderebbe con una significativa riduzione della libertà (lo mostrò bene R. Coase nel suo saggio sul problema dei costi sociali). D’altra parte, gli stati che volessero farsi carico, attraverso specifiche misure giuridiche, della salvaguardia dei beni comuni potrebbero salvare il pianeta se ad agire in tale direzione fossero in pochi? La risposta ovviamente è no. Alcuni potrebbero allora ritenere auspicabile che sorga un nuovo Leviatano globale, dotato del potere di imporre a tutti gli attori il rispetto di quelle norme che avrebbero come obiettivo la salvaguardia di condizioni di vita planetarie decenti per tutti, per noi e le altre specie. Se invece si intende prendere distanza da un simile scenario, dai tratti fortemente distopici, ci si deve chiedere quale forma di coordinamento tra stati nazionali dovrebbe emergere per far sì che vengano attuate, nell’arco dei prossimi decenni, misure tali da impedire la catastrofe ecologica. Quest’ultima, di fronte a queste ipotesi tra loro inconciliabili, costringe a riflettere non solo e non tanto su cosa mangiamo e cosa consumiamo, ma soprattutto sulla natura stessa della sovranità. Risulta quindi urgente domandarsi: se nell’ordinamento post-westfalico entro cui si muove ogni singolo stato sovrano ciò che conta sono i rapporti di forza tra stati, come può articolarsi politicamente la coappartenenza dell’umano e del suo ambiente sapendo che un’irriducibile conflittualità tra interessi mina alla radice la possibilità di porre al centro dell’agenda globale il tema dell’interesse comune nei confronti della salvaguardia dell’ambiente?
In sintesi, gli snodi tematici che vorremmo fossero trattati all'interno di questo numero sono:
- la natura come piano, tra ontologia del processo e costruzionismo (prospettive ecologiche a partire da G. Deleuze, G. Simondon, F. Guattari, A. N. Whitehead, B. Latour)
- l'ecologia intesa come articolazione interna alla teoria dei sistemi e ai paradigmi della complessità (G. Basteson, R. Ashby, H. von Foerster, N. Luhmann)
- il concetto di ecologia e le sue implicazioni epistemologiche in relazione alla ri-articolazione dell'enciclopedia dei saperi
- sviluppi delle teorie dell'evoluzione che tengano conto dei rapporti interspecifici (I.E. Wallin, L. Margulis, D. Haraway)
- forme di auto-organizzazione vivente e di socialità animali, vegetali, microbiologiche ecc. (I. Stengers, V. Despret, B. Morizot, A. Tsing)
- intreccio tra predominio maschile, sistema economico ed ecologia nella teorizzazione dei movimenti femministi, con la particolare attenzione critica al dibattito ecofemminista (D. Haraway, K. Warren, V. Plumwood)
- modelli di governance giuridico-politico-economici in risposta alla crisi ecologica (G. Teubner).
- analisi degli effetti generati dalla ridefinizione delle nozioni di "spazio" e "abitare" nel contesto delle teorie del progetto architettonico e urbanistico
Lingue accettate: italiano, inglese, francese, tedesco.
Procedura: si prega di inviare, all'indirizzo redazione@philosophykitchen.com, entro il 15 ottobre 2020, un abstract di massimo 6000 caratteri, indicando il titolo della proposta, le modalità in cui si intende sviluppare il tema e l'argomentazione, una bibliografia essenziale e ragionata nonché una breve biografia dell’autore o dell’autrice. Le proposte verranno valutate dai curatori e dalla redazione. Gli esiti della selezione verranno resi noti, via mail, entro il 9 dicembre 2020. I contributi selezionati dovranno poi essere inviati entro il 31 marzo 2021 e saranno sottoposti a double-blind peer review. La pubblicazione del volume è prevista per settembre 2021.
-
Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali
Recensioni / Dicembre 2015Vengono smembrati, disossati, cucinati e infine divorati. Vengono sfruttati, vivisezionati, modificati e poi sacrificati. Sono i corpi animali, i corpi che (ancora) non contano – o meglio: contano in termini nutritivi, economici e scientifici; contano, insomma, da un punto di vista antropocentrico. Sono materia prima, corpi senza vita che l’uomo plasma come vuole e di cui non piange le uccisioni. Sono piccoli blocchi, mattoncini di carne sui quali l’uomo ha fondato il suo impero, edificato e arroccato su principi di naturalità che soltanto oggi, con immensa lentezza e fatica, iniziano a essere minimamente scalfiti. La messa in discussione dei ruoli assegnati sulla base del naturalismo è un processo complicato ma necessario, in quanto mina la binarizzazione gerarchizzante di base: natura da una parte, cultura dall’altra. Compiere questo primo ma fondamentale passo porta alla ridefinizione dei ruoli svolti dagli esseri, abolendo l’assegnazione degli stessi “per natura” e sviluppando al contempo nuove concezioni e definizioni: ruolo come dimensione in cui muoversi e agire, ruolo come spazio in cui si fa e si disfa, ruolo come luogo libero che accoglie la performance dell’animale, umano e non. Il volume collettaneo Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali (Mimesis, 2015) si pone l’obiettivo di testare, come annuncia provocatoriamente il curatore Massimo Filippi nell’introduzione, il pensiero di Judith Butler sugli animali. Se la domanda cardine del pensiero butleriano è «A chi spetta una buona vita?», quale lavoro filosofico meglio del suo può essere utile da incorporare negli Animal Studies? Nonostante la pensatrice americana non abbia mai esteso il suo ragionamento agli animali non umani, all’interno dei suoi studi sono molteplici gli strumenti e i concetti potenzialmente utili (vita precaria, performatività, lutto…) alla demolizione delle binarizzazioni oppositive e al riconoscimento dell’altro non umano. Nella breve intervista presentata all’interno del volume, è la stessa Butler a elogiare i movimenti antispecisti per lo sforzo che stanno compiendo in questa direzione: «Sono convinta che questi movimenti si stiano sforzando di mettere in rilievo le reti di interdipendenza che normalmente non vengono riconosciute». Non resta dunque che limare le derive antropocentriche del pensiero butleriano e inaugurare nuove strade che ci portino lontano dalla norma vigente, mettendola in discussione come i movimenti femministi e queer hanno fatto nei decenni passati nei confronti del pensiero eteronormato, riscuotendo successi e raggiungimenti filosofici, sociali e mediatici allora insperati.
Quando il 26 ottobre 2015 l’International Agency for Research on Cancer – agenzia facente parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità – diffonde un comunicato con cui informa che le carni rosse sono probabilmente cancerogene e le carni rosse lavorate (insaccati e salumi) sono sicuramente cancerogene, un brivido di inquietudine – nella maggioranza dei casi carico di inesattezze scientifiche e macchiato di qualunquismo e semplificazioni – getta nello scompiglio l’opinione pubblica. Il dibattito che ne consegue è, ancora una volta, unidirezionale, tecnoscientifico e antropocentrico, ma permette di mettere in luce alcuni aspetti discussi in Corpi che non contano. La reazione alla diffusione del rapporto dello IARC infatti mette in evidenzia ciò che nell’ultimo saggio Federico Zappino definisce “norma sacrificale”. Si tratta della norma che, ancora più di quella eterosessuale, è stata forclusa, resa non evidente, inintelligibile. È il sacrificio perpetuo di miliardi di animali non umani, un sacrificio dal quale è complicato liberarci se si tengono presenti i desideri che esso soddisfa (il consumo di carne a tavola, per esempio) e la soggettivazione di cui è parte integrante. Come liberare l’uomo da un desiderio senza doverlo castrare e reprimere, si chiede Zappino? Seguendo le orme di Foucault, è bene lasciare spazio a nuovi desideri, creativi e fluidi, che possano accompagnare in modo libero la critica alla norma vigente, dando vita a nuove dimensioni da sperimentare.
Quando la norma resiste agli scossoni – come ha dimostrato la reazione al comunicato dell’OMS, veicolata attraverso messaggi pregni di “orgoglio carneo” e talvolta venati da caustico umorismo – allora è necessario intaccarla alla radice; questo è l’obiettivo che si pongono James Stanescu e Richard Iveson, che firmano un saggio a testa nel volume. Entrambi pongono l’accento sull’errore di considerare l’animale quale pre-condizione dell’umano. Si tratta di uno scivolone che coinvolge anche Judith Butler in Frames of war, in cui ancora una volta viene promulgata un’idea profondamente umanista e fondata su quell’eccezionalismo umano che dovrebbe essere la prima barriera da abbattere per intavolare una discussione critica sul rapporto interspecifico. In quest’ottica, lo stesso concetto di umano diventa norma, escludendo tutto ciò che non rientra in questa categoria dalla considerazione e relegandolo a un “grado zero” (l’animalità) su cui fondare il dominio dell’uomo sul mondo. La carne degli animali è quindi soltanto meat [carne morta] e non flesh [carne viva], è altro da noi umani, è soltanto materia inerte potenzialmente cancerosa – salsicce, wurstel, salumi, braciole, costolette – e, soprattutto, non è meritevole di lutto. La morte dell’animale per mano umana non è, dunque, omicidio, cioè morte degna di essere compianta, ma mera uccisione, morte senza ricordo, perché dovuta, necessaria e, ovviamente, naturale.
Accanto al concetto di lutto, a lungo esplorato da Butler nel corso della sua carriera, si affianca quello di vita precaria, punto cardine nell’applicazione del pensiero butleriano agli Animal Studies secondo Stanescu. La precarietà – essendo prima di tutto una condizione collettiva e non individuale – pone l’accento sulle connessioni e sulla relazione ed è, secondo Butler, un luogo da cui partire per riorganizzarsi e non uno stadio da superare. Inoltre, la precarietà è sia un luogo che una questione ontologica; un concetto cruciale ma da cui non dobbiamo difenderci, perché la minaccia reale è l’immunità con cui schermiamo la precarietà stessa, operando processi di disconoscimento nei confronti dell’Altro. «Tramite un rifiuto di affrontare la nostra finitudine corpeizzata e condivisa», scrive Stanescu, operiamo la prima spaccatura che ci separa dal bios dell’animale non umano. Solo muovendo dalla nostra precarietà possiamo comprendere che la carne che consumiamo e sfruttiamo in molteplici modi prima di essere lavorata (e diventare cancerogena) si muove, si nutre e si riproduce: è viva, ed è animale tanto quanto la nostra.
Ogni anno su questo pianeta vengono uccisi circa centocinquanta miliardi di animali non umani. Dati simili sono spesso inintelligibili, nascosti agli occhi dei più e radicati profondamente nella norma sacrificale. Come ricorda Marco Reggio nel suo intervento in Corpi che non contano, il pensiero butleriano può essere fondamentale per portare alla luce i rapporti di interdipendenza fra uomo e animali non umani e per mettere in discussione il concetto stesso di umano e il suo eccezionalismo. Fra le maglie della rete che tenta di opprimere e nascondere la solidarietà interspecifica, si fanno strada studi – come questo – che portano a galla verità soggiacenti, da sempre presenti ma, speriamo, ancora per poco ignorate.
di Danilo Zagaria